"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
L’intuizione giovanile.
Le prime intuizioni di Griffiths sull’Advaita si possono rintracciare nei suoi
scritti giovanili e nelle sue prime esperienze di contatto con la natura, in
forma potenziale. Si tratta ovviamente di un livello ancora ingenuo,
specialmente in relazione alla natura, come ne troviamo tra i poeti e i filosofi
del romanticismo. Ma lo possiamo ricondurre all’intuizione dell’unione
epistemologica tra conoscitore e conosciuto.
Infatti un aspetto fondamentale dell’esperienza Advaita è esperito a livello del
profondo. In termini ermeneutica, si sperimenta un’unione in ogni conoscenza
veramente significativa; un nesso tra il conoscitore e la cosa conosciuta. Tra
conoscitore e conosciuto c’è una sorta di unione o “connaturalità” che il
conoscitore sperimenta con il conosciuto mediante la conoscenza. A livello
spirituale c’è una relazione fondamentale tra l’esperienza e la cosa esperita,
sia nell’esperienza della trascendenza di sé mediante la conoscenza unitiva, che
nella resa d’amore. Perciò ad un livello profondo, non ci può essere vera
conoscenza senza una sorta di intimo amore, né un genuino amore senza almeno
qualche conoscenza. In questo senso non c’è dualità tra l’atto di conoscere e
l’atto di amare e che abbiamo una continua relazione tra conoscitore e
conosciuto, come tra amante e amato. Questa intuizione dell’advaita in ogni
relazione ha accompagnato Griffiths per tutta la vita.
La prima articolazione dell’Advaita (1931-1968)
Griffiths fu in stretto contatto con filosofi del Vedanta fin dal suo arrivo in
India nel 1955. Dai suoi incontri con esponenti e interpreti del Vedanta a
Bangalore trasse sentimenti di ammirazione mista a scetticismo nei confronti del
Vedanta. Ambivalenza che si riscontrerà nei suoi primi scritti sull’advaita
cristiano.
Negli scritti del 1960 Griffiths riconosce che la testimonianza dell’advaita è
molto significativa per tutti, inclusi i cristiani. Questa prima esperienza
dell’advaita è per lui una intuizione mistica e non una conclusione metafisica
sulla natura dell’anima umana in relazione al mistero divino. Ma per contro è
evidente che per Griffiths l’advaita comunemente inteso e praticato, con la sua
negazione della realtà del mondo, non è del tutto accettabile.
Questa è una descrizione che si legge nei primi scritti di Griffiths
sull’argomento:
“In fine l’esperienza dell’anima si incontra nel suo profondo; attraverso di
essa superiamo il mondo dei sensi, oltre l’immaginazione, al di là del mondo di
pensieri che ci occupa costantemente, finché raggiungiamo il centro interno dove
l’anima riposa. Maritain la chiama ‘l’esperienza dell’essere sostanziale
dell’anima’, l’anima nel suo piano di realtà.”
Questa esperienza dell’anima è il vero “centro” oltre le immagini e i concetti,
che è descritto come realizzazione della realtà non duale, il vero incontro con
il mistero divino. Non c’è nessun contrasto intorno a questo punto. Se buddismo
e induismo descrivono l’esperienza in maniera diversa, secondo Griffiths, si
tratta della stessa realizzazione. L’orientamento generale verso la vita
interiore, implicito in tale realizzazione, è quanto i cristiani possono
imparare da essi. Ma allo stesso tempo i cristiani possono offrire delle
significative correzioni e modifiche alle religioni orientali.
La crescente consapevolezza della Non-Dualità.
In una seconda fase, Griffiths si avvicina sempre maggiormente alla filosofia
advaita. Questo avrà un profondo impatto sulla sua vita personale. Vediamo
dapprima che il suo incontro con l’advaita si muove a stabilire la distinzione
evidente tra l’esperienza della non-dualità e le varie interpretazioni che
derivano da questa esperienza. La distinzione gli serve per distanziarsi dalle
molte (e predominanti) interpretazioni dell’esperienza fondamentale, che sente
essere inadeguate. Successivamente Griffiths articolerà una sua concezione dell’advaita
cristiano. Impegnato nella sua visione cristiana della società e del mondo,
manterrà una forte sintonia con il monismo dell’advaita, rigettando però
decisamente il puro advaita che afferma l’assoluta identità tra il Brahman e
l’anima. Descriverà l’unione in termini di ‘mutua co-penetrazione’. Formulando
la sua visione cristiana, fu molto influenzato dalla visione mistica di Eckhart.
In fine, vedrà nella Trinità un’articolazione della sua crescente conoscenza
dell’advaita.
In questa seconda fase, Griffiths differenzia senza incertezze tra l’esperienza
e l’interpretazione dell’advaita nell’induismo. Afferma: “l’esperienza
dell’induismo, sebbene annoveri interpretazioni non sempre adeguate, è davvero
una cosa grandissima”. Inoltre, a suo parere, le debolezze e i difetti dell’advaita
sono dovuti soltanto alle interpretazioni distorte che discendono
successivamente alla vera esperienza dell’advaita. Sebbene i filosofi indiani
non possiedano un modo adeguato di descrivere la relazione tra il mondo e il
divino, l’esperienza della non-dualità mette in ombra tutte le differenze. Essa
veramente elimina ogni livello di relazione possibile, sia tra il divino e il
mondo o tra il paramatman e jivatman (essere supremo – essere individuato).
Dunque il rischio evidente di questa interpretazione è di sottovalutare e
relativizzare il reale. Griffiths vede in Sankara questa devastante posizione
radicale. Il filosofo del nono secolo, conosciuto come il fondatore dell’Advaita
Vedanta, si indica fautore di una visione per cui ogni differenza deve
scomparire nell’esperienza della non-dualità, dimostrando l’irrealtà del
(cosiddetto) mondo reale. Infatti, l’intero mondo dell’esperienza, il mondo
delle differenze, è un errore conoscitivo, maya, una sovrapposizione illusoria
sulla realtà non-duale. Quando l’ente si risveglia mediante una disciplina
mistica e riconosce la condizione di maya, il sogno di questo mondo di apparenza
svanisce e si verifica l’esperienza della vera realtà, Brahman.
Perciò scrive: “Nel Vedanta si solleva sempre un problema: se il mondo è reale,
non può essere distinto da Dio, cadendo nel panteismo che è affermare che il
mondo è divino; oppure, come fa Sankara, volendo essere determinati a preservare
la purezza della natura divina, si è costretti a negare realtà al mondo”.
Da queste riflessioni, si può dedurre che Griffiths cercava di rispondere a due
questioni, la relazione con Dio e la realtà del mondo. Questo intento portò
Griffiths al passo successivo, la formulazione di una visione cristiana del
Vedanta.
La prima espressione dell’Advaita Cristiano.
Per prima cosa Griffiths sostiene che la relazione tra l’anima e Dio non può
essere di totale identità, per cui l’anima subisce la completa perdita di sé nel
Divino. Anche nella più elevata comunione con Dio l’individuo non cessa di
esistere, non si dissolve nel Supremo.
“Per gli Hindu e per i Buddisti… lo stato supremo è un’assoluta identità. L’uomo
realizza la sua identità con l’assoluto e realizza che questa identità è eterna
e immutabile. Nella visione cristiana l’uomo rimane distinto da Dio. Egli è una
creatura di Dio e il suo sollevarsi a partecipare della vita divina è un atto
della Grazia di Dio, un gesto gratuito di amore, per cui Dio discende verso
l’uomo allo scopo di sollevarlo fino a fargli condividere vita, amore e
conoscenza. In questa unione l’uomo realmente condivide la conoscenza e l’amore
divini, e conosce se stesso nell’identità con Dio, ma ne rimane un essere
distinto. E’ questa un’identità, o piuttosto una comunione, di conoscenza e
amore, non identità dell’essere.”
Questa distinzione di fondo si può far risalire ai differenti concetti di
interiorità di induismo e cristianesimo. “Per gli indù l’interiorità consiste in
un progressivo distacco da tutti gli oggetti interni ed esterni, che conduce
all’isolamento dell’anima nella sua pura interiorità. Ma per i cristiani,
l’interiorità inizia col pentimento; è la scoperta dell’abisso che separa
l’anima da Dio. Ma questa scoperta porta alla scoperta dell’amore che attraversa
l’abisso. Così l’anima nell’abisso interiore del suo essere si trova di fronte a
Dio nell’abisso del suo essere.” Griffiths enfatizza l’aspetto dell’amore, in
cui sono coinvolti conoscenza e relazione. Tale unione non è del tipo
goccia-oceano.
Poi, secondo il suo impegno cristiano, Griffiths è convinto che il mondo deve
essere ritenuto reale. Tale correzione è necessaria, secondo la sua opinione,
per impedire i pericoli del monismo e del panteismo. Nel primo, la realtà del
mondo è annullata in Dio, e nel secondo la trascendenza di Dio è dispersa nel
mondo e Dio soggetto alle vicissitudini del tempo e dello spazio. Il
cristianesimo, secondo Griffiths, è la riconciliazione di questi due estremi,
grazie alle dottrine della creazione e dell’incarnazione. La dottrina della
creazione sostiene una chiara differenziazione tra Creatore e creature. Anche
ammettendo l’”analogia della partecipazione”, differenze e distinzione tra
Creatore e creature non possono essere totalmente eliminate. Così Griffiths può
affermare con sicurezza: “Il mondo non è un’emanazione di Dio né un’apparenza di
dio, ma una creazione; un relativo modo di essere dipendente dal suo assoluto
Essere, esistente temporaneamente e non eternamente e dipendente per la sua
esistenza non meno che per la sua essenza da Dio. Questa è la dottrina che offre
realtà al mondo, distinto da Dio ma totalmente dipendente da lui, e che Ramanuja
e Madhva andavano cercando”. L’esperienza dell’incarnazione di Gesù e la sua
intima relazione con il Padre indicano che la sua profonda esperienza di unione
nell’amore non porta alla perdita dell’identità. L’incarnazione afferma inoltre
la realtà e lo scopo del mondo creato e della storia umana. Mondo e storia sono
consacrati da Dio e divengono simboli di Dio. Mondo e storia non scompaiono in
Dio, alla fine, ma mantengono il loro carattere essenziale. In altre parole il
mondo è destinato ad essere “una nuova creazione”.
Nonostante queste due fondamentali differenze, Griffiths sostiene che
l’esperienza cristiana di Dio e del mondo possa essere giustamente interpretata
come advaita. La chiave di questa comprensione risiede nella natura del mistero
divino, come espresso nella dottrina della Trinità. Secondo il nostro autore
“solo nella dottrina cristiana della Trinità e dell’incarnazione, il mistero
dell’amore e della relazione personale con Dio e con gli uomini si può
conciliare con l’assoluta unità e semplicità del Divino e la sua assoluta
trascendenza”.
Il contributo di Eckhart.
In Meister Eckhart, Griffiths trova un chiaro caso di realizzazione advaita
cristiana. Sebbene ammette che alcune argomentazioni di Meister Eckhart non sono
precise, Griffiths ritiene che l’intuizione fondamentale sia ortodossa e che ci
lasci ammettere la necessaria distinzione e relazione tra Dio, l’anima e il
mondo e dentro la Divinità stessa. Griffiths definisce Meister Eckhart un
advaitin dicendo:
“Dobbiamo ricordare che Meister Eckhart scriveva sulla dottrina cristiana della
Grazia. Questo movimento verso Dio ha luogo per lui ‘in Cristo’, che è nella
Parola, e sembra cercare la partecipazione dell’intelletto nella conoscenza di
Dio stesso. Ora è completamente vero che tra la conoscenza che Dio ha di se
stesso e la sua Parola non c’è alcuna reale distinzione. Dio consce se stesso e
tutte le cose create in un solo e semplice atto conoscitivo, identico al suo
essere. In questo senso è giusto dire che la conoscenza di Dio è advaita, non
duale. Le ‘idee’ presenti in Dio, dice l’Aquinate, che sono la sua conoscenza
delle cose create sono identiche all’essenza divina. Quindi se l’anima, per
Grazia divina, potesse partecipare della conoscenza di Dio conoscerebbe ogni
cosa, inclusa se stessa, nella pura ‘non dualità’.
Griffiths trova in Eckhart gli elementi per affermare che l’advaita cristiano è
riconoscibile come auto-espressione di Dio nel mondo, rivelata nell’esperienza
di Gesù. Nel modello trinitario della rivelazione, come vedremo successivamente,
si trovano le caratteristiche della relazione e dell’unicità e il loro ruolo
reciproco. L’identità che si realizza tra l’anima e Dio è partecipazione
all’auto-rivelazione divina, sua conoscenza. Ma né l’anima né il mondo perdono
se stessi nella dispersione.
“E’ vero che, sebbene ‘identificata’ con Dio nella conoscenza, l’anima ne rimane
distinta per natura. Sebbene la conoscenza raggiunga un grado differente e le
differenze, per come le concepiamo, svaniscano, la distinzione rimane comunque
reale. L’uomo e il mondo non si disperdono in Dio, né la persona è assorbita
nell’unità con Dio. Di mantenere queste distinzioni si preoccupa l’ortodossia,
poiché esse permettono la relazione tra uomo e uomo nel corpo mistico di Cristo,
e tra l’uomo e Dio. Esse lasciano uno ‘spazio’ per la relazione d’amore tra le
persone interne alla Divinità […]”
La Trinità.
Questa distinzione si situa nel terreno della realtà, non semplicemente dei
concetti. E’ fondata, afferma Griffiths , nella basilare distinzione tra Dio e
la Sua auto-espressione, simbolizzata dalla Trinità, che esemplifica il
paradosso della relazione nell’unità, caratteristica dell’amare e del conoscere.
La si può comprendere nella prospettiva di due o più persone coinvolte in una
relazione significativa e reciproca. Senza un concetto realistico di persona,
questa ricchezza della relazione resterebbe non pienamente comprensibile.
Conclude infatti: “il mistero della Persona, sia nell’uomo che in Dio, è
qualcosa che il pensiero indiano non ha mai riconosciuto propriamente, e che
infatti è stato illuminato solo attraverso la rivelazione di Cristo. E’
veramente solo nel mistero della Persona che il paradosso dell’identità e della
relazione è fondato e lì può essere riconciliato”. Un’autentica e profonda
nozione di Persona ci mette in grado di comprendere la libertà, la
responsabilità e anche l’amore umano. Per questa visione dell’umanità, il
modello cristiano è la Trinità.
E’ significativo che Griffiths trovi le basi dell’esperienza advaita nella
dottrina cristiana della Trinità. La Trinità è adoperata anche per comprendere e
giustificare l’intuizione fondamentale dell’advaita. Così che possiamo trovare
un’interazione molto vivace e proficua tra induismo e cristianesimo, in questa
fase. Ricordiamo che R. Panikkar, grande e intimo amico di Griffiths, utilizza
la Trinità come strumento di unificazione delle religioni. E’ estremamente
interessante che il simbolo della Trinità, che sembra così unicamente cristiano
e quasi imbarazzante ai nostri giorni, quasi divenuto paradossale, emerga in
questi pensatori come simbolo unificatore tra le varie tradizioni religiose.
Terza fase (1969 –1990): la creazione di un Advaita cristiano.
L’iniziale interpretazione dell’advaita di Sankara come negazione del mondo fu
corretta da Griffiths con l’aiuto di Richard De Smet e Sara Grant. Entrambi
tentavano di comprendere e interpretare Sankara in prospettiva cristiana.
Il problema che rimaneva comunque aperto con l’insegnamento di Sankara
riguardava la figura del Dio personale (Bhagavan) quale parte del mondo
apparente e quindi relativo. Invece che rigettare questa posizione di Sankara
come deviante, Griffiths la valuta in chiave di reciprocità. La visione
filosofica di Sankara sarebbe perciò “complementare” all’esperienza non duale
del devoto.
“Questa è la verità della dottrina Advaita di Sankara. Se considerato separato
dal Brahman – la Realtà assoluta – questo mondo non ha alcuna realtà. E’ pura
illusione, nulla assoluto. Non ha maggiore realtà dello spettacolo di
un’illusionista, o della forma di un serpente suggerita da una corda
nell’oscurità. La saggezza consiste nella consapevolezza dell’irrealtà di questo
mondo e nel risveglio alla coscienza che ‘tutto è Brahman’. Ma quando ciò è
realizzato, il mondo riacquista la sua realtà. Separato dal Brahman non vi è
nulla, ma quando è riconosciuto come Brahman, è pura Realtà, l’assoluta Pienezza
dell’essere. Tutto ciò che esiste in questo mondo, fin dalle minuscole
particelle della materia, esiste eternamente in Brahman. Qui noi vediamo le cose
separate nello spazio e nel tempo, cambiare forma un momento dopo l’altro, ma là
tutto è presente con tutto nell’ assoluta semplicità dell’essere ‘senza dualità’.
Qui tutto è molteplicità e cambiamento, là tutto è uno in eterno riposo…[…]”
Nonostante questa valutazione positiva dell’Advaita, mantiene delle riserve
riguardo alla mancanza di una sana concezione di Dio personale nell’induismo.
Griffths dirà nel 1989 che nessuna delle risposte date dalle varie scuole, sulla
relazione tra Dio, l’anima e il mondo è del tutto soddisfacente. Allo stesso
tempo Griffiths è sicuro che l’induismo abbia molto da offrire al cristianesimo.
Nessuna tradizione può stare sola e cercare indipendentemente la Verità per sé
sola. La mutua fecondazione è assolutamente necessaria.
La proposta creativa di Griffiths.
Come conciliare l’esperienza dell’unione con il Supremo, in cui svanisce ogni
distinzione, con l’esperienza della comunione d’amore del modello trinitario?
“Sembra che solo la dottrina cristiana della trinità possa risolvere il dilemma
di Dio come Essere assoluto, ‘uno senza secondo’, infinitamente trascendente,
eppure in relazione interna con se stesso, relazione di conoscenza e di amore
espressa nella Trinità delle persone, che sono una sola in essenza, correlate
dall’amore e dalla conoscenza. Questa è la via della comunione con Dio; Dio non
è solo essere, coscienza e beatitudine, ma anche amore e perciò comunione.”
Per Griffiths, perciò, la Trinità è il fondamento divino della non-dualità,
“l’unità nella relazione”, che è potenziale nella relazione dell’anima col
divino. L’intuizione fondamentale che Dio è amore è fortemente presente anche
nell’induismo. Così che Griffiths afferma:
“Gli hindu credono che Dio sia amore in un solo senso: che si possa amare Dio,
ma non che Dio sia amore in sé. Non può esserci amore senza dualità. Se Dio è
una pura monade, come nell’Islam, e come tende ad essere nell’induismo, non può
essere amore. Ma il concetto cristiano di Dio è amore, comunione d’amore. C’è
una distinzione in Dio, che è al di là della nostra comprensione che noi
esprimiamo rozzamente come una relazione personale. Queste sono solo parole
umane che cercano di definire la realtà. La realtà è che Dio è amore, che esiste
in Dio qualcosa che corrisponde alla comunione d’amore, e che siamo chiamati a
quella comunione”.
“Nell’amore noi diamo noi stessi, comunichiamo noi stessi ad un altro,
trascendiamo noi stesi nell’abbandono di sé. Così nell’essere divino, nella
realtà assoluta, c’è un movimento di amore, di dono di sé, di resa di Sé. Dio dà
se stesso all’uomo, comunica se stesso nel suo spirito, ma questo riflette il
movimento del darsi, dell’arrendersi a Dio; il movimento dell’auto-conoscenza,
dell’auto-riflessione, dell’auto-coscienza in Dio è accompagnato dall’altro
movimento del dare se stesso, della resa di sé, dell’amore estatico”.
Sebbene ammetta che la dottrina della Trinità è limitata, è certo che porta una
maggiore comprensione e una fisionomia più intelligibile di altre espressioni
del mistero divino.
Prima di formulare una sua proposta di interpretazione dell’advaita, afferma di
nuovo l’identità e l’unicità della persona individuale. Similmente farà uno
sforzo speciale per dare una corretta spiegazione del mondo e della Realtà
Divina. Infine è il lògos che vedrà come punto di incontro tra queste due
realtà.
La relazione tra Jivatman e Paramatman.
Per spiegare la relazione tra il spirito divino e l’anima umana, Griffiths
applica il paradosso dell’unità nella relazione, data della condivisione di
amore di conoscenza. E ciò è definitivamente analogo alla relazione tra le
persone della Trinità.
Quindi Griffiths afferma: “Nello stato ultimo l’individuo si trova completamente
là, completamente realizzato, ma anche in comunione con tutto il resto”. Adopera
la metafora del raggio di luce e dello specchio, in cui ogni specchio riflette
la luce e tutti gli latri specchi:
“Quando l’immagine è stata riportata alla sua somiglianza divina, la luce della
Parola si riflette in essa. E’ come uno specchio da cui è stata rimossa tutta la
polvere, così la Parola si riflette in esso. Questa parola è l’immagine di dio,
in cui si riflette la Sua pienezza, e ogni essere umano, ogni immagine
particolare, riflette questa luce divina secondo la sua capacità.”
Dunque Griffiths è contrario alla visione per cui l’anima svanisce nello Spirito
divino, spazzando via il “sogno” dell’individualità. Al contrario, l’anima
individuale è trasformata, elevata, consapevole dell’unicità e dell’unità con il
divino. Qui Griffiths usa un’altra immagine: “immaginate che una goccia d’acqua,
gettata nell’oceano, ancora viva e capace di parlare, gridi di gioia: ‘E’ vero,
sono vivo, ma non sono io che vivo, ma l’oceano che vive in me e la mia anima è
nascosta nel suo profondo’. L’anima che va verso Dio non muore, si può forse
morire annegando nella vita? Piuttosto essa vive non vivendo in sé”.
L’affermazione di S.Paolo “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” è una
dichiarazione dell’advaita cristiano o dell’ unità nella relazione.
Questo è il tipo di comunione d’amore non-duale che ebbe Gesù con il Padre.
“Gesù pregò perché i suoi discepoli divenissero uno. ‘Come tu sei in me e io
sono in Te, che essi possano essere uno solo con Noi’, Gesù non disse ‘Io sono
il Padre’ – come pura identità. Ma ‘Io sono nel Padre e il Padre è in me, e io e
il Padre siamo uno, ma io non sono il Padre’. E così ai discepoli: Io sono in
Dio, Dio è in me, ma io non sono Dio. Ecco l’unità”.
Co-inerenza: la relazione tra il mondo e il Mistero Divino.
Come detto prima, Griffiths è fermamente convinto che l’individuo non è
annichilito ma trasformato nell’unione con Dio. In questo contesto, Griffiths
parla del corpo mistico di Cristo come coscienza universale in cui tutte le
persone sono distinte e unite nella Persona di Cristo. La stessa relazione che
unisce la trinità, unisce tutte le persone nel corpo mistico.
“Il concetto di co-inerenza e di mutua esistenza del Padre nel Figlio e del
Figlio nel Padre mediante lo Spirito dell’amore, ci aiuta a capire non solo la
natura di Dio, ma anche la natura della relazione umana con Dio. Quando la
natura umana è elevata dallo Spirito nella conoscenza e amore del figlio e del
Padre, la coscienza umana è aperta alla consapevolezza divina. Ogni umana
coscienza è espansa così da abbracciare tutte le altre sfere della coscienza,
dei, angeli o uomini. C’è mutua compenetrazione a tutti i livelli. Ogni essere
diviene trasparente ad ogni altro essere; ognuno specchio dell’altro e del
tutto.”
Nel mondo.
L’esperienza che fonda la relazione tra il mistero divino e il mondo è la Parola
di Dio, mediante la quale tutte le cose sono state create e in cui tutte le cose
continuano a risiedere.
“Abbiamo la venuta della Parola dal Padre, e la Parola ne provenne e si distinse
dal Padre. Tutte le distinzioni nella creazione sono fondate in principio nella
Parola. Questo è importante perché spesso udiamo gli Hindu predicare che tutte
le differenze scompaiono nello stato finale. Noi vorremmo dire che queste
differenze sono eternamente nella Parola. Vi è distinzione tra il Padre e il
Figlio che è la base della distinzione di tutta la creazione da Dio, distinzione
eppure unità. Il Figlio è veramente il principio della differenziazione, e tutte
le distinzioni del creato sono contenute nel figlio come Parola o Logos.”
E’ quindi fuori di dubbio che Griffiths veda un’esperienza advaita nella Parola.
E rapidamente conclude: “Tutto è uno nel Verbo e il Verbo è uno col Padre”.
Dunque il Verbo, che unisce e contiene tutto e allo stesso tempo riempie tutto,
è di natura non duale.
Logos e Amore come meditazione dell’Advaita.
Griffiths vede i simboli religiosi come strumenti con cui si esprime il mistero
del divino. Il supremo esempio di questo è il Logos, la Parola, che serve come
oggetto di auto-conoscenza e di amore, mediato dallo Spirito. Il Logos unifica
la vasta diversità del mondo creato. Seguendo due analogie usate da Griffiths,
il Logos può essere visualizzato come: 1. l’idea o l’archetipo che contiene
tutte le altre idee/archetipi, come creazione posta nella mente di Dio, oppure
come 2. la Persona (Purusottama, Persona Suprema) cui tutte le persone
appartengono e in cui realizzano la propria autentica natura. Il Logos è il
simbolo supremo ed eterno del Divino e il luogo ultimo di ogni altro simbolo
terreno. I simboli religiosi nella nostra vita quotidiana hanno la funzione
inversa di partecipare e di indicare oltre se stessi, al Logos.
Fedele al suo retaggio cristiano, Bede Griffiths esperisce e conosce il Divino
primariamente come Amore. L’amore è per lui il mistero che il simbolo vivente e
storico del Logos (Gesù Cristo) rende presente in forma concreta e che continua
ad essere presente oggi nel particolare segno della comunità cristiana. Tra i
vari simboli della Chiesa, quelli della creazione, incarnazione e Trinità sono
specialmente importanti per definire il divino mistero dell’amore. Pieno
d’amore, il Divino si esprime e si manifesta nel mondo (creazione) a sua
immagine, il Logos. In questo processo si mantiene una relazione non duale tra
creatore e creato, sebbene tutte le distinzioni nelle creature sono mantenute.
Questo amore è anche l’amore compassionevole espresso da Gesù Cristo
(incarnazione) attraverso il quale tutti possono ritornare ala relazione
non-duale con Dio.
Unione nella Rinuncia.
Nei pensieri della maturità, Griffiths spiegherà che l’incontro con Dio riporta
al mondo. Dunque, l’apertura a Dio mediante lo Spirito riporta a rinnovata
disponibilità la creazione. Questo esprime la volontà di servire l’amore, come
si realizza con l’abbandono o il sannyasa (rinuncia). La descrizione del
sannyasa da parte di Griffiths è canonica:
“Rinunci a tutti gli attaccamenti esteriori, a tutti gli attaccamenti
psicologici, alla tua personalità e ti apri a Dio, ma quando incontri Dio,
l’infinito Uno, a quel punto incontri l’amore. Ti apri ad una sfera di totale
libertà interiore e sei completamente aperto, ora, all’umanità. Ad ogni cosa vai
dentro e trovi il centro più profondo, sei aperto a tutto e a tutti. Questo è il
vero segreto. Scopri lo Spirito Santo come Amore, e l’amore è una forza dinamica
che ti sospinge. E può mandarti a vivere in una grotta dell’Himalaya. Ma,
ugualmente, può mandarti negli slums di Calcutta come sannyasin.”
La vita di rinuncia di un sannyasin è più della rinuncia al mondo, è anche un
ritorno ad esso. Per ognuno che percorre un viaggio spirituale, deve esserci un
elemento di rinuncia in questa vita “al fine di trovare lo spazio in cui possa
germogliare la vita spirituale”. La libertà che consegue ad una piena
trascendenza di sé, oltre il “mondo dei segni”, necessariamente ritorna a quel
“mondo” per servire con il silenzio o con l’azione. L’anima che ha veramente
esperito l’unità con la trascendenza, la comunione d’amore con il Divino,
spontaneamente ritorna a creare quella comunione nella comunità. “Come aprite
voi stessi in resa a Dio nell’amore, create la comunità”. L’amore non rimane
statico. Cerca di includere, di abbracciare tutto dentro la sua comunione non
duale.
Questo ritorno dell’anima nell’amore è detto “integrazione” o “reintegrazione”
ed è rappresentato nella resurrezione di Gesù Cristo. Si potrebbe aggiungere che
dopo la sua morte, Gesù non si limita a raggiungere l’unione col Padre.
Piuttosto ritorna se stesso attraverso lo Spirito per continuare il lavoro di
trasformazione del mondo, mediante il simbolo della sua Persona o Logos. Tale
anima trascesa, integrata e trasformata è del tutto trasparente, unendo e
integrando l’Uno e i molti, l’origine trascendente e il mondo del molteplice. In
questo contesto possiamo comprendere la ripetuta chiamata di Griffiths ad
“andare oltre” il simbolo per esperire il simbolizzato. Trascendere il simbolo
religioso è infatti il passo necessario verso la reintegrazione di quel simbolo
nella consapevolezza dell’intrinseca auto-espressione del mistero divino.
Secondo Griffiths la relazione non duale che caratterizza in generale simbolo e
simbolizzato può essere riconosciuta come amore. Da questa intuizione
fondamentale dell’amore come legame della relazione seguono una serie di
relazioni parallele, tutte basate sull’amore, che i cristiani identificano con
lo Spirito: tra Origine e Logos (Padre e Figlio), tra Spirito divino e anima
umana (Paramatman e Jivatman), Dio e il mondo (creatore e creazione).
Bisogna ricordare che tutte queste costruzioni teoretiche non incontrano la
pienezza della verità o della Verità Ultima, come ammonisce Griffiths:
“Siamo tutti dentro una totale unità che è definitivamente non duale. E’
un’unità assoluta che abbraccia tutte le diversità e la molteplicità
dell’universo. Si deve sempre ricordare che queste sono solo parole che usiamo
per descrivere una realtà infinitamente oltre i nostri concetti, ma essi sono
utili finché ci orientano verso quella realtà”.
L’Advaita come Esperienza Mistica Universale.
Universalità Non-sincretica.
Date le varie esperienza che Griffiths incontra nell’induismo, nel cristianesimo
e in altre religioni orientali, non sorprende che Griffiths dichiari che c’è una
comune esperienza advaita da ritrovare nella maggioranza delle tradizioni
religiose del mondo. Si augura una convergenza finale e un incontro di tutte le
differenti religioni nella comunanza mistica, quale l’autentica esperienza
advaita, senza negare l’importanza delle differenze religiose, ma integrando le
differenze in un “pluralismo unitivo” .
L’armonizzazione tra le varie tradizioni religiose, basata sul reciproco
riconoscimento delle differenze specifiche del comune sostrato non duale, è di
vitale importanza, specialmente per il futuro. “Questo, mi sembra, è il problema
del mondo moderno; da questa integrazione dipendono l’incontro dell’oriente e
dell’occidente e il futuro dell’umanità. Dobbiamo scoprire i valori di ciascuna
rivelazione per distinguerne le differenze e coglierne l’armonia, oltrepassando
le differenze nell’esperienza della ‘non dualità’, della trascendenza delle
dualità”.
Si deve evidenziare che questa convergenza non è sincretica, poiché afferma le
differenze. “Quello che suggerisco è che in ogni tradizione vi è un’esperienza
della realtà trascendente, del mistero trascendente, interpretato in termini di
non-dualità. E’ fondamentalmente lo stesso in ogni tradizione, anche se espresso
diversamente”.
Per indicare tale comunanza della non-dualità in un primo tempo, negli anni ’80,
lavorerà alle cinque grandi religioni, induismo, buddismo, giudaismo,
cristianesimo e islam. Più tardi, negli anni ’90 le sue ricerche si estenderanno
a taoismo, sikismo e alle religioni degli aborigeni americani e australiani.
Senza mai dichiarare di avere completato uno studio esaustivo, il suo sforzo era
rivolto a individuare un pensatore mistico fondamentale in ciascuna di queste
tradizioni per investigare il tema della non-dualità.
Verso la convergenza delle religioni
La trascendenza di sé in direzione della non-dualità porta a percorrere una
“esplorazione” nella grazia del mistero divino. In altre parole, il mistico,
trascendendo il dualismo della propria percezione spazio-temporale, si apre alla
realtà senza tempo del mistero divino, in cui i “movimenti” verso l’esterno,
verso il ritorno e di nuovo verso l’esterno accadono tutti eternamente o “prima”
di esprimersi nel mondo dello spazio-tempo. Dunque il ruolo e lo scopo
dell’abbandono in queste tradizioni è l’abbandonarsi continuo, interiore ed
esteriore, nella dinamica “trinitaria”.
In accordo con R. Panikkar, Griffiths sostiene che la natura trinitaria del
mistero divino non-duale sia “il punto di convergenza delle varie religioni del
pianeta”. E cita Panikkar in proposito:
“La Trinità deve essere considerata la congiunzione in cui si incontrano le
dimensioni spirituali autentiche di tutte le religioni. La Trinità è l’auto-svelamento
di Dio nella pienezza del tempo, la consumazione di ciò che Dio ha ‘detto’ di Sé
agli uomini e di tutto ciò che gli uomini sono capaci realizzare e di conoscere
su Dio, con il pensiero o l’esperienza mistica. Nella trinità si verifica un
vero incontro delle religioni che si realizza non in una vaga fusione o
reciproca diluizione, ma in una vera valorizzazione degli elementi religiosi e
perfino culturali che sono contenuti in ciascuna”.
La Persona Cosmica
Come passo successivo nella descrizione della natura trinitaria della realtà
ultima come centro del dialogo inter-religioso, Griffiths sviluppa la teoria
della persona cosmica. Nella persona cosmica, il mistero divino esprime sé
stesso nel simbolo vivente dei grandi maestri, come Krishna, Buddha, Lao Tzu,
Gesù e Maometto. La persona cosmica sta per la piena realizzazione del mistero
divino nel mondo, e perciò svela il dinamismo interno al mistero divino. Tale
persona cosmica si può rappresentare come l’archetipo supremo in cui gli
archetipi di ogni cosa creata sono integrati e contenuti.
“Possiamo discernere un motivo di fondo in tutte le grandi tradizioni religiose.
Vi è prima di tutto il Principio supremo, la Verità ultima, oltre i nomi e le
forme, il Brahman nell’Induismo, Nirvana o Sunyata nel Buddismo, il Tao senza
nome della tradizione cinese, la Verità del Sikismo, la Realtà – al Haqq– del
Sufismo, l’Infinito En Sof della Gabbala, la Natura Divina (distinta da Dio) nel
Cristianesimo. Vi è poi la manifestazione della Realtà nascosta, il Brahman
Saguna indù, il Buddha o Tathagata del buddismo, il Saggio cinese, il Guru Sikh,
il Dio personale, Yahwe o Allah per il giudaismo e l’islam, e il Cristo per la
cristianità. Infine c’è lo Spirito, l’Atman indù, la Compassione del Buddha, la
Grazia (Nadar) del sikismo, il ‘respiro del misericordioso’ nell’islam, ‘Ruah’,
lo Spirito nel giudaismo e il Pneuma nel cristianesimo”.
Riconoscere l’Advaita in tutte le religioni.
La sfida di ogni religione, come del dialogo tra le religioni, è riconoscere
pienamente le implicazioni della comune esperienza non-duale. Dopo avere esposto
la dimensione non-duale nella maggior parte delle tradizioni religiose,
chiarisce: “Io sento seriamente che questa è la filosofia del futuro e che noi
dobbiamo essere capaci di costruire la nostra teologia attorno a questo
principio basilare”. Le dimensioni pratiche di questo riconoscimento sono
certamente importanti. Le radici delle divisioni tra le comunità del mondo sono
riconducibili alla mentalità dipendente, razionalmente dualistica e
logico-speculativa, che dimentica l’orientamento intuitivo, trascendente e
unificante. Afferma perciò:
“Il mondo intero si sta aprendo alle tradizioni mistiche nelle differenti
religioni… Dobbiamo meditare e aprirci alla realtà trascendente. Se lavoriamo
soltanto a livello razionale non faremo alcun passo avanti. Dobbiamo aprirci
alla trascendenza nel profondo dei nostri cuori, ove la possiamo incontrare.
Quando ebrei, cristiani, musulmani, hindu e buddisti si aprono alla preghiera,
alla meditazione, al mistero trascendente, andando oltre le parole, oltre i
pensieri, semplicemente aprendosi alla luce, alla verità, alla realtà, si
verifica l’incontro. Ecco dove l’umanità si troverà unita. Solo attraverso la
trascendenza troviamo l’unità”.
L’Amore come simbolo dell’Advaita
L’esperienza unica della comunione cristiana nell’Amore.
Come risultato di quattro decenni di dialogo e interazione creativa tra induismo
e cristianesimo Griffiths è in grado di articolare un Advaita cristiano
strettamente collegato e derivato dall’Advaita classico. La testimonianza hindu
della realtà della relazione non-duale con il mistero divino ha molto da offrire
alla cultura cristiana in generale, dominata da una visione dualista e
razionalista. Ma ritiene altresì che le interpretazioni radicalmente monistiche
e anti-realistiche del Vedanta debbano essere rigettate.
Nel corso del tempo, ampliando il dialogo con le altre religioni, Griffiths si
adopera per tracciare la simbologia del dinamismo interno e del principio di
differenziazione del mistero divino, che per lui, come cristiano, trova
rappresentazione nel simbolo della Trinità e nel Logos. Inoltre, il simbolo
della “Persona Cosmica” ritrovato in ogni religione è comparabile favorevolmente
al Logos della tradizione cristiana. E’ sicuro che i vari simboli religiosi
siano prevalentemente orientati alla natura non-duale del mistero divino. Allo
stesso tempo suggerisce, dalla sua personale esperienza e mistica, che i simboli
cristiani sono unici, poiché si esprimono nella Persona di Gesù e nelle varie
dottrine cristiane, e mediano una comprensione del mistero divino come
interpersonale comunione d’amore. Se lo studio delle altre tradizioni ha
ampliato i contenuti e gli orizzonti, la sua convinzione dell’unicità
dell’esperienza cristiana rimane ben salda.
Dopo l’incontro con tradizioni e religioni diverse, Griffiths conclude che
esiste uno schema di movimento nel cammino spirituale diretto all’unione
non-duale con il mistero divino, universalmente presente. Questo schema riflette
realmente i livelli dell’incontro tra la realtà non-duale e la coscienza umana.
L’esperienza religiosa comunica alcuni aspetti del mistero divino al profondo
della coscienza umana e trasporta la persona (corpo, anima e spirito) verso quel
mistero, per trascendenza di sé. Poiché la connessione tra mistero divino e
coscienza umana è molto intima, questa esperienza può maturare nella
realizzazione dell’unità esistente tra essi. Ammettendo che qualcuno ritenga che
questa unione porti alla completa dissoluzione dell’individualità (jivatman),
Griffiths argomenta che una più realistica e profonda esperienza religiosa porti
al riconoscimento di un ulteriore movimento in cui l’individualità non è solo
trascesa ma anche integrata in una esperienza più completa del mistero divino.
In una più profonda realizzazione esiste una vera relazione dentro l’unità.
Il dinamismo interiore dell’Amore.
Il mistero divino perciò rappresenta una dinamica ‘unità nella relazione’. In
questo senso, il simbolo che comunica ed esprime questo mistero serve a riunire
la coscienza umana con la sorgente, trasformando individualità e molteplicità,
piuttosto che dissolverle. Così come la perfezione dell’essere si trova nella
pluralità unificante (simboleggiata dalla comunione amorosa della Trinità), così
la perfezione dell’unità della coscienza e della sorgente è nella realizzazione
del mondo della molteplicità contenuto in essa. Dunque lo scopo finale della
reintegrazione è una riflessione (specchiamento) del mistero divino.
La rivelazione cristiana, secondo Griffiths, evoca una straordinaria, unica
consapevolezza della corrispondenza tra la vita del mistero divino e quella
della coscienza umana. In particolare, il movimento di ritorno all’unione
non-duale con la sorgente, è veduto nella persona di Gesù Cristo e negli atti
rituali-simbolici della liturgia e della teologia della Chiesa. Dunque, seguendo
Cristo, l’individuo e la singola coscienza umana si sottopongono
all’incarnazione (simbolizzazione), morte (auto-trascendenza) e resurrezione
(reintegrazione) per mezzo della partecipazione alla vita di Cristo. Questo
processo di (auto-)realizzazione culmina, per la tradizione cristiana,
nell’esperienza del “Regno di Dio” o “Nuova Gerusalemme” in cui la realtà creata
diventa riflesso della realtà divina. Così che il mondo è un “simbolo
immediato”, lo specchio del volto di Dio.
“E’ nella natura dell’amore non poter essere soddisfatto con il contatto fisico
o con l’emozione. Esso cerca il pieno compimento nel dono di sé totale”. Questo
amore totalizzante, che è lo stesso Spirito Santo, spinge il Padre ad esprimersi
nel Figlio e riporta il Figlio nell’unione col Padre. Come “non-dualità di Dio”
lo Spirito è la rappresentazione del mistero che riunisce i due nell’amore e
nella conoscenza e li lascia comunque distinti, “non uno” e “non due”. E’ lo
stesso amore che motiva la creazione per mezzo del Logos. Tornando alla vita
individuale, è per amore che si nasce in questo mondo, si trascende questo mondo
e quindi vi si rientra per servire in unione col Creatore. Ciascuno di questi
tre passaggi è un grado di progressivo abbandono al movimento della vita. Dunque
ogni persona è simbolo dinamico di Dio o istanza del mistero divino, che
simbolizza e porta a riunificazione. La persona è l’agente dell’incontro con
Dio.
L’Amore Universale.
Come si è visto, per Griffiths l’amore è il simbolo più efficace dell’advaita,
per la natura del mistero divino in sé quanto per la sua relazione con l’anima
con il mondo. Riconosce altresì Saccidananda e Sunyata come simboli potenti del
mistero divino all’interno delle rispettive tradizioni, pur restando
profondamente fedele alla tradizione cristiana.
“Vi è un’espressione dello Spirito che è maggiormente significativa delle altre,
l’amore. L’amore è invisibile, ma è la più potente forza della natura umana.
Gesù parlò dello Spirto, che avrebbe mandato come Verità, ma anche come Amore.
‘Se qualcuno mi ama, mio Padre lo ama, verrà da lui e vivrà con lui’. Questo è
l’amore, prema e bhakti proclamati dalla Bhagavad gita, la compassione di
Buddha, l’amore estatico dei santi sufi. Una religione si misura dalla sua
capacità di risvegliare l’amore nei suoi seguaci e, forse ancora più difficile,
di estendere tale amore a tutta l’umanità. Nel passato le religioni hanno voluto
chiudere l’amore tra i confini dei propri fedeli, ma è sempre esistito un
movimento teso ad oltrepassare queste barriere e pervenire all’amore universale.
La Saggezza universale è necessariamente un messaggio di Amore universale.”
Dunque amore e saggezza sono universali ed interconnessi. Il tema dell’amore
universale viene ulteriormente elaborato di Griffiths e collegato allo Yoga:
“Yoga significa la pratica di una disciplina spirituale. Bhakti Yoga è la
disciplina dell’amore, cioè, aprire il nostro cuore all’amore. Amore nella sua
pienezza, amore di Dio per noi e il nostro amore verso Dio. Nella Bhagavad Gita
leggiamo: ‘ascolta ancora la mia Parola suprema, il segreto profondo del
silenzio. Poiché ti amo, ti dirò le parole della salvezza’ (Cap.8). Questa è la
natura dell’esperienza religiosa. Conoscere l’amore di dio è riflettere su di
esso, realizzarlo, esperirlo nel cuore. Questo amore, dice S.Paolo ‘supera la
conoscenza’ […]”
Entrare nel cuore divino è per Griffiths l’unione non-duale. Si può ottenere con
un cuore amoroso, amore che è reciproco movimento. Questo amore compie l’unione
non-duale.
Quarta fase (1990-1993): vivere l’Advaita
Raggiungendo la fase finale della sua vita, Griffith è influenzato e permeato
dalla sua stessa concezione dell’advaita. Si osserva dal modo in cui accetta
l’infarto che lo colpisce e da come questo trasforma la sua vita.
L’infarto e le conseguenze.
In una lezione del 1991 Griffiths offre una visione della sua pratica
contemplativa e degli effetti dell’infarto sulla sua esperienza spirituale. In
particolare avvalora il ruolo della contemplazione, o meditazione, come pratica
della presenza di Dio, ponendosi perciò nella tradizione della preghiera “pura”
o non-discorsiva insegnata dai padri del deserto.
La pratica meditativa deve coinvolgere tutti i tre aspetti dell’antropologia
(Paolina): corpo, anima/mente e spirito. Perciò Griffiths si rifà alla
tradizione orientale del silenzio e del mantra per stabilire la concentrazione e
una pratica integrata.
“Tutte le tecniche di meditazione sono vie per raggiungere il centro interiore,
il luogo dello spirito. Ma cosa avviene poi là, dipende da ciascuna fede e
tradizione. Per un cristiano il luogo dello spirito è dove l’amore di Dio è
riversato nel cuore dallo Spirito Santo”
Con parole chiaramente parallele a quelle usate in relazione alla meditazione,
Griffiths descrive l’infarto subito come “la grazia più grande che ho mai
ricevuto”. “Sono morto all’ego, la mente egoica e la mente discriminatrice, che
separa e divide… tutto mi parve concluso. Ogni cosa fluiva in tutte le altre. E
percepii un senso di unità in tutto”. Questa “esperienza di morte” fu per lui
una nuova rivelazione dello Spirito Santo, che lo aprì completamente allo
Spirito. Alcuni giorni dopo l’infarto, sentì il bisogno di “arrendersi alla
Madre”. Quando rispose a questo bisogno sentì “l’esplosione psicologica del
femminile”. Aggiunge: “Un’irresistibile esperienza d’amore mi travolse. Come
ondate d’amore”. Griffiths stesso spiegò che si era finalmente liberata la sua
parte femminile, a lungo repressa dentro di lui, trasformandolo e rendendolo
completo.
In lui si era verificato un riassorbimento della mente discriminativa in
un’attività mentale più intuitiva e unificante. Griffiths interpretò questo
passaggio come liberazione della parte femminile della consapevolezza. La
ragione, spiega, è stata “assorbita” nell’intuizione, come nell’immagine dei due
uccelli della Mandukya Upanisad.
Il viaggio spirituale di Bede Griffiths prosegue. Con la contemplazione della
propria esistenza, Griffiths apprezza sempre di più l’evidenza che la
molteplicità non vada perduta, ma si trovi contenuta e trasformata nel mistero
divino.
“Ecco l’esperienza di Dio che dobbiamo ricercare: trascendere noi stessi col
dono totale di sé nell’amore, e ritrovarci riassorbiti nell’oceano d’amore che è
profondamente personale, e insieme trascende tutte le umane limitazioni.”
Riflessioni finali sull’Advaita
Il corso dell’esperienza di Griffiths con l’Advaita è naturalmente accompagnata
da alcune riflessioni teologiche, specialmente sulla relazione tra Trinità e
Advaita. Per realizzare l’incontro tra le due formulazioni, Griffiths si basa
fortemente sulle parole del Nuovo Testamento e sulla persona di Gesù Cristo,
cercando di discernere l’orientamento non-duale del vero insegnamento di Cristo.
L’Esperienza Advaita di Gesù.
Basandosi sui suoi studi degli esegeti del Nuovo Testamento, confronta
l’autentico insegnamento di Gesù e quello della Chiesa primitiva, che fu poi
organizzato nella religione istituzionale. E’ significativo che Cristo non
lasciò altro che lo Spirito Santo, cioè non strutture, non rituali e neppure
molte parole. Come eccezione Griffiths considera la parola aramaica Abba, che
esprime l’intimità di Gesù con il Padre. Abba è un appellativo che contrasta con
l’immagine di Yahwe riportata nel Vecchio Testamento, che rinforzava la
trascendenza divina e la dualità incolmabile della relazione umana con Dio.
Secondo la spiegazione di Griffiths, Abba potrebbe essere stato una sorta di
mantra usato da Gesù per meditare l’intima relazione con il Padre e superare la
relazione duale descritta dal giudaismo. Senza negare la validità
dell’esperienza duale degli ebrei, Griffiths vede Gesù compiere un passo
successivo, che l’umanità deve compiere a sua volta. Sebbene Gesù stesso subisca
il condizionamento dell’impostazione duale, Griffiths vede il suo completo
abbandono e l’abbandono di tutte le tendenze duali nella sua morte. La morte lo
trasforma in un essere di amore totale, in comunione con il mistero divino. Il
Signore risorto è la personificazione dell’Advaita, oltre ogni limitazione
duale, non più nel segno dell’identità storica, ma presenza assolutamente reale
e senza tempo.
La testimonianza del Nuovo Testamento sulla trascendenza del dualismo giudaico,
si può leggere nel 17° capitolo del Vangelo di Giovanni. Riflettendo sul verso
chiave di questo capitolo (17:21), Griffiths vede riflessa la sua stessa
esperienza dell’Advaita:
“Gesù ci porta al punto in cui si possono superare le dualità, e l’espressione
perfetta di questo insegnamento è nel Vangelo di Giovanni: ‘Che essi possano
diventare uno come tu, o Padre, sei in me, e io in Te, che essi siano uno solo
con noi”. Gesù è uno solo col Padre eppure non è il Padre. Questa è la relazione
non-duale. Non uno e non due. E’ il mistero dell’amore. L’amore è non-uno,
non-due. Quando due persone si uniscono nell’amore, diventano uno solo, eppure
mantengono la distinzione. Gesù e il Padre vivono questa totale comunione
d’amore. Dunque Gesù ci chiede di diventare uno solo, come lui è uno col Padre,
cioè, unità totale nell’essere non-duale del Padre. Questa è la chiamata
cristiana.”
Dunque, secondo Griffiths, noi incontriamo il Signore risorto e non il Gesù
storico nei sacramenti e nella meditazione.
Uso del Mantra per approfondire la Consapevolezza Advaita.
Con la meditazione si sorpassa l’umanità di Gesù (simbolo) verso quello che è
simbolizzato, il Padre. Detto altrimenti, con la meditazione di passa attraverso
e oltre il mantra, al di là del nome e della forma, per esperire la “comunione
d’amore” interpersonale e non-duale, che è Dio. Griffiths cita la sua frase
preferita di John Main:
“Gesù rivela il Padre quale fonte di amore infinito, che egli condivide col
Padre. E questo è il fine della meditazione cristiana, come disse Padre John
Main ‘condiviere quel fiume di amore che scorre tra Gesù e il Padre, che è lo
Spirito Santo’… Con la nostra meditazione entriamo in quella profondità dove è
presente lo Spirito Santo. E ci portiamo nel mistero interiore della vita di Dio
nell’amore”.
Per Griffiths il rimanere al livello dei segni o “arrestarsi “ di fronte ad
essi, anche al Gesù umano, all’eucarestia o al mantra, piuttosto che addentrarsi
nel mistero divino, è idolatria.
L’esperienza dell’Advaita conferma le sua convinzioni sulla dottrina della
Trinità e dell’amore divino. Vede le due dottrine come necessariamente
correlate. E’ sicuro che la più profonda esperienza di unione con Dio non
cancella il mondo empirico; l’unità intima che conosce per esperienza è un’unità
che include la molteplicità. Una “reintegrazione” dell’unità con la molteplicità
è raggiunta nell’unione più profonda col mistero divino.
“La mia consapevolezza dell’Advaita è che esiste unità oltre e dentro
l’universo. Se ci si concentra sull’oltre, questo universo ci apparirà un nulla.
Ma se guardiamo più a fondo, vedete che tutte le differenze di questo mondo e
voi e io e ogni essere umano sono integrati nell’unità dell’uno. Non è un’unità
vuota, come il vuoto del buddismo Mahayana, non è semplice vuoto. E’ una
condizione paradossale, insieme vuoto e pieno… Nirvana e Samsara, le vie del
mondo sono una sola. E’ una straordinaria scoperta: se andate al nirvana,
lasciate il mondo ed entrate nel vuoto per poi ritrovare l’intera molteplicità
del mondo nel nirvana. E questo per me è la scoperta più profonda. E questa è
stata assolutamente la mia esperienza. Quando ho avuto il crollo, le facoltà
mentali sono collassate.. l’unità si è rivelata; ma ogni cosa e ogni persona
erano nell’unità. E lì ho capito che dobbiamo muoverci.”
Il principio di trascendenza e integrazione, caro a Griffiths, è essenziale per
comprendere questa consapevolezza. Si è chiamati a trascendere tutte le proprie
proiezioni e immagini di Dio, al fine di ricevere una visione più integrata del
mistero divino, che è il più sorprendente e intimo. Abbandonando interamente il
mondo (samara) all’esterno, lo si riscoprirà di nuovo alla luce di una più
profonda unità soggiacente (integrazione). “Il chicco deve morire per avere
vita”. Dando sé stessi completamente nell’amore, si ritrova se stessi “assorbiti
nell’oceano dell’amore”, non dissolti in questo oceano, ma nella relazione
dell’amato con l’amante. Rinunciando a ogni forma e simbolo, si arriva
all’esperienza della totalità reale come non-duale, totalità in cui i simboli e
le forme sono contenuti e reintegrati. “La redenzione” scrive “è il ritorno
all’unità”.
“Cristo con la resurrezione ritorna a se stesso, al suo essere eterno nella
Parola di Dio. Egli manifestò sulla terra lo stato dell’essere indiviso nella
Parola, oltre le limitazioni del tempo e dello spazio”.