|
|
Quando il silenzio è una cosa concreta: l'esperienza nelle carceri (Pier Cesare Bori)
Racconterò qui di seguito qualcosa che lega la mia esperienza nelle carceri col silenzio[1]. Nelle carceri italiane gli stranieri sono forse il 30-40% dei detenuti e di questi moltissimi sono maghrebini, soprattutto marocchini e tunisini. E’ una realtà molto vasta e depressa, cui ho indirizzato molti dei miei sforzi, per quel pochissimo che potevo. Sono sempre stato molto interessato all’Islam, studio l’arabo da quando negli anni ’70 andai in Israele e in Palestina, pur progredendo molto lentamente. So che esiste un innegabile antagonismo con il mondo islamico che non può essere risolto con l’ecumenismo, ma con la proposta di mete più elevate, spirituali, mistiche. Ho cercato questa esperienza non come una iniziativa umanitaria, ma come una verifica di ipotesi culturali e pedagogiche già in precedenza formulate e messe alla prova come docente di Filosofia morale ‘comparata’ (di fatto è una filosofia morale comparata) alla Facoltà di Scienze politiche di Bologna. Si trattava fondamentalmente di sperimentare la possibilità di un discorso etico che potesse reggere alla prova della differenza culturale. Ho quindi cominciato da solo a insegnare in carcere nell’autunno del 1998, precisamente alla “Dozza” di Bologna, lavorando soprattutto con stranieri, specialmente maghrebini. Molto presto, dalla primavera del 1999, mi hanno aiutato i miei studenti, provenienti soprattutto dai corsi universitari, con cui già mi trovavo soprattutto per leggere testi. Insieme abbiamo deciso di chiamare il gruppo: “Una via”. Le nostre attività, dirette a uomini e donne, e sempre con il decisivo contributo di tutto il gruppo, sono consistite nell’insegnamento di un corso “Filosofia morale d’Oriente e d’Occidente”, basato su una sequenza di testi fondamentale per la storia delle religioni e dell’etica. I giovani sono stati coinvolti a insegnare in carcere sulla base di una sequenza di testi che comprende Seneca, Platone del Simposio e la Caverna, un testo di Mencio sulla compassione, il re buddhista Açoka, la Bhagavadgita, alcuni testi islamici. Ho sperimentato questa sequenza in moltissime occasioni, tenendo sempre presente la dimensione etica e la dimensione spirituale. Più recentemente ha preso forma l’insegnamento e la pratica della meditazione vipassana (un tipo di meditazione buddhista, della tradizione hinayana ) con letture che accompagnano la meditazione. Inoltre, in forma più circoscritta e saltuaria, ci occupiamo del lavoro redazionale alla rivista del carcere; dell’assistenza a detenuti-studenti universitari e anche ad agenti-studenti nell’ambito della convenzione Università-carcere; dell’accompagnamento nei permessi e accoglienza di detenuti durante le riunioni settimanali del gruppo; della biblioteca del carcere. Chi scrive svolge anche visite a famiglie di detenuti maghrebini in Tunisia. Agli inizi del 2001 ho cominciato a fare piccoli esperimenti di silenzio con le detenute e poi con i detenuti, secondo gli insegnamenti della Società degli Amici (Quaccheri). Successivamente, grazie a Corrado Pensa e al suo libro, La tranquilla passione (Ubaldini, Roma 1994) ho approfondito la pratica della meditazione vipassanâ. Mi aveva aiutato moltissimo anche sul piano personale e ho pensato allora di portarla nel carcere. Attualmente nel carcere insegno in due gruppi, nel carcere giudiziario e in quello penale. Ma la situazione muta con molta rapidità, ci sono i trasferimenti o altre circostanze per cui i gruppi cambiano e si trasformano, quindi bisogna tenere presente che ogni due o tre incontri si devono ripetere le istruzioni; lo stesso succede per gli studenti, vanno via, si laureano, un ricambio continuo. Il gruppo al carcere giudiziario è quello più agitato e turbolento, perché ci sono maghrebini, cinesi, pakistani e albanesi: realtà diverse e difficili. Insieme facciamo meditazione, a volte io presento un pensiero, a volte propongo un tema, ad esempio la dignità umana o la felicità o l’amicizia, stimolando risposte veloci, senza contraddittorio. Ultimamente i miei studenti più esperti guidano senza di me la meditazione e il silenzio. Nel carcere giudiziario non abbiamo nulla, neanche giornali da mettere a terra, quindi stiamo seduti in circolo; nel carcere penale invece ci sono delle coperte e allora possiamo stare a terra, ci mettiamo nella cappella, spostiamo i banchi e ci sediamo in cerchio e mi sembra che vada molto meglio, anche perché l’atmosfera del penale è già di per sé molto più quieta. Da poco, al penale leggiamo anche pagine di Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita, un grande autore spirituale. L’elemento centrale è la pratica meditativa. Generalmente introduco l’incontro con informazioni di carattere storico, spiegando poi cosa significa vipassanâ bhavanâ, cosa vuol dire auto-realizzazione, cura di sé, cerco di spiegare la meditazione non come immersione in verità profonde o nella divinità ma piuttosto in termini di consapevolezza (sati). Poi insegno la postura e il respiro. Quello che facciamo è una piccola cosa, ma il punto su cui continuo a insistere con loro è che possono riprenderla e coltivarla da soli in cella, e non per questo devono diventare buddhisti. Qualunque sia la loro storia, tunisini, romeni, italiani, albanesi, quel che importa è che imparino a usare questo potente strumento di consapevolezza, di conoscenza di sé e soprattutto mi interessa affidarglielo per la vita e per il futuro: come è successo a me quando qualcuno mi ha detto “puoi sederti e contare i respiri” e questo semplice suggerimento è stato un tesoro che ho ritrovato nel tempo. Confido, anzi sono convinto, che succederà anche a qualcuno di loro, qui e fuori di qui, ricorderanno che in carcere insegnavo a sedere e respirare; un detenuto, che è stato in isolamento per punizione, mi ha raccontato che gli è servito moltissimo, è stato dieci giorni senza vedere nessuno. Io insisto, questa è una risorsa per la vita. C’è un monaco greco, fra noi, capitato qui per ragioni complicate, che sperimenta l’intreccio tra la meditazione buddhista e la preghiera di Gesù. Ne è entusiasta. Durante i nostri incontri facciamo una breve meditazione guidata, un quarto d’ora o al massimo venti minuti, che sono molti in una situazione così, seguendo le indicazioni dell‘Anâpánasati sutta, ossia l’attenzione al respiro, al corpo, soffermandoci sulla completezza del momento presente, alle sensazioni. In carcere c’è molto rumore, si sentono colpi da ogni parte e se ne diventa assuefatti, quindi il solo fatto di stare zitti è nuovo e impressionante, e rende consapevoli del continuo fragore in cui sono immersi, la televisione, porte che sbattono, persone che si chiamano. Finiamo con una espressione di benevolenza (metta) pronunciando le formule “Che tu possa essere felice”, “che tu possa stare bene” e toccandoci: questo contatto piace molto, è un modo di prestare attenzione all’altro a cui non sono molto abituati. Questo è lo schema che uso sempre, con l’indicazione che può essere scomposto e approfondito in una delle componenti con cui si avverte una maggiore affinità, il corpo, la mente o la mettá, e con questo andare avanti. Alla fine di ogni seduta vengono enunciati i cinque precetti (non fare violenza, non rubare, essere puri, dire la verità, non usare sostanze nocive alla mente e al corpo). Il percorso tra dimensione teorica e spirituale e pratica non è lineare, ma circolare. In altre parole, non c’è solo “Prima faccio poi capisco” ma anche “prima capisco e per questo faccio” e in questa modalità i vari aspetti vengono approfonditi per essere a loro volta sorgente di ulteriore fiducia ed espansione. In carcere ci sono molte attività di volontariato, tante persone che si adoperano, ma mi pare che nessuno affronti un lavoro di formazione etica così esplicito e diretto senza ricorrere nell’evangelizzazione, che come potete immaginare, nel mondo mussulmano susciterebbe estrema ostilità. Mi sembra che, leggendo Platone o facendo silenzio insieme, stiamo riempiendo un vuoto importante, stiamo rispondendo a una necessità spirituale profonda. La Costituzione parla di rieducazione dei detenuti, ma nessuno pone il problema in modo diretto: “Che cosa dobbiamo fare nel mondo? Qual è il nostro compito?”. Nessuno è in grado di dare una risposta definitiva, ma presentando il Buddha, Confucio, Mencio o Seneca si può accendere una riflessione. Quello che cerco di trasmettere è che dentro o fuori puoi sempre lavorare su te stesso, che abbiamo a disposizione uno spazio sempre aperto, un luogo di gioia sottile ma vera, dove è possibile in larga misura prescindere dalle condizioni personali, lavorare sulla nostra mente, prendersi cura e coltivare noi stessi, prima di pretendere di cambiare il mondo. Libero dovunque tu sia, è il titolo di un testo di Thich Nhat Hahn da noi prediletto. Non sono d’accordo con quanti sostengono che in carcere si può solo fare teatro o giocare a palla, ossia uscire da se stessi. C’è invece la possibilità di lavorare su di sé, concepire la propria esistenza come cambiamento, sviluppo, crescita. Il dubbio è che si possano sottrarre energie all’impegno di chiedere giustizia e trasformare le istituzioni, ma sono convinto che riacquistando fiducia in sé, trovando se stessi si diventa più forti e più capaci di chiedere, di pretendere una giustizia più giusta. Cerco di trasmettere la convinzione che il lavoro su di sé non è in contrasto con l’intervento sulle istituzioni, anzi protegge dal riversare su di esse quell’odio e astio che impediscono di vedere le cose nella maniera giusta, che rendono ciechi al disagio e alla frustrazione degli altri, compresi gli agenti di polizia penitenziaria: anche loro vorrebbero essere fuori di lì, fare altro, anche loro hanno bisogno di essere sostenuti. Valutare i risultati di quello che facciamo è difficile, ma respingo fermamente l’obiezione che leggere i classici e insegnare il silenzio e la meditazione ai detenuti sia una cosa astratta, anzi credo che si tratti di un lavoro molto concreto, tra le poche cose veramente concrete che vengono proposte durante la detenzione. Spero che molti detenuti, quando felicemente usciranno dalla loro condizione attuale, si ricordino di questo insegnamento e ne facciano uso, dinanzi alle difficoltà e alla sofferenza che inevitabilmente la vita riserva a ciascuno di noi. Pier Cesare Bori Professore di Filosofia morale Presidente del corso in Culture e diritti umani Facoltà di scienze politiche Università di Bologna [1] Utilizzo qui, con molte varianti, il mio testo: L’insegnamento della meditazione nella carceri, in Sati 14, n.2 (2005), 38-47: è una conversazione tenuta all’AMECO, Associazione per la meditazione di consapevolezza, a Roma, nel 2004. Per approfondimento cfr. www.spbo.unibo.it/pais/bori, e per una redazione più compiuta si veda il mio Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 1820, Milano-Genova 2004, e inoltre La vocazione di un riformatore egiziano: Muhammad ‘Abduh (1849-1905). L’incontro tra culture in una esperienza didattica a cura di Pier Cesare Bori, Diabasis, Reggio Emilia 2005 e infine Incipit. Cinquant’anni, cinquanta libri 1953-2003, Marietti 1820, Milano-Genova 2005.
|
|