"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
[relazione tenuta a Tolentino il 2 ottobre 2004
e con notevoli varianti a Servigliano il 30 aprile 2006]
La presente relazione tenterà di
mostrare una differenza essenziale fra le concezioni riguardanti il rapporto fra
anima e corpo nella speculazione “occidentale” e in quella “orientale”. Nel
tentare di portare a termine tale tentativo, mi servirò, impropriamente, di due
categorie – “Oriente” e “Occidente” – come se esse fossero pacifici concetti
statici e unitari, quando invece al loro interno sottintendono diversità e
complessità irriducibili a una semplificazione concettuale unicizzante. Vi sono
cioè molti “occidenti” e molti “orienti”, e ogni tentativo di stigmatizzarne
l’unità risulta dettato da stupidità esostiste (vedi Guenon) o da illusioni
eurocentriche (vedi alcuni passi di Hegel).
Il mio discorso sarà inoltre viziato da una seconda illegittimità, consistente
nella comparazione fra i pensieri indiano e cinese e quello europeo come se essi
si svolgessero con la medesima dinamica espressiva e situazionale: nel
cosiddetto Oriente, cioè, un concetto di “filosofia” come fin dalla Grecia è
venuto qui elaborandosi non è reperibile, e l’attività speculativa umana assume
connotati assai differenti su punti fondamentali. Non sono perciò due
“filosofie” ciò che cercheremo di comparare, ma due differenti modalità di
attività intellettuale umana. Io non potrò, tuttavia, che compiere tale
comparazione con i mezzi e nella prospettiva propri della “filosofia”.
Precisati questi due punti, articolerò il mio discorso cercando dapprima di
scorgere una sommaria definizione del valore dei concetti di anima e di corpo
nella speculazione europea, per poi mostrarne la profonda distanza, su di un
punto essenziale, rispetto alle visioni indiane e cinesi – più tardi giapponesi
– concernenti il medesimo tema.
La risposta di Ma-zi
Vorrei prendere le mosse citando un
kung-an
tratto dal
Pi-yen lu
(La
Raccolta della roccia blu),
il testo più venerato del Buddhismo chan. Spendo due parole per ricordare cosa
sia il Chan e cosa significhi
kung-an.
“Chan”
è una parola cinese forgiata sul sanscrito
dhyana,
che potremmo tradurre con “meditazione”; dal termine cinese
chan
deriverà il giapponese
Zen,
nome della corrente nipponica attraverso cui il Buddhismo fu massimamente
conosciuto in Occidente. Il Chan è una delle principali frange, probabilmente la
più antica, del Buddhismo cinese, e uno dei contributi culturali più
affascinanti dell’umanità. In esso assistiamo all’incontro fra la cultura
indiana del Buddhismo
Mahayana
(del
Grande veicolo)
e la cultura cinese del Taoismo che possiede la sua fonte nei testi fondamentali
di Chuang-zi, di Lao-zi, di Lieh-zi. Il Chan, quest’originale e prezioso
prodotto del pensiero umano, si sviluppò dal VI secolo dopo Cristo fino in epoca
Sung, cioè fino all’incirca l’XI-XII secolo, mentre in Europa si gettavano le
fondamenta della filosofia cristiana.
Il
kung-an
– in giapponese
koan
– è lo strumento principale di comunicazione, trasmissione e meditazione del
Chan. Esso significa letteralmente “caso pubblico”, ed è l’esposizione, sovente
paradossale e apparentemente incomprensibile, di un motto, un’azione, una
vicenda degli antichi maestri, su cui la mente del discepolo deve soffermarsi a
meditare per coglierne il significato essenziale, e mettere in scacco il
pensiero attingendo al Risveglio. Diverse raccolte di
kung-an
con i relativi commenti costituiscono i “testi sacri” del Chan, come la già
citata
Raccolta della roccia blu,
da cui traiamo il
kung-an
che segue, o la
Raccolta della lampada,
o la
Porta senza barriera.
Nel
kung-an
da cui vorrei prendere le mosse per il mio discorso, leggiamo la vicenda del
maestro Ma-zi: “Il maestro Ma-zi da lungo tempo era malato. Un allievo del
tempio gli chiese: ‘Maestro, come è stata la vostra salute negli ultimi
giorni?’. Ma-zi rispose: ‘Buddha dal volto di sole, Buddha dal volto di luna”.
Conformemente a quanto suggerisce il Chan, non voglio qui soffermarmi sulla
spiegazione del
kung-an.
Lo lascerò bensì inesplicato, riservandomi di tornarvi a fine intervento, quando
spero ognuno potrà attribuire significato alle ultime parole, apparentemente
assurde, di Ma-zi, alla luce della differenza che tenterò di mostrare fra la
concezione “occidentale” di mente e di corpo e quella del cosiddetto Oriente.
Anima
e corpo in Occidente
Partiamo dunque, come ho detto, dalla definizione che di mente e di corpo l’
“Occidente” ha elaborato. Per mostrare uno schizzo di questa definizione, mi
soffermerò brevemente su tre momenti fondamentali della storia della filosofia
occidentale riguardo il nostro tema: Omero; Platone; Cartesio. Spero, dedicando
due parole a questi grandi autori, di poter mostrare una cifra della concezione
occidentale riguardo mente e corpo, che vorrei far reagire con un’opposta
visione indiana e cinese.
Anima e corpo per Omero
I termini che, all’inizio del pensare occidentale, definiscono “anima” e “corpo”
sono quelli greci di ψυχή e σώμα. Nella manifestazione aurorale del nostro
pensare, ossia in Omero, non troviamo un corrispettivo terminologico equivalente
concettualmente alla nozione di “anima” intesa come principio attivo senziente e
pensante. Il termine ψυχή, infatti, ha in Omero un valore differente. Sta a
significare l’ “anima” umana nel senso che essa è ciò che tiene in vita, che
“anima” appunto, l’individuo. Similmente, anche la parola “corpo” nella sua
accezione più tarda sembra costituire una lacuna nella lingua omerica: il
corrispettivo “σώμα”, infatti, indica quasi sempre il cadavere, il corpo inteso
come corpo defunto, mera carne. Quando Omero deve indicare quello che noi
chiamiamo corpo fa solitamente uso dei termini γυια (le membra), oppure χρώς (il
perimetro della pelle), o δέμας (“corporatura, altezza”): ma quasi mai il
generico σώμα, che indica pressoché sempre un cadavere: un corpo senza vita. E
qui giungiamo al punto che ci interessa: ciò che costituisce il principio
vitale, per Omero, non è il corpo, ma l’anima: se l’uomo è l’unione di σώμα e
ψυχή, quando questa non è congiunta al primo l’uomo muore: per questo motivo,
nella lingua omerica, σώμα significa cadavere. La vita risiede nell’anima. Con
una prospettiva per noi un po’ paradossale, quando descrive un guerriero in
pericolo di vita, Omero dice sempre che sta rischiando – non il suo corpo, ma la
sua ψυχή: perché essa è il principio vitale.
Omero descrive l’anima dicendo che essa, al momento della morte, esce all’uomo
dalla bocca, emessa dal respiro, e vola verso l’Ade dove esisterà come
eidolon
(immagine). La ψυχή, potremmo dire, è il calore: la differenza
antropologicamente più originaria fra un uomo vivo e uno morto: un vivo è
attraversato da un fiato caldo, che esce e rientra: un morto, no. Dev’essere
stata questa l’evidenza su cui abbiamo riflettuto all’origine della nostra
specie; nel vivo vi è un fiato di calore che circola, ciò che un poeta del
Novecento, Paul Celan, avrebbe chiamato
Atemwende,
“svolta del respiro”. Non è un caso, infatti, che il termine ψυχή sia collegato
al verbo “ψυχειν”, “respirare”. Alla morte di un uomo l’anima, la sua vita, il
suo calore di fiato, viene espulso dalla bocca come il vento da un otre. È
interessante notare come ψυχή, in greco, significhi anche “farfalla”: l’anima,
alla morte di uomo, vola via come una farfalla, è egualmente effimera e
immateriale. Ricordiamoci di quest’immagine della farfalla per indicare l’anima
umana, perché ritorna, con valore capovolto, negli scritti di un pensatore
cinese che esamineremo in seguito. Il legame tra anima e principio vitale del
fiato rimane inscritto nella lingua latina: “spiro”,
“respirare; vivere; soffiare”, è collegato a “spiritus”,
“anima; vitalità”, come ψυχειν a ψυχή. Nel bellissimo finale del Libro IV dell’Eneide,
Virgilio dice che nel corpo di Didone “omnis
et una/dilapsus calor atque in ventos vita recessit”,
“ogni suo/calore si spense e svanì la sua vita fra i venti”, come un soffio che
si disperde nel nulla. Anche nell’italiano di oggi questo legame è ravvisabile:
si pensi alla parentela etimologica fra i verbi “respirare” e “spirare”.
Da questa fugace analisi della concezione omerica vogliamo trarre un punto
fondamentale: il principio vitale dell’uomo
non è
il suo corpo, non è la manifestazione percettiva della sua persona: ciò che lo
tiene in vita è qualcosa di invisibile e immateriale: il suo principio vitale
non è riducibile al fenomeno della persona che percepiamo. Il principio vitale
reale è impercettibile. L’essenza dell’uomo, diremo, non è il suo corpo – che
senza ψυχή è cadavere – ma la sua anima. Al di là della sua manifestazione
fenomenica e transeunte, vi è un altro principio.
Ciò che l’uomo è, il suo io personale, non è riducibile alla modalità con cui
quest’io si manifesta, ma è più profondo: resiste al tempo ed è nel corpo come
in un contenitore estraneo: la morte di quest’ultimo non vuol dire la sua
distruzione; bensì, all’inverso, un corpo, abbandonato da questo principio
ulteriore che è l’anima, è cadavere (σώμα). Notiamo come, fin dall’origine del
nostro pensare in Omero, la nostra visione è quella per cui io
ho
un corpo, e non semplicemente
sono
un corpo. Ma dire che ‘io
ho
un corpo’, vuol dire presupporre che
io
sia qualcosa di differente dal mio corpo: e perciò che io esista anteriormente e
diversamente dal mio corpo, ossia dalla manifestazione della mia esistenza. E
l’aspetto escatologico di questa persuasione consiste nel ritenere che il mio
io, precedente ed estraneo alla sua manifestazione (il corpo), posa sopravvivere
e resistere indipendentemente da essa: perciò, anche quando il mio io non darà
più nessun segnale percettivo, esisterà.
Dal punto di vista platonico
Un aspetto del pensiero di Platone porta questa concezione alle estreme
conseguenze, formalizzandola. Com’è noto, Platone vide il reale come un rapporto
fra le Idee e le cose: queste ultime immagine transeunte dell’eterno immutabile
costituito dalle Idee nell’Iperuranio, luogo del sovrasensibile (Iper-uranio:
etimologicamente: “più in alto del cielo”). Le Idee soprasensibili sono il
fondamento metafisico, la “vera causa” delle cose sensibili.
Da questa persuasione di fondo, Platone sviluppa – sotto l’influsso dell’Orfismo
– un radicale dualismo fra corpo (volto al sensibile) e anima (volta al
soprasensibile), come strutturale opposizione tra facoltà umane contrarie. Il
corpo, cioè, è inteso non semplicemente come ricettacolo dell’anima, da cui trae
la sua energia vitale, ma come “tomba”, come “carcere” dell’anima, luogo di
espiazione di una sua colpa originaria. Vediamo portata all’estremo la
concezione che avevamo già rilevato in Omero.
La posizione di Platone è quella, paradossale, per cui noi, finché abbiamo un
corpo, siamo morti: in quanto noi, fondamentalmente, siamo la nostra anima. In
termini più icastici potremmo dire che, per Platone, noi finché viviamo siamo
morti. L’anima, fin tanto che è congiunta a un corpo, è mortificata nel
sensibile: e dunque il nostro morire corporale è vita in quanto, morendo il
corpo, l’anima si libera dalla sua tomba-prigione. Dice Platone nel
Gorgia:
“E io non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero, quando scrive: ‘Chi
può sapere se il vivere non sia morire, e il morire non sia vivere?’, dicendo
che noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, da
uomini sapienti, che noi, ora, siamo morti, e che il nostro corpo è per noi una
tomba”.
Questa visione porta Platone all’affermazione apparentemente tremenda per cui il
vero filosofo desidera la morte, e la vera filosofia è un esercizio di morte.
Con ciò Platone intende dire che se il corpo, ancorato al sensibile, è
l’essenziale ostacolo alla visone del soprasensibile cui tende l’anima, l’uomo,
con la conoscenza, tende al superamento del proprio del corpo, a quella
liberazione dalle apparenze sensibili alle quali il corpo – dunque causa di ogni
male – ci condanna. Potremmo spiegare il paradosso platonico, sulla scorta di G.
Reale, rovesciandolo: dire che il vero filosofo desidera la morte, significa
affermare che il filosofo desidera la vera vita: cioè quella dell’anima; la
filosofia è l’esercizio della vera vita: la vita dell’anima. Il corpo, dunque,
il segnale percettivo dell’esistenza, la manifestazione di vita, non riguarda la
vera essenza dell’individuo, la quale è per Platone non solo differente, ma
profondamente opposta al corpo, il quale costringe l’anima nella gravità di una
materialità che la mortifica ancorandola al sensibile. Potremmo dire, in brutale
conclusione, che la visione di Platone, che scorge un radicale dualismo tra
corpo e anima umani, intendendo il primo come tomba-prigione della seconda, vera
essenza soprasensibile, sia il risvolto antropologico della celebre “seconda
navigazione” platonica, per cui il sensibile è solo l’apparente manifestazione
transeunte di una realtà soprasensibile che, in verità, non soggiace al
divenire.
Ecco che allora, parlando dell’uomo, Platone si muove nella persuasione secondo
cui noi non siamo il nostro corpo, non siamo la manifestazione della nostra
esistenza, in quanto vi è un principio più originario, chiamato anima, che
resiste al disfacimento progressivo del dato sensibile con cui si segnala
l’esistenza. Leggiamo in un importante passo del
Fedone:
“Sembra
che ci sia un sentiero che ci porti, mediante il ragionamento, direttamente a
questa conclusione: che cioè, fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra
anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo
adeguato ciò che più ardentemente desideriamo, ossia la verità. Infatti il
corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e
poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca
dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di
fantasmi di ogni genere, e di molte vanità, tanto che, come si dice, per colpa
sua non ci è neppure permesso di fermare il pensiero su alcuna cosa. […] E così
noi siamo distolti dalla filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore
di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua, ecco che
improvvisamente esso si invischia nella nostra ricerca, e allora, stordendoci,
provoca confusione e turbamento; così, per causa sua, non riusciamo a vedere il
vero. Risulta dunque chiaro che, se vogliamo vedere una cosa nella sua purezza,
dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se
medesime. Allora soltanto ci sarà dato raggiungere ciò che ardentemente
desideriamo e di cui ci diciamo amanti, vale a dire la conoscenza suprema: cioè
quando noi saremo morti, mentre, finché siamo vivi, come il ragionamento
dimostra, non è possibile. […] E così, liberati dalla stoltezza che ci proviene
dal corpo, com’è verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e
conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro: questa,
forse, è la verità”.
Vorrei sottolineare l’incipit
da cui prende le mosse per il suo ragionamento Platone: egli dice “fino
a quando noi possediamo un corpo…ecc”,
presupponendo dunque, con tale affermazione, una differenza ontologica di fondo
fra noi e il nostro corpo, che è dunque una cosa che noi
possediamo,
essendo il principio dell’individuo più originario e anteriore rispetto alla sua
manifestazione sensibile che chiamiamo corpo. “Noi possediamo un corpo”: dunque
non siamo un corpo, non siamo ciò che appariamo, non in ultima analisi: vi è
infatti un tempo nel quale non possederemo più un corpo, dice Platone, e saremo
più propriamente noi stessi: il principio vitale dell’anima resisterà alla
disintegrazione corporea e sarà libero dalla gravità del sensibile cui il corpo
lo costringe distogliendo noi dalla verità soprasensibile cui ardentemente
aneliamo.
La svolta di Descartes
Il senso del dualismo antropologico platonico spero risulti ora piuttosto
chiaro. Possiamo, a questo punto, spingerci a una preliminare definizione del
concetto che la speculazione occidentale ha dato di anima, concetto che nel
corso dei secoli verrà a intrecciarsi, a giustapporsi e intersecarsi con quello
di mente: l’anima – più tardi la mente – è un’essenza individuale che resiste
all’evidenza della sparizione del nostro segnale sensibile, il corpo.
Vediamo brevissimamente come questa persuasione sia formalizzata in Descartes.
Nelle pagine di Cartesio agisce il dualismo di platonica memoria che abbiamo
tentato di spiegare. Nel trattato
Les passions de l’âme,
Cartesio definisce l’essere umano come essere formato da
affezioni
e da
azioni:
queste ultime dipendono dalla volontà guidata dalla ragione, le prime sono
invece involontarie e causate nell’anima da forze meccaniche di origine
sensibile che agiscono sul corpo. La morale umana si costituisce per Cartesio
nella capacità dell’anima di vincere le affezioni, trasformandole in azioni. Le
affezioni hanno origine nel corpo e affliggono l’anima in quanto congiunta al
corpo. Compito dell’uomo è far sì che l’anima, attraverso la ragione, si
sottragga al domino irrazionale meccanico del corpo, dominando le emozioni.
Questo dominio delle emozioni Cartesio lo chiama
saggezza,
ed è lo scopo della moralità. La modalità per ottenere la saggezza è estendere
il dominio dell’anima a quello del corpo attraverso un pensiero chiaro e
distinto delle cose, il quale scacci le emozioni e la loro forza dal dominio
dell’anima.
Questa visione antropologica propria di Cartesio si inserisce all’interno del
suo sistema: quest’ultimo ha il suo fulcro nel celeberrimo, ma spesso poco
inteso,
cogito ergo sum.
Cerchiamo di comprendere questo principio più da vicino, perché può essere
illuminante per il nostro discorso.
Va precisato anzitutto, preliminarmente, che Cartesio vide il reale come
costituito da due sostanze distinte: una sensibile e corporale, detta
res extensa,
l’altra soprasensibile e immateriale, detta
res cogitans.
La prima è definita dai caratteri propri dell’estensione: la larghezza, la
lunghezza e la profondità; è altra dalla sostanza spirituale, che può esistere
indipendentemente da essa. La materialità corporea è dunque per Cartesio un
meccanicismo definito unicamente dai caratteri dell’estensione. Notiamo come
Cartesio, con questo dualismo fra
res cogitans
e
res extensa
attribuisca, innovativamente, il carattere di “sostanza” al corpo, fino ad
allora inteso aristotelicamente come organo o strumento dell’unica sostanza
anima.
Ora l’uomo, o per meglio dire il soggetto, per Cartesio, è sostanza, in quanto
sostanza pensante, non in quanto estesa. In Cartesio vediamo il germe di quella
preziosa distinzione, presente nella lingua tedesca, del corpo inteso come
Körper
o come
Leib,
distinzione su cui rifletterà con straordinario acume Edmund Husserl.
Körper
è il corpo meccanicamente inteso, l’organismo, il corpo che è oggetto della
biologia: esso è
res extensa.
Leib,
invece,
come suggerisce il termine, è il corpo inteso come entità vivente complessa,
l’oggetto delle scienze umane: ed esso è
res cogitans.
Il soggetto umano, per Cartesio, è senz’altro
Leib.
Tentiamo di seguire i passaggi del ragionamento cartesiano al fine di
comprendere i fondamenti per cui la sostanzialità dell’uomo non è costituita
dalla sua corporeità, quanto piuttosto dalla sua anima.
La scaturigine essenziale del pensiero di Cartesio è la volontà di reperire un
metodo che sia la guida storica per la ragione in tutte le scienze. Da ciò
vediamo Descartes operare una critica radicale a tutto lo scibile umano, critica
che si concretizza in un dubbio radicale su tutto ciò che è dubitabile, una
sospensione di giudizio (epoché)
riguardo tutto ciò che non possiede evidenza. Ora, ogni cosa, secondo Cartesio,
è dubitabile: ossia è possibile dubitare della verità o falsità di qualsivoglia
idea: la sospensione di giudizio non può tuttavia investire le idee stesse, che
si danno con evidenza. L’epoché
cartesiana, in altre parole, riguarda l’esistenza, non l’essenza delle cose. Le
idee delle cose come pure essenze, indipendentemente dalle cose, sono
indubitabili. Da qui comprendiamo come il metodo del dubbio universale di
Cartesio avrà successo se, ridotto con l’epoché
il mondo della conoscenza a un mondo di essenze pure, se ne trovi una la cui
essenza sia l’immediata rivelazione di un’esitenza. Quest’essenza sarà l’io.
Nel carattere radicale del dubbio cartesiano, si rivela una certezza.
Sull’esistenza di qualsiasi cosa, dice Cartesio, io posso dubitare. Posso
supporre che non vi sia Dio; che io stesso non possegga un corpo. Ma per
dubitare, per ammettere che tutto è falso, occorre che vi sia una realtà (io)
che, pensando, sia esistente. Se vi è un dubitato dev’esserci un dubitante. Ecco
dunque la certezza al fondo del dubbio cartesiano: l’io: se un dubbio viene
esercitato, deve darsi un pensiero che lo eserciti, e questo pensiero non può
che scaturire dall’io, il cui carattere è dunque quello di essere una sostanza
pensante.
Riassumiamo e schematizziamo dunque così il
cogito ergo sum
di Descartes, che ora abbiamo incontrato. Dubito,
ergo cogito;
cogito ergo sum, ergo sum cogitans.
Dubito, perciò penso; penso dunque sono, e dunque sono sostanza pensante. Io non
esisto se non come cosa che dubita, dunque come una cosa che pensa. Se l’io come
corpo, come
res extensa,
come
Körper,
può essere investito dal dubbio metodico universale, l’io come
res cogitans
si dà come sostanza originaria. Dunque, anche in Cartesio, vediamo il senso del
dualismo antropologico fra anima e corpo risolversi nella visione per cui la
sostanzialità umana non è la sua manifestazione (il corpo, la cui esistenza,
dubitabile, non è sostanza), ma un principio ulteriore più originario: ciò che
l’Occidente ha chiamato dapprincipio “anima” e in seguito e “mente”.
Un principio più personale della persona
Posso concludere questo fugace essermi soffermato su tre giganti del pensiero
d’Occidente, dicendo che le considerazioni fin qui svolte ci hanno condotto a
vedere come l’ “anima”, nella filosofia del cosiddetto Occidente, possa
intendersi quale principio originario indipendente dalla manifestazione
percettiva: nonostante l’evidenza dell’intermittenza del nostro segnale di
esistenza, costituito dal corpo, la mente o anima è il principio ulteriore per
cui l’individuo – ciò che sembra aver origine con la formazione suo corpo e fine
con la dissoluzione di quest’ultimo – è un’essenza che resiste indipendentemente
dalla sua manifestazione. Il corpo è solo la casa in affitto in cui la nostra
vera essenza (mentale) si trova in una sorta di villeggiatura.
Forse la forma più estrema e compiuta di questa visione occidentale si ha nella
dottrina cristiana della resurrezione dei corpi, secondo la quale ognuno, alla
fine del tempo, risorgerà non soltanto come spirito immateriale, ma con il
proprio corpo: con la propria pelle, i propri capelli, le proprie labbra, i
propri genitali. Non soltanto dunque viene concepito un principio ulteriore
rispetto al corpo che significhi il resistere dell’individualità nonostante
l’evidenza della sparizione della sua manifestazione: ma viene addirittura
concepita una visione secondo la quale tale sparizione è meramente apparente:
quello stesso segnale percettivo che si è estinto – il corpo – in realtà ha
resistito: è eterno.
La dialettica fra anima e corpo, in Occidente, è dunque quella fra la sparizione
del segnale dell’individualità e il suo permanere come essenza. Sia detto, solo
in via precisatoria a proposito di un problema quanto mai interessante, ma che
per ragioni di tempo mi limito ad accennare, come questa dialettica non sia
stata in Occidente sempre pensata sottoforma di un dualismo radicalmente
oppositivo. Nella riflessione della psicologia e della psicanalisi, ad esempio,
mente e corpo sono termini che si definiscono reciprocamente: il corpo, almeno
da Freud in poi, è lo sfondo di tutti i fenomeni psichici (dico ciò anche per
sottolineare nuovamente come esistano “molti occidenti”).
La cifra che comunque mi preme aver mostrato è la visione occidentale per la
quale l’anima è un principio personale che resiste alla sparizione sensibile
della persona. È infatti su questo punto che vorrei far reagire la visione da
noi ora descritta con alcune riflessioni proprie di pensieri cinesi e indiani.
Un pensiero “senz’anima”
I termini cinesi
hsin,
qi, shen
e i sanscriti
citta, atman, skandha
sono apparentemente i corrispettivi dei nostri ψυχή,
mens, animus, anima:
ma i concetti cui questi termini fanno cenno differiscono su di un punto
essenziale, come tenterò di dimostrare in ciò che dirò in seguito.
Credo sia illuminante partire subito dalle parole puntualissime e potenti di un
grande monaco buddhista vissuto nella Cina del IV secolo, chiamato Huiyuan:
“La
nostra parte di energia vitale (qi)
si esaurisce in questa vita: allorché questa giunge a termine, l’energia sembra
dissolversi per diffondersi nel non-esistente(wu).
Per quanto lo spirito (shen)
sia un’entità sottile, è il risultato delle trasformazioni dello Yin e dello
Yang. Questi trasformandosi danno luogo alla vita, e trasformandosi ancora danno
luogo alla morte. La loro condensazione è inizio, la loro rarefazione è fine.
[…]Supponendo che corpo e spirito siano all’origine distinti….rimarrebbe il
fatto che lo spirito risiede nel corpo: come il fuoco risiede nel legno: finché
il corpo è in vita, lo spirito si mantiene, ma allorché il corpo è distrutto, lo
spirito sembra spegnersi. Allorché il corpo si dissolve, lo spirito sembra
disperdersi, perché gli manca il luogo in cui dimorare; quando il legno
imputridisce, il fuoco si spegne, perché gli manca ciò che lo supporti. Questo
sembrerebbe il principio intrinseco alle cose (li).
[…]
Invece, in realtà, il fuoco che si propaga nel legno è come lo spirito che si
propaga nel corpo. E il fuoco che si propaga a un’altra fascina è come lo
spirito che si trasmette a un altro corpo. Solo chi è immerso nell’illusione,
vedendo il corpo disgregarsi alla fine della vita, crede che il desiderio di
vivere dell’individuo persica insieme a lui; allo stesso modo, constatando che
il fuoco si spegne su di un solo pezzo di legno, potrebbe pensare che esso sia
spento per sempre”.
Nelle parole di Huiyuan vediamo espressa una visione propria di una certa
cultura cinese intrisa di buddhismo: il principio vitale delle cose (qi,
ciò che noi chiameremmo “anima”, ψυχή) è un principio che sopravvive e informa
il corpo (l’apparenza sensibile dell’esistere), ma con un significato
profondamente differente, se non opposto, a quello che abbiamo rilevato nella
concezione occidentale.
Il principio vitale indipendente dalla forma corporea dell’individuo è come il
fuoco che brucia un pezzo di legno: questa metafora di Huiyuan è illuminante per
comprendere la differenza cui sto facendo cenno: se l’ “anima” di cui parliamo
in occidente è, abbiamo visto, un principio dell’individuo che si conserva dopo
la sua sparizione manifestativia, il
qi,
quel principio ulteriore di cui parla Huiyuan, è un’essenziale estraneità
rispetto al soggetto: il fuoco non ha nulla a che vedere con il pezzo di legno.
Infatti esso, proprio come un fuoco, si trasmette da un pezzo di legno
all’altro, indeterminato principio di tutto ciò che si manifesta: e tutto ciò
che si manifesta non è altro che immagine di quell’indeterminato, impersonale
principio neutro che, all’opposto che nelle visioni omeriche, platoniche e
cartesiane, non riguarda la conservazione perenne dell’individuo, ma la sua
essenziale nientevolezza, il suo carattere profondamente effimero.
Con la metafora del fuoco e del legno, Huiyuan esprimeva da Cinese un fondamento
del buddhismo indiano: la dottrina dell’anatman:
del “non-ego”, potremmo dire, per cui non vi è nessuna realtà personale
sussistente, ma tutto soggiace al principio ultimo dell’impermanenza (anicca).
Dal punto di vista di Huiyuan, Omero, Platone e Cartesio sono afflitti da
attavada,
dalla falsa credenza in un principio individuale eterno.
Attaccarsi a quest’illusione, dice il Buddhismo, è sciocco come credere che il
bruciare del pezzo di legno sia un processo nel quale il pezzo di legno si
conservi. Ogni creatura invece non è altro che il combustibile, per così dire,
della vuota brama di esistere. Non a caso, infatti, il termine sanscrito
nirvāna
vuol dire letteralmente “estinto per mancanza di combustibile”: ossia, fuor di
metafora, la brama di esistere, dalla quale, per il Buddhismo, ha origine ogni
dolore, possiede sussistenza soltanto finché si ritiene sostanziale la propria
esistenza individuale: ma se non vi fosse nessun pezzo di legno, il fuoco non
avrebbe nulla da bruciare. Vediamo la distanza dalle concezioni occidentali di
anima e corpo. Il principio che fa da controparte al corpo non è qui un’essenza
nella quale si conservi ciò che il corpo manifesta in maniera transeunte
(l’individualità); ma bensì, al contrario, è un principio profondamente
estraneo
al singolo.
In maniera brutale, diremo che il risvolto di questa concezione è che la vita
non è un fatto personale: perché il principio ultimo non è un che di
individuale. Concentrarsi su di sé per eliminare il dolore dell’esistenza, ciò
che il Buddhismo chiama
dukkha
(termine pali), vuol dire perdere di vista il problema: concentrarsi sul pezzo
di legno quando in realtà il problema è il fuoco divampante. Occorre spegnere il
fuoco, non curare il pezzo di legno. Indipendentemente da quel pezzo – ecco il
punto di scarto – quel fuoco può divampare e bruciare. Posso a questo punto
sottolineare due nodi essenziali sulla differenza del rapporto mente/corpo fra
le concezioni che stiamo cercando di comparare: a) nella visione buddhista il
principio di ulteriorità rispetto al corpo è un principio estraneo, che non
riguarda, né in cui consiste la vera essenza della mia manifestazione
esistentiva; b) l’individuo, che per la visione della filosofia europea che
abbiamo visto ha la sua consistenza immutabile in un’anima che è la reale
essenza del suo segnale corporeo transeunte, nella visione buddhista indiana e
cinese è un principio illusivo da cui scaturisce il dolore dell’esistere;
proprio quest’ultimo è la forza impersonale che soggiace a ogni manifestazione
corporea.
La formalizzazione più estrema di ciò è la concezione buddhista del
samsara,
di così difficile comprensione per un occidentale e forse per questo così
sovente fraintesa con l’accostamento alla metempsicosi, con cui ha ben poco a
che vedere (salvo in Tibet). Il
samsara
è un concetto che non riguarda la trasmigrazione di un’anima individuale da un
corpo all’altro (concezione ammissibile solo in un pensiero per cui esiste un
principio individuale immutabile): esso sta bensì a significare la perenne e
vana ciclicità fatta di dolore del vivere e del morire in cui sono invischiate
le anime di tutte le creature, sotto la spinta della brama di vivere. Questa
brama si alimenta del triplice fuoco dell’odio (dosa),
dell’illusione (moha)
e dell’attaccamento (lobha),
fuoco che ha la sua fonte nell’egotismo consistente nel ritenersi principio
sostanziale. Il
samsara
è, potremmo dire, l’opposto del
nirvāna.
È ciò che continua ad avere combustibile per bruciare. Il concetto buddhista di
samsara
da un lato, e la dottrina cristiana della resurrezione dei corpi, dall’altro,
sono le formalizzazioni estreme di due opposte visioni del rapporto fra “mente”
e “corpo”.
Due farfalle contrarie
Il concetto di “corpo”, possiamo ora dire, assume dunque nel buddhismo
un’accezione del tutto particolare: se il principio al fondo di me stesso è
l’impersonale brama di vivere, il mio corpo è allora l’insieme dei corpi di
tutte le creature, per cui una massima
mahayana
dice “badando agli altri hai cura di te, badando a te hai cura degli altri”.
Giacché il mio dolore, la mia essenza, non è qualcosa che riguardi solo me, ma,
simile al fuoco che si trasmette da un legno a un altro, riguarda ognuno. Da qui
la profonda differenza fra le morali della filosofia europea e quella del
buddhismo: a partire dalla persuasione dell’individuo come monade che sussiste
perennemente e separatamente, la via del bene deve indicarsi in un imperativo
categorico che violenti la propria essenza; il concetto di
karunā
(“compassione attiva”) predicato dal Buddhismo scaturisce invece direttamente
dal ritenere se stessi come inconsistentemente appartenenti a un processo che
riguarda ognuno. Perché, ripetiamolo, quando l’anima non è un principio
personale, ma un’estranea forza comune, il mio corpo è l’insieme di tutte le
creature.
Il grande pensatore cinese Chuang-zi, che chiamava l’universo “la grande zolla”,
ha espresso in maniera molto bella questa concezione con un passo citato spesso
a sproposito da tutti i frequentatori occasionali dei suoi scritti. In questo
passo Chuang racconta di aver sognato di essere una farfalla, una farfalla che
si libra serena nei prati, e che ignora l’esistenza di Chuang. Ora mi sono
svegliato, dice Chuang-zi, ma non mi rendo più conto se sono stato io a sognare
una farfalla o se la mia vita non sia altro che il sogno di quella farfalla. Se
la ψυχή è in Omero una “farfalla” che vola via trasformando il calore
dell’individuo vivente in un’immagine immutabile della sua individualità, la
farfalla di Chuang-zi è il simbolo dell’impermanenza dell’io, del suo carattere
illusivo, di come la vita sia l’allucinato processo di uno stato ansiogeno
consistente nel ritenerci veramente al mondo come entità sussistenti e separate.
Dopo la morte si può ancora invecchiare?
Con questo mio breve intervento, spero di aver indicato la cifra di una
differenza fra
una
visione della filosofia europea riguardo il rapporto anima/corpo, e
una
visione propria di alcuni pensieri indiani, cinesi, e più tardi giapponesi. Ora
vorrei concludere leggendo un testo di uno dei maggiori poeti cinesi
contemporanei, Mang Ke. Il testo si intitola significativamente
Dopo la morte si può ancora invecchiare.
Esso esprime, credo molto potentemente, come il problema della vita non sia un
fatto individuale, come l’io non sia una sostanza che risiede in un’essenza che
sopravvive al segnale manifestativo della nostra esistenza. “Dopo la morte si
può ancora invecchiare” perché non è concentrandosi sul pezzo di legno che
possiamo estinguere il fuoco. Il fuoco continuerà a bruciare, una volta esaurito
quel pezzo di legno: e ciò – questo è il punto più difficile da capire per noi –
ci riguarda essenzialmente: perché se il principio della mia ulteriorità è la
forza
estranea
del dolore, il mio copro è l’insieme di tutte le creature. In questo senso, dopo
la morte, si può continuare a invecchiare.
DOPO LA MORTE SI PUò ANCORA INVECCHIARE
Che sulla terra crescano i capelli bianchi dei morti
mi fa credere che dopo la morte si possa ancora invecchiare
si può essere assaliti dagli incubi
svegliarsi all’improvviso, aprire gli occhi e vedere
un altro giorno venire alla luce da un guscio d’uovo
e subito mettersi a beccare per terra
e si possono anche sentire i propri passi
ascoltare le proprie gambe allegre e tristi
e si può anche ricordare, benché la testa sia vuota
benché coloro che si hanno nel cuore siano ormai decomposti
e si può anche cantare le lodi, cantare l’amata
raccogliendo tra le mani il suo viso
e poi adagiarla con cura sull’erba
guardarla tirar fuori goffa il suo corpo sensuale
e si può anche attendere, attendere i raggi del sole
e infine rotolare come una stuoia lacera trascinata dal vento
attendere il tramonto, ma, come temesse che una bestia feroce
possa lacerargli le carni, quello ti evita
la notte, invece, ti lascia dolcemente scivolare tra le sue braccia
giocare a piacimento, sfogarti, senza dire una parola
e si può anche, sfiniti, sdraiarsi per terra, chiudere gli occhi
e ascoltare nel cielo il ruggito di bestie che lottano
e si può essere in ansia, forse in una notte
tutto il sangue del cielo si rovescerà sulla terra
e ci si può anche alzare, e piangere un volto già morto
ma gli occhi di lei ti guardano ancora fissi
e si può anche sperare, desiderare di vivere in eterno
di non essere un animale da preda
che viene gettato nel fuoco e divorato
e si può soffrire, e non riuscire a sopportarlo
che sulla terra crescano i capelli bianchi dei morti
mi fa credere che dopo la morte si possa ancora invecchiare.
Solo a partire dall’idea per cui l’io non sia il fulcro ontologico del reale,
può sorgere il verso “dopo la morte si può ancora invecchiare”; perché
l’invecchiare, così come l’azione della brama del desiderio di vita secondo il
Buddhismo, non dipende dall’io. Il punto è il fuoco: non il pezzo di legno.
Noi Europei abbiamo forse, come più profonda testimonianza della nostra più pura
identità, un sepolcro vuoto. Segno di una pienezza senza fine: quella per cui la
sparizione del corpo, la sua disintegrazione, non implica l’azzeramento di ciò
di cui quel corpo è segnale, la nostra individualità. Anzi: il permanere dell’io
è addirittura segno della reintegrazione della materialità dispersa nel nulla
annichilente. Come narra nel Vangelo Luca, quando il Nazzareno risorge gli
Apostoli ne toccano il corpo, il costato ferito. L’anima, resistendo al nulla,
ha salvato il corpo. L’io è così indistruttibile da restaurare il segnale di
viva presenza che esso emana, la nostra corporalità.
Osservata nel controluce della cultura buddhista cinese, questo basilare
principio europeo appare in tutta la sua fondamentalità. Infatti questo segnale
di vita, per un pensiero
chan,
è esso stesso illusivo, faccia mutevole di un variegato nulla, che noi chiamiamo
anima.
Cioè: da lungo tempo, il grande maestro Ma-zi era malato. Un allievo del tempio
gli chiese: “Maestro, com’è stata la vostra salute negli ultimi giorni?”. Ma-zi
rispose: “Buddha dal volto di sole, Buddha dal volto di luna”.