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INTRODUZIONE
«Estetica del vuoto» è denominazione problematica. Per poter
cominciare ad entrare nel nodo di problemi che essa racchiude si
potrebbe in prima approssimazione tentare di identificare l'estetica
del vuoto con l'estetica orientale. Ma questo tentativo, più
che semplificare, complicherebbe ulteriormente la questione, perché
la stessa denominazione «estetica orientale» costituisce problema.
Infatti non si può parlare di estetica orientale per il
fatto, del tutto evidente, che «Oriente» designa una varietà di
regioni, culture, tradizioni assai diverse, che comprende le tre
grandi civiltà dell'Islam, dell'India e della Cina, ma anche quelle
meno ampie, benché non meno importanti, del Giappone, della Corea,
del Tibet, della Birmania e della Thailandia, ciascuna delle quali
possiede una propria lingua, proprie tradizioni artistiche, nonché
propri canoni estetici. Non solo: all'interno di ciascuna di queste
civiltà si sono sviluppate vicende culturali e tradizioni artistiche
tra loro assai diverse: basti ricordare a questo proposito l'immensa
varietà di produzioni artistiche e di scuole estetiche sorte e
sviluppatesi lungo la storia della sola civiltà indiana. Quando si
parla di «Oriente» si dovrebbe quindi sempre specificare di quale
«Oriente» si sta parlando e ci si sta occupando. Per quel che
riguarda il presente lavoro, si intende soffermare l'attenzione su
alcun aspetti e significati estetici presenti nella civiltà cinese e
in quella giapponese. Tuttavia questa che, relativamente
all'orizzonte denotato dal termine «Oriente» apparecome una
delimitazione, a sua volta rappresenta in realtà un orizzonte
talmente ampio da dover essere perlustrato da un'enorme schiera di
opere generali e di lavori monografici. Ciò che indica l'ulteriore,
necessaria, delimitazione della nostra ricerca è dato dagli aspetti
aspetti e dai significati estetici che, sorti nell'ambito del
taoismo classico, si sono in seguito mediati col buddhismo ed hanno
concentrato il loro sviluppo nella scuola del buddhismo chan
(in Cina) e zen (in Giappone).
In secondo luogo non si può parlare, a rigor di termini, di
estetica orientale perché, almeno nell'ambito della civiltà cinese e
di quella giapponese, non si è mai avuta, come in Occidente, una
disciplina spesso dotata anche di pretese scientifiche - chiamata
«estetica». Solo di recente, in seguito a massicci processi di
occidentalizzazione, si è avuto qualche tentativo di lavori
definibili come contributi di «estetica» nel senso usato dalla
tradizione filosofica occidentale. In generale si tratta tuttavia di
riprese e di rielaborazioni di temi e problemi nati e cresciuti
all'interno di questa tradizione, con particolare riguardo alla
tradizione filosofica tedesca e con specifici riferimenti al
pensiero di Kant, di Husserl e di Heidegger.
Vi sono tuttavia ragioni più profonde per le quali l'estetica
come specifica disciplina filosofica non è sorta all'interno della
civiltà cinese e di quella giapponese. È da ricordare prima di tutto
e in generale che entrambe queste civiltà non hanno mai posto né
sviluppato quella differenza radicale tra teoria e pratica che ha
invece segnato - in negativo e in positivo - pressoché tutta la
cultura occidentale: per il pensiero cinese e, poi, per quello
giapponese, ogni idea è già un'azione, ed ogni azione possiede in
sé energia e valore spirituali.
Parlare dunque di estetica nel senso di «teoria» o di «scienza
del bello» non ha in questi orizzonti di pensiero alcun significato,
perché in essi non è ritenuta reale una situazione in cui vi sia, da
una parte, una bellezza da contemplare o da creare e, dall'altra, un
soggetto che la contempla o la crea. Anzi, per il pensiero cinese e
per quello giapponese, pragmatici e talvolta addirittura empirici,
mai comunque metafisici, «bellezza» in generale come idea non
esiste. Per essi possono esistere oggetti e situazioni, fatti o
eventi connotabili, ma mai definibili, come belli a seconda del
momento e delle circostanze: tuttavia anche questa denominazione
«belli», benché relativa, mantiene ancora qualcosa di astratto come
se un'unica categoria universale, quella di bellezza, fosse fatta
valere di volta in volta a seconda dei diversi contesti e delle
diverse occasioni. In realtà, per la cultura cinese e giapponese
«bello» può essere per esempio anche qualcosa di oscuro, di
malinconico e di indefinito - come nel caso dello yugen - senza che
per questo si possa concludere che la bellezza coincide con
l'oscurità, la malinconia e l'indefinito, e di conseguenza senza che
si possa passare a formulare un'estetica della malinconia o
dell'indefinito. Ciò significa in generale che, a differenza di
quanto è avvenuto lungo quasi tutta la storia del pensiero
occidentale, in Cina e in Giappone - almeno per quanto riguarda le
tradizioni qui considerate - non si è mai sentito il bisogno di
«sistemare» le esperienze in qualche teoria e, di riflesso, non si è
mai avvertita la necessità di sistemare in qualche teoria
estetica la pluralità delle esperienze estetiche. Questa
assenza di teoria non è stata affatto considerata come una
mancanza di teoria o come incapacità cronica di pensare in
termini astratti e in forma sistematica e metodica: al contrario, si
è sempre ritenuto che proprio i tentativi di elaborare teorie
finiscano per limitare le esperienze abbassandone la qualità e
diminuendone l'intensità. Per questo nello Zhuangzi è detto:
«quando regna la virtù perfetta [...] gli uomini si amano l'un
l'altro senza conoscere l'ideale dell'amore umanitario». Per questo
nella Raccolta della Roccia Blu, crestomazia delle scritture
zen, è detto: «Quando i sentimenti di giudizio della coscienza
intellettuale terminano, solo allora potete vedere fino in fondo. E
quando vedrete, allora, come nei tempi antichi, il cielo è cielo, la
terra è terra, le montagne sono montagne, i fiumi sono fiumi».
Non è qui il caso di indugiare a stabilire se abbia avuto ragione
Hegel a considerare il pensiero orientale una forma di pensiero
infantile, non ancora pienamente sviluppato, o se abbiano avuto
ragione molti pensatori cinesi e giapponesi a considerare la
passione per la teoria una malattia infantile che colpisce la vita
dello spirito spesso con esiti anche letali. Di fatto il pensiero
orientale, almeno per quanto riguarda quelle sue espressioni
sedimentate nei testi taoisti classici e nei testi prodotti dalla
tradizione del buddhismo chan e zen, mostra una radicata e
costante diffidenza nei confronti delle pretese avanzate
dall'impulso a fare teorie, e manifesta invece un'altrettanto
radicata e costante predilezione per tutti quei modi e tutte quelle
circostanze in grado di produrre un rapporto diretto con
l'esperienza, privo di mediazioni intellettuali e culturali. Il
rapporto con la realtà è quindi preferito al rapporto con i
concetti, o almeno con quei concetti che pretendono di sostituirsi
alla realtà. Questo tipo di rapporto, almeno per quanto riguarda la
civiltà giapponese, ci sembra sia stato efficacemente messo a fuoco
da uno dei maggiori esperti italiani di cultura giapponese:
La civiltà giapponese è un ricettacolo di mezzi toni e sfumature,
di spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono, di
un'infinità di arti che hanno come scopo non il prodotto estetico ma
l'atto che arricchisce il rapporto. Rapporto con le persone,
rapporto con la natura, rapporto con le cose.
In questa prospettiva, dunque, taoismo e buddhismo chan e
zen non possono essere assunti e fatti valere come teorie o dottrine
dalle quali vengano dedotte o alle quali vengano ricondotte
particolari forme di esperienza estetica. Per vedere il nesso che li
lega con alcune particulari forme di esperienza estetica è
necessario abbandonare i tradizionali sentieri tracciati dai
procedimenti di deduzione e induzione ed è necessario trovare la
strada che conduca al nucleo centrale del taoismo e del buddhismo
chan e zen, dal quale sorge e si irradia l'energia che genera e
sviluppa tali forme di esperienza estetica. Questo nucleo centrale è
dato dal vuoto. Non dal concetto di vuoto, ma dall'
esperienza del vuoto. Ciò significa che alla base delle attività
che accompagnano i processi formativi di alcune arti e che
interessano la fruizione estetica delle forme da esse prodotte, non
sta una teoria del vuoto, ma un'esperienza del vuoto: esperienza che
è ottenibile solo mediante la pratica di un particolare tipo di
meditazione.
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I. IL VUOTO NEL TAOISMO
I. LE FONTI DEL VUOTO
Il più celebre e chiaro riferimento al vuoto che la tradizione
taoista ci ha insegnato è quello contenuto al capitolo XI del
Daodejing:
Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo,
l'utilità della vettura dipende da ciò che non c'è.
Si ha un bel lavorare l'argilla per fare vasellame,
l'utilità del vasellame dipende da ciò che non c'è.
Si ha un bell'aprire porte e finestre per fare una casa,
l'utilità della casa dipende da ciò che non c'è.
Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c'è.
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Il problema del vuoto è affrontato dal taoismo classico non solo in
termini di spazio, ma anche in termini di tempo: «Esaminando
i pieni e i vuoti di questo mondo, la misura degli esseri è
infinita; il loro tempo non ha termine; la loro condizione non ha
permanenza; il loro principio e la loro fine non hanno durata». Ciò
significa, evidentemente, che ogni cosa, sia essa un ente o un fatto
culturale, essendo intessuta ed imbevuta di tempo, si consuma.
Tuttavia la questione è più complessa di quanto questa prima ed
elementare spiegazione possa far pensare. Innanzitutto è da
ricordare che, come il vuoto spaziale non è pura assenza di spazio
né spazialità assoluta, così, nel caso della temporalità, il vuoto
temporale non è semplice assenza di tempo né temporalità assoluta,
cioè tempo indefinito e indeterminato. Il vuoto temporale, come
quello spaziale, ha una funzione dialettica: come lo spazio
vuoto si dà solo in rapporto allo spazio pieno e viceversa, così il
tempo vuoto, ossia quello che si potrebbe chiamare «tempo assente» -
il quale si determina come «già stato» (passato) e come «non ancora»
(futuro) - si dà solo in rapporto al tempo presente, e viceversa.
Inoltre: come il vuoto spaziale è «trascendentale» perché interno a
ciascuna cosa particolare ma anche perché funge da condizione di
possibilità per la dislocazione di ogni cosa particolare,
così pure il vuoto temporale, il tempo dell'«assenza», è
trascendentale sia nel senso che appartiene a ciascuna cosa
particolare, ma anche nel senso che è condizione di possibilità per
la durata di ogni cosa particolare.
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«Egli pratica il Non-agire, e in questo caso non c'è nulla che non
sia ben governato»; pertanto se, in generale, il non-agire del Dao
ha conseguenze di carattere cosmologico perché fa sì che ogni cosa
spontaneamente si faccia, il particolare non-agire del saggio
ha conseguenze di carattere etico e politico, perché fa sì che ogni
agire spontaneamente si compia: «Perciò un Santo ha detto:
"Se io pratico il Non-agire, il popolo si trasforma da solo. Se io
amo la quiete, il popolo si rettifica da solo. Se io mi astengo
dall'attività, il popolo si arricchisce da solo. Se io sono senza
desideri, il popolo tornerà da solo alla semplicità"». Alla Via del
Cielo, al Dao universale la cui azione spontanea è «di non lottare e
nondimeno saper vincere», corrisponde la particolare via (dao)
del saggio che «sostiene il corso naturale dei diecimila esseri
senza osare agire»; ma, per ottenere questo, è necessario che il
saggio faccia il vuoto dentro di sé: «Colui che si applica allo
studio aumenta ogni giorno. Colui che pratica la Via diminuisce ogni
giorno. Diminuendo sempre di più, si arriva al Non-agire. Non
agendo, non esiste niente che non si faccia». In definitiva ciò
significa: per praticare il Dao è necessario il non agire, ma per
praticare il non agire è necessario praticare il vuoto, far agire
il vuoto.
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2. IL VUOTO NEL BUDDHISMO
I. IL VUOTO NEL «CANONE»
La funzione del vuoto nel buddhismo zen e nelle arti che ad esso,
per via diretta o indiretta, si sono ispirate, è di primaria e
fondamentale importanza, ma per poterne evidenziare le
caratteristiche principali è necessario chiarire come e quanto il
problema del vuoto sia presente ed agisca ancor prima nel buddhismo
in generale. Il buddhismo, infatti, ben prima di coniugarsi, in
Cina, con il taoismo, e di generare il buddhismo chan, aveva
autonomamente sviluppato una serie di profonde riflessioni attorno
all'idea e all'esperienza del vuoto. Il buddhismo chan in
Cina e il suo equivalente zen in Giappone non faranno che
focalizzare e far risaltare ai massimi livelli, soprattutto nella
pratica e nelle arti, un aspetto già presente, e in modo rilevante,
nell'insegnamento originale del Buddha e nei testi da esso derivati.
Si potrebbe dire che la complessa serie di riflessioni che il
buddhismo ha prodotto attorno al problema del vuoto è tutta
condensata in questi brevi versi del Sutta Nipata:
«Contempla il mondo come vacuità, o Mogharajan, sempre restando
ammemorante» - così disse il Beato. Avendo distrutte la teoria di se
stesso si giungerà a superare la morte; il dio della morte non vedrà
colui che in tal modo contempli il mondo.
È importante sottolineare in via preliminare che in questo passo,
oltre al riferimento alla contemplazione del mondo come vacuità, vi
sono anche altre due indicazioni che - come si vedrà più in
particolare - sono decisive per comprendere il ruolo del vuoto nel
buddhismo: da un lato, infatti, le parole «sempre restando
rammemorante» alludono a quello stato di attenzione e di
concentrazione che si ottiene nella pratica meditativa, e fissano in
tal modo quel punto rilevante, come si è visto, anche per il taoismo
- in base al quale la meditazione che produce il vuoto vale tanto e
forse più di ogni teoria sul o del vuoto; dall'altro, il passo mette
in rilievo che il cogliere il mondo come vacuità conduce al trionfo
sulla morte o, almeno al trionfo sulla paura della morte: con ciò il
buddhismo si presenta subito con una connotazione soteriologica più
esplicita e radicale di quella taoista.
Ai fini della nostra trattazione è ora di notevole importanza
esplicitare i principali significati che si condensano in quel
«contempla il mondo come vacuità». Tali significati vengono
indicati, in forma più estesa, da un altro testo buddhista, il
Majjhima Nikaya:
Ecco, o monaco, un saputo nobile discepolo, sensibile a ciò che è
nobile, sciente nella nobile dottrina, istruito nella nobile
dottrina, sensibile a ciò che è santo, sciente nella santa dottrina,
istruito nella santa dottrina, non considera la forma come se
stesso, né se stesso come forma, né la forma in se stesso, né se
stesso nella forma; non considera la sensazione come se stesso, né
se stesso come sensazione, né la sensazione in se stesso, né se
stesso nella sensazione; non considera la percezione come se stesso,
né se stesso come percezione, né la percezione in se stesso, né se
stesso nella percezione; non considera la concezione come se stesso,
né se stesso come concezione, né la concezione in se stesso, né se
stesso nella concezione; non considera la conscienza come se stesso,
né se stesso come conscienza, né la conscienza in se stesso, né se
stesso nella conscienza. Così dunque, o monaco, non sorge la
credenza nella personalità.
Ciò vuol dire, innanzitutto, che ogni forma materiale, così come
ogni sensazione, ogni percezione ed ogni altro contenuto della
coscienza, non ha natura propria: non si determina e non si
definisce in modo autonomo come se possedesse un'identità
ab-soluta, sciolta dal rapporto con ogni altro-da-sé. In altri
termini: nessun elemento, sia fisico che psichico, sussiste in
sé. Quest'idea della non-separatezza delle cose e dei fenomeni,
così come dei contenuti della coscienza, è nei testi canonici
buddhisti ribadita innumerevoli volte, ma trova la sua sistemazione
compiuta nella teoria della coproduzione condizionata o della
«originazione dipendente» (Pratityasamutpada, in sanscrito;
Paticcasamuppada, in pali).
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3. IL VUOTO NELLO ZEN
Per ricordare l'importanza della pratica di meditazione nel
buddhismo zen basta far presente che lo stesso termine «zen» è
l'equivalente, in lingua giapponese, del termine cinese «chan», il
quale a sua volta equivale al termine sanscrito «dhyana» e al
corrispondente pali «jhana» i quali stanno per «meditazione».
Ovviamente il buddhismo zen che influì in modo intenso ed esteso
sulle arti ma anche sulla vita quotidiana del Giappone, non si
riduce per questo a sostenere che la pura e semplice pratica
meditativa sia sufficiente a far capire e a risolvere ogni problema,
ma certamente fa di essa la base e il cardine per produrre
l'equilibrio psicofisico necessario alla comprensione e alla
soluzione dei problemi. A differenza del buddhismo delle origini e
anche di quello proposto nella letteratura Prajñaparamita, il
buddhismo zen insiste molto di più sul fatto che lo spazio della
discussione speculativa va ridotto a favore di quello fornito
dall'esperienza immediata, incentrato e concentrato nella pratica
della meditazione. Sulla scia della tradizione prodotta dalle
osservazioni buddhiste sul vuoto e sulla vacuità, anche il buddhismo
zen propone un radicale «fare il vuoto» che tolga sostanzialità e
permanenza agli oggetti, all'io, ai pensieri e perfino al pensiero
del vuoto; tuttavia quelle del buddhismo zen, più che «osservazioni»
e «riflessioni» sul vuoto, appaiono come testimonianze di
esperienze del vuoto, Ciò che è stato notato a proposito dei
Sutra da D.T. Suzuki - il più celebre tra i maggiori studiosi
contemporanei di buddhismo zen - vale a maggior ragione per i
discorsi dei maestri zen: «Quando i Sutra affermano che tutte
le cose sono vuote, non-nate e al di là della causalità,
l'affermazione non è il risultato di un ragionamento metafisico; è
un'esperienza buddhista estremamente penetrante». Ciò non significa
tuttavia che il buddhismo zen sia talmente ingenuo e «primitivo» da
ignorare i livelli della discussione teorica e i modi dei
ragionamenti dialettici; anzi, i testi che ci sono rimasti di questa
grande scuola del buddhismo mahayana dimostrano casomai una
conoscenza talmente profonda di questi livelli e di questi modi da
poterne proporre il superamento, mostrando i limiti di un
approccio esclusivamente teorico ai problemi. La consapevolezza di
tali limiti appare concentrata in questo famoso passo di Hui Hai,
grande maestro chan dell'VIII secolo d.C.:
Su che cosa deve stabilirsi e dimorare la mente?
Deve stabilirsi sul non-dimorare e là dimorare.
Cos'è questo non-dimorare?
Significa non lasciare che la mente dimori su nessuna cosa di
nessun genere.
E cosa significa questo?
Dimorare su nulla significa che la mente non si fissa sul bene o
sul male, sull'essere o sul non-essere, sul dentro o sul fuori o da
qualche parte tra i due, sul vuoto o sul non-vuoto, sulla
concentrazione o sulla distrazione. Questo dimorare su nulla è lo
stato in cui essa deve dimorare; di coloro che lo raggiungono si
dice che hanno la mente che non dimora; in altre parole, hanno la
mente di Buddha.
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1. IL VUOTO NEL CHANOYU
Se è vero che «l'uso artistico del vuoto è osservabile in quasi
tutte le forme artistiche dell'Estremo oriente», vi è però un luogo
in cui il vuoto sembra concentrare e mettere in massima evidenza la
sua presenza e la sua funzione: questo luogo è il sukiya, la
stanza da tè. Il vuoto che in questo luogo si celebra, oltre che
fisico ed estetico, è morale e mentale. Esso si fa sentire già
mentre si attraversa il piccolo giardino antistante percorrendo un
sentiero di pietre in rilievo (roji) che porta alla piccola
costruzione in legno dove si svolge la cerimonia del tè:
innanzitutto la struttura del sentiero a «passi perduti» è quella
che più e meglio esalta la presenza del vuoto in quanto elimina la
contiguità tra le pietre ponendole a distanza variabile una
dall'altra; il passaggio su di esse risulta quindi simile a quello
sui sassi emergenti di un torrente dove è necessario porre
attenzione ai movimenti in rapporto alla presenza e all'azione del
vuoto: in secondo luogo l' asimmetria sia orizzontale -
prodotta dalla distanza variata delle pietre una dall'altra -, che
verticale - prodotta dai diversi livelli delle pietre -, costringe
il corpo a dimenticare ritmi e movimenti del camminare usuale e, con
ciò, modifica al tempo stesso i consueti modi di percepire spazio e
tempo. Il passaggio del roji è già un'esperienza di
purificazione e, quindi, un modo in cui il vuoto comincia a
manifestarsi; comincia, letteralmente, a «farsi sentire».
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2. IL VUOTO NEL SUMIE
Nel sukiya, sulla parete di fondo del tokonoma, è
quasi sempre appeso un kakemono o un makimono, ossia
un rotolo, verticale o orizzontale, di seta o di carta, sul quale è
tracciata una calligrafia o dipinta una pittura ad inchiostro. La
tecnica usata per la calligrafia o per il dipinto è quella del
sumie (cinese: shui-mo): inchiostro e acqua.
Non si tratta di una mera decorazione o di una esibizione di
bellezza fine a se stessa, ma di un'ulteriore occasione di
meditazione sulla funzione del vuoto, in sintonia ed in armonia,
dunque, con le analoghe occasioni incontrate finora: il percorso del
roji, il gioco dei chiari/scuri del sukiya, i suoni
del bollitore, i gesti del maestro, il contatto con la ciotola. Per
poter cogliere la funzione del vuoto attivata da una calligrafia o
da un dipinto non è sufficiente considerare l'evidente dialettica
tra lo scuro dei segni tracciati e lo sfondo chiaro e spoglio della
parete, ma è necessario «entrare» nel kakemono o nel
makimono, esaminarne da vicino e dall'interno i principali
procedimenti tecnici e i peculiari effetti estetici.
È innanzi tutto da ricordare che, contrariamente a quanto è
avvenuto in Occidente, in Cina e in Giappone scrittura e pittura
sono state da sempre due tecniche intrinsecamente connesse, dal
punto di vista tecnico ma anche da quello semantico. La scrittura
cinese uscì dalla fase dell'incisione già dal secolo XVI a.C., com'è
testimoniato dalla presenza di una specie di penna ad inchiostro
raffigurata sulla superficie di un bronzo del periodo Shang. È
tuttavia con l'introduzione dell'uso del pennello - prima con punta
di fibra (213 a.c.), poi con punta di setole animali (206 a.c.) -
che essa trova il suo strumento peculiare e si avvicina sempre di
più alla pittura, al punto che identici diventano non solo gli
strumenti (pennelli, inchiostri, carte e sete) ma anche lo spazio
fisico e i movimenti compositivi: è proprio tale avvicinamento, mai
tradito nei millenni da allora fino ad oggi, che costituisce il
decisivo passaggio dalla graphé alla kalligraphía. È
l'elemento pittorico e, in particolare, l'uso del pennello (pi
o yu) che decide, una volta per sempre, il fatto che le
superfici sulle quali scrivere - siano esse ancora strisce di bambù
o, già dal 105 d.C., strisce di carta - non siano più da
«graffiare», ma da «sfiorare», da «accarezzare»: dal momento in cui,
per scrivere, si cominciò ad usare il pennello, ossia a dipingere
i caratteri (e non a «scriverli»), la scrittura dovette
necessariamente diventare «bella scrittura», kalligraphía, o
non essere del tutto. Anche per questo, per questa esigenza di
bellezza, per questa necessità di perfezione, la scrittura cinese,
fino a tempi recenti, è stata per secoli appannaggio di una
ristretta élite di letterati: non fu solo il costo dell'inchiostro,
dei pennelli e della carta a produrre tale privilegio, ma
soprattutto la calma, la concentrazione, l'impegno continuo, quindi,
in definitiva, il tempo richiesto per scrivere. «Scrivere» si
identificò, molto più che in Occidente, con «scrivere-bene» con
«bella scrittura», per cui i requisiti per scrivere dovevano essere
assai simili, se non identici, a quelli per dipingere: non a caso in
cinese pittura e scrittura sono unite da uno stesso concetto
espresso dal termine xie; non a caso il radicale di
«pennello» - formato dalla stilizzazione di una mano che impugna un
pennello - è alla base del carattere che designa «libro» (shu);
non a caso la più antica raccolta di libri che si conosceva
aveva nome «Foresta di pennelli». Non solo: a rimarcare la profonda
affinità tra calligrafia e pittura sta il fatto che assai spesso
nello spazio bianco di un dipinto sono tracciati i caratteri di un
testo. A questo proposito è stato acutamente osservato che testo e
dipinto sono entrambe pitture non solo per affinità formale, ma
perché identici sono: gli strumenti usati, lo spazio fisico e i
movimenti.
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