"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
«Così ho sentito: una volta
il Bhagavat (il Buddha) risiedeva a Rajagriha, sul picco dell’Avvoltoio, insieme
con un gran numero di monaci e un gran numero di Bodhisattva.
In quel periodo il Bhagavat
era assorbito in una meditazione chiamata Gambhiravasambodha. E
contemporaneamente (fin qui da Max Müller, The larger Prajnaparamita;
ora da E. Conze:) il Bodhisattva Avalokiteshvara stava muovendosi nella
profondità della “sapienza che è andata al di là”. Egli dall’alto (dal
principio) guardò giù e scorse soltanto cinque aggregati (ambiti d’esperienza) e
li vide vuoti.
“O Sariputra, qui materia è
vacuità e proprio vacuità è materia; la vacuità non differisce dalla materia né
la materia differisce dalla vacuità; qualsivoglia cosa sia materia, quella è
vacuità, qualsivoglia cosa sia vacuità quella è materia e lo stesso vale per
affezione emotiva, concezioni, impulsi vitali e coscienza” ».
ll buddismo insegna che la
persona è composizione ed esito dell’interazione di cinque campi d’esperienza (i
cinque skandha): uno fisico-materiale (rupa), cioè materia, forma
e quanto si vede, tocca, gusta, ecc. e quattro psichici (nama), vale a
dire la nostra esperienza interiore: affezioni (vedana), concezioni (samjna),
impressioni e impulsi psichici (samskara), e, infine, il campo in cui ciò
accade - la coscienza (vijnana). Il dolore (dukkha) origina dalla
nescienza (avidya) che permea i cinque campi di esperienza costringendo
all’immedesimazione partecipativa con essi e oscurando la verità. L’esperienza
liberante dal dolore è quella della vacuità (shunyata) che, secondo la
scuola Prajnaparamita, le cui prime redazioni scritte risalgono al I secolo a.
C., coincide con una “sapienza che è andata al di là” circa i cinque ambiti
d’esperienza. La vacuità è allora, secondo il testo sopra riportato, da
ricercarsi negli skandha stessi, in questa stessa vita, e perciò dapprincipio
anche nell’esperienza materiale: l’esperienza materiale è vacuità; la vacuità è
anche nell’affezione emotiva (il “mi piace – non mi piace”) e, che questo ci
piaccia o meno, anche il piacere o dispiacere sono vacuità; le concezioni sono
vacuità e se si cerca la vacuità anche l’idea di vacuità è vacuità. Lo stesso è
per le impressioni e gli impulsi vitali; se si cerca la vacuità essa è le
volizioni, le tendenze, gli sforzi, le intenzioni: il cercare stesso è vacuità!
Infine la coscienza è
vacuità, e se si cerca la vacuità, eccola! è la stessa coscienza nel cui ambito
avviene il cercare…
Questo Sutra (sermone, ma,
letteralmente, “filo conduttore”), il Mahaprajnaparamita hridaya, è uno
dei più sacri e recitati nel buddismo mahayana, quello professato dal Dalai Lama
e dallo zen, tanto per intenderci. Esso è al contempo uno dei più astrusi alla
comprensione dell’occidentale, ma anche tra i più citati ecommentati,
perché l’ambiguità del termine shunyata stimola molte interpretazioni
talvolta fantasiose.
Cosa significa dunque che
l’intera esperienza che l’uomo può avere - la materia e i suoi dati, le
affezioni emotive, le concezioni, gli impulsi vitali, la coscienza - è vacuità?
Non è certo al vuoto
spaziale che Avalokiteshavara, personificazione mitica di un principio di
illuminazione e compassione, si riferiva…
Vorrei qui proporre un
parallelo con una chiarificazione fondamentale introdotta dal filosofo tedesco
Martin Heidegger: quella della Differenza ontologica. Egli, nell’ambito della
questione dell’essere, chiarisce che essere non è qualcosa, ma l’essere
delle cose (degli essenti, diceva lui). Ad esempio, essere non va inteso
come la totalità delle cose che costituiscono il mondo, ma il fatto d’essere
della totalità delle cose che costituiscono il mondo. È quindi improprio
esprimersi con “l’essere” per intendere “ciò che è” o “un essere” per esprimere
qualche aspetto particolare di ciò che è. Heidegger usa all’uopo essente o ente
(das Saiende), cioè “in atto d’essere” in senso verbale-participiale, ma
l’essere (Sein) non è un essente, è “differente” rispetto ad ogni
essente, anche se mai si può dare essere senza essente. È un punto cruciale
della chiarificazione ontologica heideggeriana che tuttora resta poco compreso
nelle sue implicazioni.
La Differenza ci permette di
avvicinarci alla “comprensione” della vacuità o del vuoto buddista (la “vacuità”
è tradotta spesso anche con “vuoto”). Intendere vacuità (o vuoto) come
qualcosa è altrettanto erroneo che considerare “l’essere” come qualcosa. Il
vuoto, del pari, non è qualcosa, ma il fatto d’essere “privo d’essenza”
(intendendo con “essenza” la qualità ultima di qualcosa – ciò che rende qualcosa
proprio quella cosa lì) propria (svabhavashunya) di tutto quel che
esperiamo. Se la vacuità fosse qualcosa - sostanza, qualità, atto - essa non
potrebbe essere quello che dovrebbe: infatti per essere la “cosa-vacuità” - cioè
una cosa priva di qualità intrinseca - dovrebbe essere priva della qualità di
vacuità; dovendo, però, contraddittoriamente, essere la “vacuità” proprio la
qualità necessaria a qualificarlo, appunto, come “vacuità”! Ricordo che questa
argomentazione è contro l’intendere la vacuità come qualcosa di essente
caratterizzata da una qualità (essenza).
Siamo in una situazione
gödeliana: “esser vuoto” significa il non poter essere qualcosa di “essente con
un’essenza” da parte dell’“essere vuoto”!
Perciò sostenere che il
vuoto è qualcosa in sé è autocontraddittorio, in quanto vuoto significa “senza
essenza propria”, e essere senza essenza propria non può essere un’essenza
propria né tantomeno una sostanza con essenza propria. Il vuoto d’altra parte è
riferito ai campi d’esperienza e perciò non stiamo parlando di un puro niente.
Il Sutra procede:
«”Pertanto, o Sariputra, dal
punto di vista della vacuità non c’è materia, né sensazione, né concezione, né
impulso vitale, né coscienza… non forme, suoni, odori, gusti… non c’è
conoscenza, né ignoranza”…».
Ma indubbiamente qualcosa,
nel senso più generale, sta accadendo: non è forse vero che noi percepiamo
colori, sapori, che abbiamo emozioni, sentimenti, che ora stiamo leggendo ed
avendo una qualificatissima esperienza intellettuale? Come si può sostenere che
tutto ciò non abbia essenza propria? E il dolore e la felicità? Non sono
caratterizzati da essenze proprie, dall’essere proprio dolore, proprio
felicità?
Avalokiteshvara dice «O
Shariputra, dal punto di vista della vacuità…»: intende “da un’esperienza di
vacuità”, cioè di verità assoluta ed ultima, come direbbe il grande
argomentatore della vacuità, l’indiano Nagarjuna (II-III sec. d.C.). Qualcosa
sta senza alcun dubbio accadendo – e l’esperienza, così come viene vissutaordinariamente Nagarjuna la chiama “verità relativa” –, ma se si prova ad
avvicinarsi molto dappresso (vedremo come) a ciò che accade, quel qualcosa perde
qualità intrinseca. E come può un essente essere qualcosa se non può essere
“qualcosa”? Ma allora stiamo parlando di niente?!
Tornando a Heidegger, egli
sostenne che l’Occidente non era riuscito a pensare convenientemente l’essere
perché lo aveva concepito come qualcosa, come ente. Se intendessimo l’essere
come qualcosa allora sarebbero identici la cosa e il fatto d’essere della cosa,
sostantivo e verbo. Di più ancora: non si può neppure sostenere che essere
sia un verbo, in quanto anche un verbo è qualcosa e si trova esso stesso ad
essere!
E proprio qui si colloca la
differenza tra il fatto d’essere delle cose essenti e tutte le cose essenti. Il
fatto d’essere, in sé, non esiste, perché è sempre relativo a qualche essente:
si dà il fatto d’essere dei singoli essenti. Essere è, quindi, differente
rispetto ad ogni cosa essente, non si può ridurre né costringere in nessuna
delle cose essenti, cosicché Heidegger conclude che «il puro essere e il puro
niente è dunque lo stesso», che quel che ci accade quando realizziamo che gli
essenti sono (che le cose sono) è esser colti dal Niente che li mostra
all’essere - qui è il famoso “Nulla che nulleggia” di Che cos’è metafisica?
criticato aspramente da Rudolph Carnap e da filosofi del linguaggio - (senza
che con questo il mondo cessi d’essere!).
«Il chiaro coraggio
dell’angoscia essenziale garantisce la misteriosa possibilità dell’esperienza
dell’essere» dice Heidegger, e sono pensieri eccezionalmente profondi che
trovano comunanza e, per certi sviluppi, identità, coll’atteggiamento del
meditante e col vuoto del Buddha. (Qui si potrebbe ravvisare una contraddizione:
se c’è identità tra i pensieri di Buddha ed Heidegger allora è un’identità di
essenze... Giustissimo secondo l’esperienza “relativa”! Quel che manca è
l’esperienza illuminante della vacuità, la quale sola può chiarire se
stessa). Shunyata, il vuoto relativo ad ogni aspetto dell’esperienzialità
umana (i cinque ambiti di esperienzialità o skandha) non è qualcosa, ma il fatto
d’essere vuote d’essenza di tutte le cose, materiali, mentali e coscienziali, e
il fatto d’essere vuote d’essenza non può essere un’essenza. Il vuoto è
differente rispetto ad ogni essenza.
Che significa allora esser
“vuote d’essenza”? Significa che il mondo come appare è illusorio e che è
possibile risvegliarsi ad una “dimensione” più vera, quella della vacuità,
appunto.
Ancora il Sutra:
«… un uomo che s’inoltra
nella Prajnaparamitadei bodhisattva, dimora (per qualche tempo)
nell’involucro della coscienza. Ma quando anche l’involucro della coscienza
torna vacuità, allora egli diviene libero da ogni paura… godendo del Nirvana
finale».
La vacuità e il Nirvana non
sono, però, dimensioni divine, ché se anche Dio c’è, è in ultima analisi esso
stesso vuoto, e qui si colloca la differenza più profonda tra i teismi come la
spiritualità cristiana ed il buddismo.
Se l’occidentale osasse
guardare fino in fondo la propria condizione, come Heidegger e il Buddha hanno
osato, troverebbe che, alla luce del nulla su cui si staglia l’esistenza e di
cui tutte le cose essenti sono intrise (il Nulla che nulleggia), ed essendo
irrimediabilmente incolmabile il divario tra nulla ed essere, consapevolezza che
venne espressa da Heidegger col «perché dunque l’essere piuttosto che nulla? »,
non ha scampo: il nichilismo è ad un bivio tra la banalità del nientismo, in cui
il senso della vita coincide con la caccia alle sensazioni, foriero di
illusione, delusione e malessere, e la liberante “sapienza che è andata al di
là” (Prajnaparamita).
La vacuità inizia dal vedere
il puro non-nulla del mondo e dei suoi elementi; non nulla (il fatto d’essere)
evidenziato dal poter cogliere il nulla (l’alternativa negata rispetto al fatto
d’essere) nell’essere stesso; “nulla” che, appunto, rende evidente l’essere
degli essenti. Heidegger parla del “nientificare del niente”, che “non è
annientamento dell’essente”, ma piuttosto evento che lo rivela.
L’essere intriso di niente
fa di ogni essente una singolarità non qualificabile in TERMINI ASSOLUTI;
singolarità a cagione dell’incolmabile divario tra nulla e non-nulla (divario
tra un più lecito “niente del tutto”, un’assenza del mondo, e il mondo
incredibilmente essente. Heidegger realizzando tale incolmabile divario
s’espresse senza mezzi termini: «questo mostruosamente spaesante (ungeheuerlich):
che l’essente è e non piuttosto non è»; e altrove: «meraviglia di tutte le
meraviglie: che l’essente è». Singolarità perché a questo punto l’incolmabile
divario non permette qualificazioni se non all’interno dell’essente, cioé
qualificazioni relative, interdipendenti, ma impossibili a fondarsi in un
Assoluto, in quanto ogni possibile Assoluto sarebbe a sua volta essente e perciò
infondato. Non possono darsi qualificazioni o essenze ultime: ciò che sta
accadendo (invece del nulla) è vuoto perché non ha né può avere fondamento,
origini, cause, finalità assoluti e neppure senso ultimo, in quanto tutti questi
sarebbero a loro volta, in ultimo, altrettanto infondati, derivati da niente,
singolari.
Il nulla - e l’incolmabile
divario tra quel che si dà e il nulla - svuota il mondo da ogni possibile
fondazione delle essenze in Assoluti. L’essere precede ogni Dio-fondamento.
L’essere non necessita filosoficamente del Dio-fondamento. L’irrimediabile
infondatezzadell’essere-invece-che-nulla rende vuote le essenze, dando
ad esse solo statuto relativo, o come direbbe Nagarjuna, solo “in dipendenza di
cause e condizioni”. L’atteggiamento nichilista è altrettanto illusorio (ma più
autodistruttivo) di quello di chi investe la vita di un valore ultimo, materiale
o spirituale (forse più portato all’intolleranza e alle violenze in tal senso);
Buddha ha insegnato che anche la disperazione, come tutto il resto, è vuota, ed
in ciò si intende il senso della Via di mezzo.
«Ma allora anche la tua
affermazione è vuota!», potrebbe obiettare un lettore attento.
Magari tu avessi capito
questo fino in fondo, amico mio…, poiché saresti nel Nirvana finale, là dove si
realizza che queste contraddizioni sono già da sempre risolte, anzi che non sono
mai esistite, ma Nagarjuna avverte: la vacuità male intesa porta l’uomo alla
rovina, come un serpente male afferrato!
L’uomo, in genere, cerca la
felicità, mentre il buddista vede che anche la sensazione di felicità, come
quella di dolore, è vuota.
«... “Non c’è sofferenza...
non c’è conoscenza alcuna...
Pertanto, o Sariputra, è
grazie alla sua indifferenza di fronte ad ogni tipo di realizzazione personale
che un Bodhisattva, avendo fatto assegnamento sulla perfezione di sapienza, sta
senza pensieri ostruenti... Nulla può farlo tremare... ha debellato ciò che può
turbare e alla fine egli arriva al Nirvana”».
Questo è il messaggio del
Buddha. Dovremmo chiederci come mai per duemilacinquecento anni moltitudini
hanno trovato sollievo in questa astrusa Via senza Dei e perché alcune tra le
menti migliori dell’Oriente (e dell’Occidente) ne siano rimaste affascinate e
conquistate. Che ci sia qualcosa di vero? E come vi si perviene? Il Buddha
insegnò l’Ottuplice sentiero, ma due parole esprimono l’essenza della Via che il
Buddha stesso praticò: meditazione e illuminazione, in italiano; Dhyana e
Bodhi in sanscrito; Zazen e Satori in giapponese…
Ma, insegnando meditazione
da oltre vent’anni e avendo iniziato ad essa centinaia di allievi, ancora mi
chiedo cosa s’accenda nella mentedegli occidentali quando leggono queste
due parole che in Oriente corrispondono ad esperienze precise di cui, però,
l’occidentale non ha nozione alcuna.
L’esperienza del Nulla è ben
resa dai seguenti versi di Hakuin, eccelso maestro zen (1686-1769):
Un fuoco nero che brucia
con l’oscura
brillantezza di una gemma
prosciuga il vasto cielo
e la terra di tutto il
loro naturale colore.
Nello specchio della
mente non si vedono
né montagne né fiumi;
Cento milioni di mondi
agonizzanti, tutto
per niente.
Il magico confine tra i due
aspetti della realtà, quello relativo e quello assoluto, sono espressi in questa
poesia zen:
Fin dal principio
tutte le cose (i dharma) sono in sé
silenziose e vuote,
ma quando viene la
primavera e centinaia di fiori sbocciano