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Parola, silenzio e arte di
dubitare nel dialogo religioso
1. Vorrei iniziare con la lettura di una frase tratta da un trattatello scritto in Francia nel Settecento dall’abate Dinouart, dall’eloquente titolo L’art de se taire o più estesamente: L’arte di tacere principalmente in materia di religione. Egli nella prefazione al volumetto dichiara che la passione smodata di scrivere e parlare di cose religiose è diventata una sorta di malattia epidemica che sembra aver colpito moltissime persone, suggerendo poco più avanti che “si deve smettere di tacere solo quando si abbia qualcosa da dire che valga più del silenzio”. Ecco io vorrei prendere questo suggerimento e accoglierlo come viatico di tutto quanto il mio discorso e come memento durante gli sbandamenti o gli inciampi che lo stesso discorso potrà incontrare nel suo dipanarsi. Il titolo della riflessione che vorrei proporre e sviluppare insieme a voi dice così: Parola, silenzio e arte di dubitare nel dialogo religioso. Nel corso del discorso proverò a chiarire via via il significato attribuibile a questi termini, compresi gli slittamenti semantici che possiamo incontrare e che quindi dobbiamo mettere in conto. Cominciamo a parlare di dialogo religioso. Nell’accezione immediata con ‘dialogo religioso’ intendiamo il dialogo fra le religioni. Per inquadrare brevemente la questione (perché non di questo ci occuperemo) diciamo subito che il dialogo delle religioni si impone oggi come aspetto particolare del dialogo fra le culture e i popoli. Ci sono di mezzo tanti fattori: la globalizzazione economica, il ‘villaggio globale’, i nuovi media e tante altre cose ancora, di cui, ripeto, non ci occuperemo. A partire da ciò, il nudo dato che abbiamo sotto gli occhi è quello di una società multiculturale che può aspirare a divenire una società interculturale (con buona pace di chi parlando e sparlando di ‘scontro delle civiltà’ soffia sul fuoco). Lo stesso vale sul piano religioso: abbiamo diverse religioni, una a fianco all’altra, ma non necessariamente dialoganti. Qui il problema, se si vuole, è ancor più spinoso: poiché le religioni sono in fondo delle narrazioni sull’assoluto, quando una di queste entra in contatto con un’altra il rischio di collisione è forte. Nonostante quello che sostengono alcune teorie matematiche circa l’esistenza di insiemi di infiniti è difficile ammettere concretamente nella nostra realtà quotidiana una compresenza dialogante di assoluti. Quando il dialogo fra le religioni muoveva i primi passi (ci riferiamo a diversi decenni fa) si potevano sentire discorsi del tipo: “tutte le religioni in fondo dicono le stesse cose” o discorsi simili. Ci si rese presto conto che tale modo di procedere saltava a piè pari il cuore del discorso, anzi lo chiudeva prima ancora di iniziarlo: ammessa che sia vera una simile affermazione, enunciarla così sic et simpliciter non spiega perché non vi sia quella concordia e quell’armonia tra le religioni che dovrebbe naturalmente scaturire da un presupposto del genere, mentre i libri di storia ci mostrano come spesso le religioni hanno fatto la guerra e si sono fatte la guerra. Tale modello, sicuramente generoso ma un po’ ingenuo, mi pare sia stato accantonato, preferendo altri paradigmi più meditati e maturi. Ad esempio, oggi è molto comune udire discorsi di questo tipo: “poiché ogni religione ha un suo carisma, l’incontro fra le religioni permette loro di completarsi a vicenda”. Si potrebbe parlare di una sorta di ‘paradigma dell’incastro o della complementarietà’, grazie al quale si prende ciò che manca, attraverso una sorta di chimica (o alchimia) delle religioni capace di dosare sapientemente gli elementi tra loro. E’ un’ipotesi senz’altro interessante. Ora, calando questa affermazione all’interno del tema di quest’incontro potremmo declinare il discorso pressappoco in questi termini: il carisma dell’occidente e del cristianesimo è la parola, mentre per le tradizioni orientali è il silenzio. Gettando uno sguardo panoramico al senso di tale affermazione, sembra di trovarsi innanzi a una verità sconcertante: le cose stanno proprio così, diremmo. Ecco effettuando questo tipo di inquadratura verrebbe da dire: la dimensione della parola è propria dell’Occidente, quella del silenzio è propria dell’Oriente. Sembra che le cose stiano proprio così. (Es.: il cristianesimo è religione dell’annuncio della parola; è Buona Novella; è Logos fattosi carne etc. La filosofia è in primis un ‘pensare greco’. Le pratiche meditative e contemplative orientali sono incentrate sul silenzio [yoga,vipassana, zazen]). Ma se con un effetto di avvicinamento modifichiamo la messa a fuoco, osservando dappresso ciò di cui si sta parlando, soffermandoci di conseguenza su aspetti che da lontano ci sfuggirebbero, il quadro che abbiamo dinanzi muta profondamente. Vediamo allora questo discorso in modo ravvicinato, attraverso una serie domande.
E ci fermiamo qui, per il momento. Ma perché tutte queste domande? Non rischiamo in questo modo di sollevare quesiti oziosi o ingannevoli? Ritengo invece importante, proprio all’interno del dialogo religioso, saper mettere fra parentesi molte delle presupposizioni che costituiscono lo sfondo del nostro pensiero, stando di conseguenza ben attenti a non dare nulla per scontato, né fornire risposte anticipate. Ma su tutto questo ci ritorneremo.
2. Questa parte del discorso che sto iniziando, se vogliamo, è in buona parte ‘militante’, per usare un termine un po’ obsoleto ma che vuol comunicare la partecipazione a quanto si sta dicendo, il pathos presente all’interno dl discorso. Avverto nella stagione (tutta primaverile) del dialogo fra le religioni un pericolo possibile: se il dialogo possiede - e io credo che lo possegga - un valore salutare, direi quasi battesimale, capace cioè di rinnovare, di rivitalizzare le religioni, sta al contempo correndo il rischio di irrigidirsi, di seguire procedure standard, in una parola, di istituzionalizzarsi, lasciando il più possibile le cose come stanno. Vedo altresì il pericolo che molte iniziative interreligiose rischino di diventare esercizi di diplomazia curiale o poco più. Che cos’è, cosa vuol essere allora il dialogo religioso? Vorrei iniziare col provare a chiarire il senso di queste due parole. Come molte altre parole che usiamo comunemente deriva dal latino. ‘Dialogus’, a sua volta, proviene dal greco ‘dialogos’, formato da due parti: ‘dia’ ‘fra’ e ‘logos’ che significa ‘discorso’. Scordare l’origine e la vita delle parole può essere più di una semplice sbadataggine, per questo è utile far emergere di tanto in tanto, senza essere necessariamente specialisti in materia, la storia sotterranea delle parole che nel suo affiorare lascia pure intravedere squarci sulle alterne vicende e sulla natura di noi parlanti. Impariamo allora che dialogo è discorso alterno fra due o più persone, con tutto ciò che ne viene fuori e dobbiamo mettere nel conto che può portare con sé una costellazione di reazioni belle e brutte, compreso l’alterco, la contesa, l’incomprensione, fino alla sospensione e al rifiuto dello stesso dialogare. La comprensione vicendevole e amorevole è sicuramente approdo auspicato, ma mai si dà come punto di partenza, altrimenti rischia di confondersi con il monologo che sicuramente possiede il suo valore ma è altra cosa. Rispetto a ciò non vi sono soluzioni a piè di pagina: il punto d’arrivo non può essere in nulla anticipato, se il mio dialogo è sincero devo ammettere che non posso sapere dove mi porterà il discorso una volta intrapreso, né come sarò io alla fine (se non differente da quando ero partito: altrimenti o il dialogo era inutile o ero inutile io al dialogo). Tutto qui: e chi propina scorciatoie o prefigura conclusioni non sa di che parla. Come ogni cosa che conta veramente è rischio, scommessa, messa in gioco. Faccio un esempio. Alcuni anni fa ho avuto l’occasione di fare un viaggio in Giappone e di conoscere sia alcuni monasteri zen, sia alcune missioni cristiane. E’ stata per me un’esperienza profonda e significativa. Ho avuto anche la fortuna di incontrare e di parlare con tante persone seriamente impegnate nel dialogo interreligioso. Fra le altre cose ricordo la conversazione con un francescano giapponese, nella quale egli sosteneva con fermezza il valore dell’incontro fra le religioni, ma asseriva con uguale fermezza che nel dialogo uno deve comunque restare ben ancorato alla fede di partenza. Lo dico in modo rispettoso ma altrettanto sincero: questo genere di approccio non mi convince. Come si fa a sapere all’inizio dove ti potrà condurre il processo dialogico? Perché porre dei confini prima di iniziare? Perché avere timore di andare in campo aperto? Perché far diventare la tradizione di partenza una zavorra che appesantisce il cammino? Se l’incontro sarà autentico sicuramente non mi lascerà inalterato, questo solo posso supporre, altro non mi è dato sapere. Questo dialogo l’ho chiamato semplicemente ‘religioso’. Preferisco questa espressione, più laconica - ‘dialogo religioso’ - a quella di ‘dialogo interreligioso’ oggi maggiormente in uso, o a quella più ricercata di ‘dialogo intrareligioso’ (Panikkar) che vuole mettere in luce l’interiorità della ricerca. Certo il dialogo è anche dentro di me, coinvolge la totalità della mia personalità (e delle mie subpersonalità: il mio passato, le mie paure, le mie nevrosi, le mie aspirazioni, etc.), ma è innanzitutto relazione con. Giunti a questo punto ‘dialogo religioso’ non delimita un campo - quello delle religioni, per l’appunto -, rispetto ad altri settori: che ne so, quello politico, quello economico, quello artistico, ecc. L’attributo ‘religioso’ vuole indicare quel rapporto con la vita tale da manifestare la sua natura intima. E’ il dialogo ad essere religioso, indipendentemente dall’ambito in cui mi trovo o di cui mi occupo, mentre spesso non si considera proprio questo elemento primario. Il dialogo prima ancora di riguardare due (o più) tradizioni religiose è comunicazione - per usare un’espressione concisa ma di chiarissima di Dōgen - tra persona viva e persona viva, quindi parte e coinvolge la totalità della propria esperienza e sensibilità proprio nei confronti della vita. Questo dialogo non può non essere che costitutivamente aperto, poiché è sempre comunicazione, relazione; e tutti coloro che ne sentono il richiamo sono invitati, nessuno è escluso a priori: gli steccati tra laici e religiosi, credenti e non credenti non sono più praticabili; (v. quanto dice E. Bianchi: la demarcazione non tanto tra credenti o e non credenti, ma tra idolatri e non idolatri; oppure, come diceva N. Bobbio, poi ripreso da C.M. Martini: la distinzione è tra pensanti e non pensanti). Di più: a un certo punto dire dialogo rischia di essere restrittivo o superfluo: è semplicemente vita che si autoesprime, vita che vive la vita e nulla più.
3. A questo punto del discorso devo introdurre l’arte di dubitare. Come dire: un po’ di scetticismo non fa male al dialogo religioso per stemperare il rischio, di cui si parlava sopra, di incomprensione (si diceva: essendo le religioni in fondo delle narrazioni sull’assoluto, quando una di queste entra in contatto con un’altra il rischio di collisione è forte). Parliamo di scetticismo nel senso originario, pirroniano, del termine (skepsis è osservazione, invito alla ricerca). Qui le parole e le argomentazioni non vogliono imporsi e convincere l’interlocutore, ricorrendo magari a qualche strumento retorico, desiderano rimanere sommesse e pudiche. Prendendo in prestito altrui parole, sono come “le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche sé medesime espellono insieme con gli umori” (Sesto Empirico). E’ la parola usata come via purgativa che purificando libera anche da se stessa. L’espressione ‘arte di dubitare’ l’ho presa in prestito da un autore poco conosciuto, Sebastien Castellion (1515-1563), che scrisse un’opera così intitolata: De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi. Egli fa parte a pieno titolo di quel gruppo di intellettuali eretici italiani del Cinquecento mirabilmente descritti dalla penna dello storico Delio Cantimori. Qualcuno l’ha definito un’’erasmiano di sinistra’, per quel che possono valere simili attributi. Per Castellino la religione non va riformata una volta per tutte e poi basta, ma è sempre riformanda. Egli parlava di un’arte di dubitare quantomai necessaria in campo religioso, poiché “uno dei peccati più persistenti in cui capita agli uomini di cadere, è di credere là dove bisogna dubitare e di dubitare dove bisogna credere”. Non dimentichiamo che l’opera è stata composta nell’epoca delle infestanti guerre di religione tra cattolici e protestanti, nelle quali finirono schiacciati chi non si identificava in nessuna delle due correnti. Non a caso nell’opera in questione possiamo leggere: “I costumi degli uomini sono oggi tali che le divergenze d’opinioni si accompagnano molto spesso con l’offesa delle persone, e sono rari gli uomini che hanno abbastanza spirito di giustizia da amare coloro che non condividono le loro idee”. E ancora: “Se i cristiani dubitassero un po’ di se stessi, non commetterebbero tutti questi omicidi, di cui necessariamente dovranno pentirsi prima che sia passato troppo tempo”. Siamo, lo si vede bene, di fronte al concetto di tolleranza, il quale, è utile sottolinearlo, prima di essere quel valore imprescindibile della moderna cultura laica europea, giunta a noi tramite Voltaire e gli illuministi, ha in realtà radici profondamente religiose proprio all’interno di quelle minoranze perseguitate in quanto eretiche. Ma siamo anche oltre l’idea di tolleranza. Qui fede e dubbio convivono, di più: sono unificati, fanno parte dello stesso processo. Anche se dovrebbe essere superfluo, è bene dire a scanso di equivoci che il dubbio non va inteso come un tentennamento timoroso, significa semplicemente il mantenere viva e costante l’interrogazione al centro del proprio rapporto con la vita, così come la fede non indica tanto un insieme di credenze. (L’irrigidirsi in istituzioni e strutture, siano esse le dottrine o la struttura gerarchica formalizzata, conduce allo spegnimento di ogni religione autentica. Forse è questo ciò che insegnano le eresie alle chiese. Forse questo è anche il paradosso del fenomeno eretico: gli eretici sono semplicemente coloro che nell’intenzione di mantenersi fedeli al messaggio originario rifiutano ogni compromesso con le istituzioni - spirituali o temporali - del loro tempo). “Grande dubbio, grande illuminazione”, dice un detto zen cinese. E tanto per rimanere all’interno della tradizione buddhista, mi piace ricordare un testo minore relativo ai discorsi di Buddha, il Kalamasutta. Si dice, a un certo punto (il Buddha si sta rivolgendo ai Kalama, nome di un popolo e di un clan): “E’ giusto che voi abbiate dubbi e perplessità, perché sono dubbi relativi ad argomenti controversi. Non fatevi guidare da dicerie, tradizioni o dal sentito dire. Non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica o dall’inferenza, né dalla considerazione delle apparenze, nè dal piacere della speculazione, né dalla verosimiglianza, né dall’idea ‘questo è il nostro maestro’. Ma quando capite da soli, o Kalama, che certe cose sono salutari e buone allora accettatele e seguitele”. E sempre rimanendo all’interno dei discorsi del Buddha, vale la pena di citare quel passaggio del più famoso Mahāparinibbānasuttanta (Grande discorso del nirvāna definitivo), in cui si dice “siate lampada per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro”.
4. Concludo, provando a tessere i differenti fili del discorso fin qui sviluppato. La vita è immensamente più grande delle mappe che tracciamo su di essa. Sono perciò di buon augurio quegli avvenimenti che aiutano a scompaginare le carte, facendoci comprendere concretamente che la mappa non è il territorio, mettendoci di fronte alla complessità, alla ricchezza, ma anche alle difficoltà di qualcosa che è più vasto di noi. Ben vengano allora i problemi aperti, le questioni irrisolte all’interno del dialogo religioso, altrimenti questo non sarebbe altro che un parlarsi addosso fino a giungere all’autocelebrazione. Termino con un immagine che fu del pensatore tedesco E. Bloch (ripreso da noi anche da E. Balducci nelle sue ultime conferenze). Egli faceva una distinzione tra futurum e adventus. C’è una novità che è la mera declinazione a un tempo futuro di ciò che è già stato; qui il futuro si manifesta come semplice prolungamento del presente. E’ il futuro dei futurologi e dei tecnocrati del progresso e delle innovazioni ad ogni costo. Poi vi è l’adventus, l’irruzione di una novità radicale che altro non è se non la risposta che il tempo fornisce alle attese e alle ricerche degli uomini di un diverso modo di vita e di relazioni. (E’ liberazione dal peso del tempo e della memoria, avrebbe detto Krishnamurti). Quando i fatti vengono incontro a queste attese e a queste ricerche (e sappiamo riconoscerli), il futuro che annunciano non è futurum, ma adventus: accade, viene verso di noi (venit ad nos) qualcosa di nuovo, di inaspettato. Allora mi piace concludere pensando e sperando che il dialogo religioso possegga al suo interno e sappia custodire proprio una scintilla di adventus. Piace pensare e sperare che il dialogo religioso, se è veramente dialogo e sa esserlo fino in fondo, non possa che essere l’annuncio di novità profonde e soprattutto inedite, le quali, per logica conseguenza, non si possono conoscere con le categorie del già conosciuto, né tanto meno prefigurare anzitempo proponendole come soluzioni standard. Che davvero si scuotano le fondamenta: qui sta la valenza profetica di ciò che chiamiamo dialogo religioso.
Traccia della conferenza svolta al seminario di studi “La parola e il silenzio tra occidente e oriente” tenutosi presso l’Eremo Camaldolese di Montegiove il 29 luglio 2006.
Federico Battistutta, ha pubblicato un commento al Cantico delle creature di Francesco d’Assisi (Piacenza, Vicolo del Pavone, 2000) e il saggio Trittico eretico (Novara, Millenia, 2005). E’ coautore di diversi volumi, fra i più recenti: Scambi. Educazione e globalizzazione (Piacenza, Berti, 2002), Eretici dimenticati (Roma, DeriveApprodi, 2004). E’ responsabile della rivista/laboratorio per il dialogo religioso “La Stella del Mattino” (www.lastelladelmattino.org/rivista).
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