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Impermanenza e distacco
nello stoicismo romano e nel buddhismo delle origini
Spunti per una comparazione fra
affinità e differenze
(Stefano Arcella)
SOMMARIO
1. - Premessa: il percorso della ricerca.
2. - L’impermanenza nella dottrina del Buddha e negli Stoici romani.
3. – Il rapporto desiderio-dolore nel Buddha e negli Stoici romani.
4. – Il distacco nel Buddha e negli Stoici romani.
5. – Affinità e differenze fra buddhismo e stoicismo.
1. Il mio interesse per lo stoicismo romano trae origine da un lungo percorso
nella “cultura della Tradizione”, a partire dalla familiarità acquisita con le
opere di J. Evola e, in particolare, coi suoi frequenti richiami alla dottrina
degli Stoici, che si ritrovano nei suoi libri ed articoli, talvolta riferendosi
alla dottrina dell’egemonikòn, talvolta a quella dell’apolitìa e del
distacco aristocratico, da parte del saggio, nei confronti delle folle e dei
loro appetiti.
E’ noto, inoltre – ed è un dato molto significativo perché riguarda la
fase ultima, più matura, di questo pensatore – che Evola, negli ultimi tempi
della sua vita, aveva il progetto di un libro sullo stoicismo che si proponeva
di esaminare dal punto di vista “tradizionale”, progetto per il quale aveva
raccolto il materiale delle fonti per sviluppare adeguatamente tale
approfondimento.
Fu lo stesso Evola, inoltre, ad aprire l’orizzonte della spiritualità buddhista
delle origini con la pubblicazione di uno dei libri più limpidi e profondi che
egli abbia scritto, ossia La dottrina del risveglio, e fu sempre suo
l’accostamento – che ritroviamo in vari suoi scritti - fra lo “spirito”
dell’ascesi buddista e la dimensione interiore degli Stoici.
Le successive letture degli altri Maestri della cultura della Tradizione
nel Novecento – da Steiner a Scaligero, da Eliade a Zolla - l’approfondimento
diretto delle fonti dello stoicismo romano e dell’opera di Max Pohlenz sulla
Stoa nel suo insieme, del Canone Buddhista e, poi, delle opere di
commento di Pio Filippani Ronconi, l’incontro con i testi del Lama tibetano
Namkai Norbu e con quelli dell’attuale Dalai Lama hanno integrato ed arricchito
questo percorso spirituale e culturale.
Man mano che sviluppavo il mio approfondimento della Stoa e del Buddhismo,
mi risultava sempre più netta l’affinità di “spirito” e di “clima psichico” fra
le due correnti, quel loro comune senso di distacco aristocratico, di senso del
limite e dell’equilibrio interiore, quel comune rifuggire da ogni eccesso sia
ascetico che mondano, tipico di una “via mediana”.
E’ da questo retroterra, da queste letture, da questi stimoli che scaturisce
dunque il mio interesse - non estemporaneo, ma lungamente elaborato e meditato –
per un confronto critico fra stoicismo e buddhismo, e, più specificamente, fra
lo stoicismo romano d’età imperiale ed il buddhismo delle origini, colti sia
sotto il profilo della visione generale del mondo sia, più specificamente, sotto
quello della dottrina morale che a quella visione si ricollega. Questo confronto
riveste, a mio avviso, una forte attualità poiché la diffusione del buddhismo
nell’Europa contemporanea può, sui tempi lunghi (e forse anche a medio termine)
mettere in moto un processo di mutamento spirituale e culturale che potrà essere
tanto più fecondo ed incisivo se il buddhismo sarà capace di comunicare con le
radici culturali pre-cristiane dell’Europa, con le quali mostra di avere
particolari affinità di “visione del mondo”. E nel quadro di tali radici, lo
stoicismo romano occupa un rilievo di particolare importanza. Il presente
contributo vuole essere, pertanto, un primo approccio ad un tema che, per la sua
vastità e per la ricchezza delle sue implicazioni, andrà affrontato anche con
successivi contributi che mi propongo di offrire nella sede di questa rivista.
Un primo spunto di comparazione può prendere le mosse dalla dottrina buddhista
dell’impermanenza che ha un rilievo centrale nell’insegnamento del Sakyamuni,
comparandola con le riflessioni presenti negli Stoici romani quali Seneca,
Epitteto e Marco Aurelio. L’esame comparato del rapporto desiderio-dolore e del
tema del distacco nelle due correnti spirituali sarà soltanto consequenziale
rispetto a quello sulla visione del mondo, poiché senza quest’ultima, tutta la
linea d’ascesi e di condotta nei due sistemi non può avere una chiara ed
esauriente spiegazione. Tale confronto consentirà di cogliere affinità e
differenze che saranno poi inquadrate nei rispettivi contesti storico-culturali
e nell’ambito delle diverse “impronte” che connotano la cultura indiana e quella
romana.
2. Il Sakyamuni, nel sermone di Benares – quello della “messa in moto
della Ruota della Legge” - espose, quale frutto della sua illuminazione
spirituale, le Quattro Nobili Verità e poi, in alcuni sermoni immediatamente
successivi, la dottrina dell’impermanenza. Egli spiega che tutte le cose “sono
sprovviste di un essere proprio” perché impermanenti e passano di stato in
stato, incessantemente. L’impermanenza è strettamente connessa all’insostanzialità
delle cose e dei fenomeni, ossia al loro essere sprovviste di un valore
autonomo, al loro non poter essere considerate di per se stesse, essendo tutte
il frutto di un concorso di fattori causali, mutando i quali mutano anche le
cose. Questa “mancanza d’essere proprio” (anatta) della realtà obiettiva
(rupa, “forma”) e di quella soggettiva (vinnana, “coscienza”) è
uno dei capisaldi di tutta la dottrina del Buddha, diventando poi oggetto
d’approfondimento in tutta la speculazione filosofica buddhista. Va ricordato,
al riguardo, che il filosofo buddista Nagarjuna, nei suoi scritti, parla della
“co-produzione condizionata” quale carattere peculiare della genesi di tutti i
fenomeni nel mondo della manifestazione e che tale tema è stato particolarmente
approfondito ed illustrato dall’attuale Dalai Lama nei suoi scritti e nelle sue
conferenze. La retta comprensione di questi insegnamenti è fondamentale sia per
un corretto approccio intellettivo a tutto l’insieme della concezione buddista
sia per un’equilibrata interiorizzazione ed applicazione dell’ascesi e
dell’etica buddista che non ha assolutamente quella connotazione nichilista e
disperata che potrebbe apparire ad una valutazione superficiale e di “primo
impatto”.
Per superare la condizione descritta, il Buddha indica il Nibbana “una
condizione di assenza, assenza di vita, di morte, di salute, di malattia”,
quindi una condizione di là da tutti i dualismi propri alla situazione degli
esseri umani, per i quali vale la medesima verità dell’impermanenza, poiché
l’aggregato che l’uomo comune crede un “io” permanente” è soltanto una
successione di stati di coscienza, successione fondata su un complesso di
psichismi e di apparenze fisiche che il buddhismo denomina skandha
(“parti costituenti”). In un sermone tenuto a Kotigrama, verso la fine della sua
vita, il Buddha espose l’atteggiamento da mantenere nei confronti nei riguardi
del mondo, soprattutto quando da questo provengono atti di ostilità, calunnie e
tentativi di disturbo.
“Chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna: la meditazione
gli farà conoscere che nessuna cosa è quaggiù durevole, salvo gli affanni del
vivere. Chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna: la
meditazione lo illuminerà di una luce che caccerà via le tre passioni che
ottenebrano l’intelletto: concupiscenza (lobha), ira (krodha) ed
offuscamento mentale (moha), ed egli sarà sulla via della salute, che
conduce fuori del dominio della vita e della morte; perocché la mente non
correrà più verso le cose del mondo, ma rimarrà costantemente fissa a quel fine
supremo. Allora, come un re che gode pensando essere egli, fra migliaia di
uomini, solo Signore, colui che ha ottenuto la scienza (panna) godrà
pensando che, tra milioni di uomini, egli è il solo ad essere signore della sua
mente!” (Maha-paranirvana-sutra, I, 1).
La limpida coscienza dell’impermanenza è strettamente legata alla chiarezza
della mente quale frutto della meditazione, ossia di una disciplina mentale
avente una funzione catartica e liberatoria rispetto alle passioni indicate nel
passo citato. La centralità della disciplina mentale quale base per la
purificazione ed il risveglio si configura quindi quale un tratto peculiare e
centrale della dottrina del Buddha ed è fondamentale comprendere il motivo per
il quale sia così importante la disciplina della mente. Nella prima “Nobile
Verità” il Buddha spiega che il mondo è dolore (dukkha), inteso in
un’accezione molto ampia, comprensiva delle molteplici sfumature della
sofferenza morale e mentale, oltre che di quella legata al corpo fisico ed alle
malattie. L’origine del dolore è nella “sete”, nell’appetito dei godimenti, nel
desiderio d’esistere o anche di non esistere. Orbene, la “sete” si colloca in
una concatenazione causale molto più ampia – ed è questo un tratto peculiare
della dottrina buddhista - ben oltre le smanie smodate e gli appetiti febbrili
di una singola individualità terrena. Nella terza veglia della notte
dell’Illuminazione – secondo il racconto tradizionale – al Buddha si dischiude
la verità degli “elementi l’un l’altro condizionati”, fondata sulla
concatenazione causale dei dodici nessi (nidana) il primo dei quali è
l’ignoranza (avidya) ossia il non vedere le cose nella loro impermanenza
e nella loro insostanzialità, da cui derivano tutti gli errori che causano la
sofferenza e che determinano, in lunga concatenazione causale, quella “sete”,
quell’agitazione nel legarsi alle cose, come se i fenomeni fossero dotati di una
loro stabilità e permanenza e non fluissero nel fiume del divenire.
L’ignoranza (avidya) è intesa come una forza cosmica che agisce e
trascina gli esseri umani e che, nella sua vastità, non coinvolge soltanto loro
ma abbraccia tutto l’insieme del mondo manifestato; il suo configurarsi, sul
piano della vita individuale, come errato approccio con le cose, è soltanto una
conseguenza, un’individualizzazione dell’avidya cosmica. E’ proprio da
questo profilo “cosmico” dell’ignoranza che si può partire per un confronto con
la dottrina dello stoicismo romano che, soprattutto con Marco Aurelio, si dilata
ad una riflessione sull’impermanenza che abbraccia tutto l’universo, segnando
una netta differenziazione di questo imperatore-filosofo rispetto ad un Epitteto
che pure aveva tanto influito sulla sua formazione. Nel passo IX, 28a dei
Ricordi, Marco Aurelio offre la suggestiva immagine del moto alterno delle
onde del mare per comunicare la sua concezione della transitorietà dei fenomeni
dell’universo.
“Ben presto la terra nasconderà noi tutti, poi anche la terra si trasformerà, e
gli elementi di cui è composta, anch’essi si trasformeranno, e ancora poi
all’infinito. L’uomo che nell’anima sua considera questo moto alterno di onde,
queste trasformazioni, questi cambiamenti, questa rapidità; oh! costui avrà
disprezzo enorme d’ogni mortal cosa”.
In IX, 29 egli evoca l’immagine del torrente impetuoso che tutto trasporta (“La
causa universale, torrente impetuoso, tutto trasporta. Come non valgono nulla,
persino questi poveri piccoli uomini che si credono d’agire con politica
saggezza a guisa di filosofi”). Il richiamo alla “causa di tutte le cose” si
connette a IX, 25 ove invita a meditare sulla “qualità della causa”,
contemplandola separatamente dall’elemento materiale del mondo, con evidente
riferimento al nous divino al quale l’egemonikòn (“il sovrano
interiore”) deve accostarsi. In IX, 35 egli coglie l’impermanenza nei termini di
una legge naturale, la “naturale trasformazione”:
“Ciò che si crede perduto è soltanto trasformato: niente di più. Di
quest’operazione si compiace l’universale natura; per questa operazione così
ogni cosa si svolge; in modo eguale si svolse in una durata senza fine; e altre
cose saranno eguali nell’infinito futuro...”.
L’impermanenza rientra dunque in un ordine naturale che, per gli Stoici, è
espressione del Logos, l’intelligenza divina ordinatrice del mondo.
Questa trasformazione è colta con una disposizione interiore contemplativa che
traspare dal passo IX, 30:
“Contempla dall’alto: greggi senza numero, e senza numero religioni e riti, navi
d’ogni genere che navigano in mezzo a bufere, a bonaccia, e la diversità della
gente che nasce, che vive, che va via. Poi considera la vita di altri che in
tempi remoti vissero nel mondo, quindi la vita che sarà vissuta dopo di te,
quindi la vita che oggi si sta vivendo in mezzo a popoli lontani. Quanti nemmeno
conoscono il tuo nome! Quanti prestissimo lo dimenticheranno! Quanti che oggi
t’innalzano con lodi, subito, forse prestissimo, ti copriranno d’improperi!
Pensa quanto poco vale il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa”.
Lo sguardo contemplativo si dilata dalla caducità della vita del singolo all’illusorietà
del potere e della gloria, alla relatività della fama, alla rapida mutevolezza
delle condizioni, nel susseguirsi delle generazioni. Possiamo così cogliere una
prima affinità - che è concetto ben diverso da quello di identità – fra il
buddhismo delle origini e la filosofia di Marco Aurelio. Comune è la
consapevolezza disincantata dell’impermanenza dei fenomeni del mondo e, fra
questi, dei beni terreni e della nostra vita. Comune è l’attitudine
contemplativa nel cogliere questa verità, come emerge dal passo citato del
Buddha e da Marco Aurelio IX, 30. Traspare da entrambi un senso di calma e di
sereno distacco, un lucido disincanto rispetto alle illusioni dell’uomo
ordinario. L’affinità non è soltanto di ordine concettuale, ma investe la
disposizione interiore, lo stato d’animo, il modo in cui, in entrambi i sistemi,
il saggio si pone di fronte al mondo. Chi abbia familiarità con la lettura dei
testi buddisti e di quelli stoici – e li legga “col cuore” e non solo col
cervello - può comprendere cosa dico quando parlo del senso animico di calmo
distacco che entrambi comunicano.
Il confronto fra le due “visioni del mondo” lascia emergere anche le sensibili
differenze che intercorrono fra loro. Nel buddhismo delle origini, l’impermanenza
si colloca in una visione generale nella quale è centrale la dottrina del
karma – come legge di causalità e della trasmigrazione. La “sete”,
l’appetito dei godimenti, determina un karma, un destino di
trasmigrazione nel ciclo del samsara, poiché il principio cosciente non
si é liberato dalla sete d’esistenza, non essendo pervenuto al risveglio e,
quindi, alla consapevolezza dell’impermanenza, che non è solo un’assimilazione
razionale del concetto, ma una profonda interiorizzazione della vera natura
delle cose.
In Marco Aurelio, pur essendo ben presente la comprensione della legge
naturale di trasformazione nei termini di un ordine espressione del Logos,
non compaiono richiami alla dottrina della trasmigrazione come un destino di
catarsi scaturente dalla “sete” da cui l’uomo non si è liberato. Tutta la
dottrina morale dell’imperatore-filosofo si colloca nell’orizzonte della vita
terrena dell’uomo nel rapporto coi suoi simili, con la società nel suo
complesso, con lo Stato – ossia con l’Impero . Se leggiamo Seneca, Epitteto e
Marco Aurelio si nota che, pur essendo frequente la riflessione sulla morte e la
lezione morale sull’atteggiamento virile da avere di fronte ad essa, mancano
riferimenti ad una dottrina del post-mortem e della trasmigrazione cui
legare la dottrina morale da osservare nella vita terrena. Compare, certamente,
in alcuni aforismi di Marco Aurelio, qualche richiamo al ritorno, con la morte,
nel Principio da cui traiamo origine, mentre frequente è il richiamo al Logos.
Resta comunque centrale l’orizzonte della vita terrena dell’individuo e del modo
più saggio per viverla, dilatando l’orizzonte all’ambito dello Stato, dei doveri
che l’uomo – ossia il civis romanus – ha nei confronti della polis
intesa in un’ampia accezione.
Credo che in ciò occorra scorgere un tratto tipico della cultura romana, quella
sua impronta “pragmatica” e quella tendenza così spiccata alla storicizzazione,
ben nota alla scienza storico-religiosa a partire dagli studi di G. Dumézil fino
alla originale elaborazione interpretativa della scuola storico-religiosa di
Roma; Roma risolve il cosmo nella polis - dilatata poi alla dimensione
sovranazionale dell’Impero – e risolve i miti del suo retaggio arcaico nella sua
storia, in cui gli dèi assumono una connotazione umana, quindi tutta calata nel
tempo e nello spazio, un tempo ed uno spazio ben definiti, che sono quelli
dell’Urbe. Il macrocosmo, per dirla in altri termini, è tutto compendiato e
concentrato nel microcosmo romano. La letteratura filosofica dello stoicismo
romano sembra conservare questa impronta; la lezione del filosofo stoico è tutta
concentrata su come agire e come vivere nel proprio tempo e nel proprio spazio
sociale e civile, conservando una rettitudine interiore non coinvolta nel
vortice delle passioni e dei vizi dell’uomo comune. Eppure la dottrina della
trasmigrazione era ben nota agli Antichi; essa risaliva al pitagorismo ed era
ricomparsa nel neo-pitagorismo d’epoca imperiale per cui è impensabile che gli
Stoici romani non la conoscessero. Essa, tuttavia, era vista, probabilmente,
come una dottrina d’élite, riservata agli iniziati ed ai filosofi, mentre
all’uomo medio andava insegnata una dottrina morale che rendesse equilibrata e
serena la vita terrena.
Altra differenza saliente riguarda un particolare profilo dell’impermanenza,
ossia quello del mondo soggettivo. Abbiamo visto che per il buddhismo la
permanenza di ciò che chiamiamo “io” è soltanto illusoria, mentre tale lezione
non sembra comparire nello stoicismo romano, anche se è ben presente la
considerazione dei vizi che schiavizzano l’uomo, la coscienza delle false
rappresentazioni della sua mente e, soprattutto, la lezione sull’importanza
dell’egemonikòn, il sovrano interiore che si configura quale peculiarità
del saggio e non come carattere ordinario dell’uomo comune. Altro è, però, porre
in risalto gli errori che conducono l’uomo alla schiavitù sia verso sé stesso
che verso il mondo, altro è, invece, sostenere l’illusorietà della permanenza
dell’io, riducendola ad un complesso di psichismi che si susseguono e prevalgono
di volta in volta. La concezione stoica dell’uomo – nella sua condizione
ordinaria – appare più orientata verso la delineazione di un “io” debole,
soggetto ai vizi ed alle passioni, ma comunque permanente nella sua debolezza e
fragilità, piuttosto che di un “io” illusorio. Ed è qui che si può cogliere
un’altra differenza di fondo fra cultura romana - che elabora le categorie della
storia e del diritto - e cultura indiana (nella quale il buddhismo delle origini
affonda comunque le sue radici) che si distingue per la centralità della nozione
di maya, il velo dell’illusione che abbraccia sia il mondo oggettivo che
quello soggettivo. La centralità della dottrina dell’impermanenza nel buddhismo
implica una serie di valutazioni sia sul piano della realizzazione spirituale
che su quello dell’etica. Analisi analoga sarà svolta per gli Stoici romani, per
poter poi raffrontare le due correnti in tema di rapporto desiderio-dolore e di
“etica del distacco”.
3. – La concezione del dukkha nel buddhismo, comprendendo le più svariate
sfumature della sofferenza, designa complessivamente la condizione di
limitazione in cui l’uomo inconsapevolmente si rinchiude, immiserendo la sua
interiorità e rendendo infelice la sua vita. La “sete” quale causa karmica del
dolore, è conosciuta come un conato – incoercibile per l’uomo ordinario – che
concerne tanto l’esistenza quanto la non-esistenza, tant’è che lo stesso
desiderio di estinzione della vita, ossia la tendenza al suicidio, è spiegata
dal Buddha come “non conoscenza della vera estinzione”, ossia appunto
l’estinzione della sete, il “bruciare” gli attaccamenti (Majjhimanikayo,1,1).
Nel Dhammapada - raccolta di insegnamenti del Buddha che costituisce uno
dei testi più antichi della letteratura delle origini – il XXIV capitolo è
dedicato al tema della “sete” ed in esso è esposto il nesso causale col dolore.
Particolarmente significativi sono i passi 334, 342 e 343.
XXIV, 334. Nell’uomo che vive con mente distratta la sete cresce come una
liana: egli guizza di vita in vita, come la scimmia che desidera un frutto
(salta di albero in albero).
XXIV, 342. Dominati alla sete, gli uomini balzano qua e là come lepri incappate
nella rete. Soggetti a vincoli e legami, continuamente ed a lungo vanno verso il
dolore.
XXIV, 343. Dominati dalla sete, gli uomini balzano qua e là come lepri incappate
nella rete. Di conseguenza cacci lontani da sé il monaco la sete, col volere il
distacco interiore.
La sete, generatrice del dolore, alligna nella mente distratta, nell’uomo che
non ha vigilanza interiore, che non ha più il ricordo di se stesso. E’ un tema,
quello dell’essere svegli, presente in molteplici tradizioni spirituali e
sapienziali sia orientali che occidentali, tant’è che lo si ritrova anche nei
Vangeli canonici, ove permangono tracce di una dottrina esoterica. Questo
rapporto sete-dolore si incontra anche nello Stoicismo romano. Nel capitolo IV
delle Diatribe, Epitteto illustra un insegnamento filosofico di grande
interesse. Ciò che peggiora l’uomo, ciò che lo rende basso non è il mondo
esterno ma il desiderio che non è solo quello delle cariche, degli onori e del
potere ma anche il desiderio di quiete, di tempo libero, di viaggi, di cultura.
Quale che sia l’oggetto esterno – il potere o l’assenza di potere – ciò che
schiavizza l’uomo e lo limita costituendo causa di infelicità è il fatto stesso
di conferire un valore a quell’oggetto. Dice Epitteto “ Che differenza passa tra
desiderare di essere senatore e desiderare di non esserlo?” In Diatribe
IV, 8, 33 il filosofo ammonisce a rimuovere completamente il desiderio e
dirigere l’avversione ai soli oggetti che dipendono dalla prohàiresis, la
scelta morale di fondo, abbandonando il desiderio anche verso l’assenza di
cariche pubbliche, di poteri, onori e ricchezza. Il desiderio è dunque la radice
dell’infelicità quale che sia il suo oggetto, fosse anche un oggetto lontano da
prospettive mondane.
Questo tema della semplificazione della vita e della essenzialità dei
bisogni, limitati a ciò che è necessario secondo natura, è presente in modo
spiccato in Seneca, comparendo frequentemente nelle sue Lettere a Lucilio
ed unendosi al biasimo verso coloro che sono schiavi di desideri smodati, di
appetiti insaziabili, siano essi diretti al potere, alla fama o al piacere di
trastullarsi nei propri vizi. L’invito alla semplicità della Lettera 5,
la distinzione fra beni veri e falsi dell’uomo nella Lettera 8, il monito
della Lettera 49 a non sprecare la nostra vita in cose vane, sono solo
alcuni degli esempi più salienti di questa impostazione filosofico-morale. In
Epitteto la rimozione del desiderio sembra assumere un carattere più radicale,
mentre in Seneca sembra prevalere, complessivamente, il monito a temperare i
desideri. La linea di tendenza è comunque identica, seppure con diversità di
gradazioni.
Il desiderio incontrollato, come fonte dei mali dell’uomo è dunque un tema
comune a buddhismo e stoicismo romano, il che non esime dal cogliere le
diversità che pure emergono fra le due correnti. Nel buddhismo la conoscenza
causale del rapporto desiderio-dolore si colloca nel quadro di una disciplina
ascetica, di una denudazione e semplificazione del principio cosciente che deve
portare l’uomo al risveglio, attraverso la pratica della concentrazione, della
meditazione e della contemplazione; rispetto a tale indirizzo spirituale la
condotta morale non è fine a sé stessa ma propedeutica per l’elevazione
spirituale dell’uomo, avendo quindi la sua giustificazione in una finalità
ascetico-spirituale.
Negli Stoici romani non si riscontra un riferimento ad una disciplina
spirituale di tipo ascetico articolantesi in vari tipi e gradi di pratiche
meditative; la dottrina morale trova in se stessa la sua giustificazione, che
consiste nell’offrire all’uomo la chiave per trovare la strada di una vita
vissuta in modo virtuoso, ossia secondo natura, concentrandosi sull’essenziale,
abbondonando smanie smodate ed integrando il concetto di vita virtuosa con la
lezione sulla cultura dei doveri che il saggio deve adempiere con forza d’animo
in famiglia, nella società e verso lo Stato. Certo, in Seneca è presente il tema
dell’otium inteso come vita contemplativa, ma esso assume una sfumatura
diversa, relativa al vivere in modo appartato e tranquillo, alla vita degli
studi; una contemplazione intesa insomma come disposizione d’animo, ma nulla che
possa far pensare a discipline specifiche di meditazione, di dominio della
mente. La Lettera 19 sulla vita tranquilla e sui suoi vantaggi è, al
riguardo, molto eloquente del modo in cui lo stoicismo romano concepiva la “vita
contemplativa”. In Epitteto (Diatribe, I, 6,21) la vita contemplativa
viene concepita come sbocco e completamento della natura dell’uomo; la
contemplazione consiste nella “comprensione delle cose ed in una condotta di
vita in armonia con la natura”, in ciò riprendendo una lezione del filosofo
greco Crisippo secondo il quale “L’uomo è nato per contemplare e per imitare il
mondo”. I richiami di Marco Aurelio su una disposizione contemplativa
nell’osservare il mondo e la vita sono stati già citati e non sono certo i soli
presenti nella sua opera, che è tutta pervasa da questa particolare disposizione
d’animo nel porsi di fronte al mondo. La diversità di questa concezione della
contemplazione rispetto a quella più spiccatamente ascetica e “tecnica” del
buddhismo delle origini risulta evidente; eppure, sul piano dello stile di vita,
le conclusioni sono affini, soprattutto se il messaggio buddhista si rivolge non
al monaco ma al laico che voglia integrare la sua vita quotidiana con un
indirizzo etico dai saldi princìpi. Per il laico, per l’uomo che non ha scelto
una via di consacrazione sacerdotale, in entrambi i casi la felicità – o almeno
la serenità – viene ritrovata in una semplificazione dei bisogni, in
un’essenzialità di condotta e nella moderazione degli appetiti.
Questo stile di vita richiede, però, la realizzazione di uno stato interiore,
quello del distacco, senza il quale tutto l’insegnamento sul rapporto
sete-desiderio-dolore rischia di divenire una mera astrazione concettuale.
4. - La conoscenza del rapporto causale attaccamenti-dolore è presente,
come si è già visto, nell’insegnamento del Buddhismo delle origini quale
insegnamento centrale. Il distacco, inteso come “distruzione dei vincoli” è
presente in Dhammapada XIX, ove il Buddha insegna le caratteristiche
dell’uomo giusto, invitando a non lasciarsi ingannare dai tratti esteriori di
coloro che dicono di seguire il Dharma (la Legge) ma non la applicano
veramente. Il distacco è la via del saggio che procede sempre più profondamente
verso la “cessazione dell’agitazione” (nirvana) mentre la via dei vincoli
è descritta come la via dello stolto, verso cui il Buddha mostra un
atteggiamento di aristocratica compassione (karuna), altro aspetto molto
importante della sua dottrina. Negli Stoici romani il tema del distacco ha,
analogamente, un rilievo centrale. La preghiera che Marco Aurelio rivolge agli
dèi in Ricordi IX, 40 è una bellissima e nobile lezione di aristocratico
distacco:
“Un tale prega così:... “Oh! come mi vorrei liberare di quest’uomo!” E tu “Come
potrei non sentire il bisogno di liberarmi di lui!” Un altro:” Oh! se non
perdessi questo mio figlioletto!” Tu “Oh! se potessi non temere di perderlo!”
Conclusione: rivolgi in questo modo le tue preghiere mutandole nel loro
contenuto: osserva poi le conseguenze”.
In Seneca, Lettera 96 (sulla serena sopportazione delle sventure) e in
Lettera 116 (sull’abbandono delle passioni) incontriamo la lezione del non
coinvolgimento nel vortice delle passioni e del dolore, della fermezza d’animo
nel fronteggiare le difficoltà della vita ed anche della capacità di cogliere
gli aspetti positivi e formativi delle difficoltà che la vita ci pone. Il
desiderio di evitare il dolore e le difficoltà è abbandonato, il saggio
affermandosi con una capacità di virile distacco.
In Epitteto sono frequenti sia il tema della apàtheia che quello dell’ataraxìa,
ossia l’impassibilità e l’imperturbabilità del saggio, in stretta connessione
all’ideale della vita tranquilla, del vivere in riposo nel senso di
raccoglimento creativo. Comune ai due sistemi è la posizione interiore che
scaturisce dalla lezione dell’abbandono dei desideri fino a forme inconcepibili
per l’uomo comune, mentre diverso è il contesto spirituale in cui la lezione sul
distacco viene situata. Nel buddhismo essa si colloca nel quadro di una
disciplina ascetica in cui il monaco non ha appigli in divinità da pregare, il
mondo degli stessi dèi rientrando nell’ambito del samsara, il ciclo delle
rinascite. La lezione stoica si situa in un quadro che, nel II secolo, è quello
del politeismo greco-romano tradizionale, anche se – è bene sottolinearlo –
quest’ultimo si risolveva nella concezione del Deus absconditus, al di là
di tutti gli dèi con le loro varie competenze e specializzazioni.
5. - Il buddhismo delle origini, nel suo nucleo centrale, si configura
come una disciplina interiore rigorosamente sperimentale ed ascetica, fondata
cioè sull’esperienza diretta che il praticante compie delle pratiche meditative
e delle proprie potenzialità di auto-superamento delle impurità. Partendo da
tale nucleo centrale, esso è anche una filosofia nonché una dottrina morale ed è
anche – a livello popolare – una religione con tratti fideistici e devozionali.
Lo Stoicismo romano si configura essenzialmente come una filosofia morale, con
alcuni richiami ad una prospettiva religiosa che è quella romana tradizionale,
come si evince da alcune Lettere a Lucilio di Seneca, nonché da tutto
l’insieme dell’opera di Epitteto e dagli aforismi di Marco Aurelio. L’uomo al
quale si rivolge è tutto calato nella realtà terrena, nella rete dei doveri
familiari, sociali, civici. Il saggio di Seneca che si allontana dalla vita
pubblica è comunque un uomo che si è calato nella vita dello Stato ed ha
adempiuto ai suoi doveri di civis. Il saggio delineato da Marco Aurelio è
comunque un uomo che vive con virile distacco i suoi compiti verso il mondo. Il
principe–filosofo scriveva i suoi pensieri sotto una tenda, fra una battaglia ed
un’altra, fra una marcia ed un’altra delle legioni che guidava contro i barbari
invasori. L’uomo occidentale, nella sua radice romana, è più legato alla storia,
il macrocosmo per lui si risolve nel microcosmo che fu prima civitas,
respublica e poi Impero. In questa tendenza a calarsi nella storia sta la
peculiarità dell’Occidente.
Il saggio delineato nei sermoni del Buddha supera i confini della storia, si
colloca in una dimensione di vastità cosmica ove tutti i fenomeni – compresi gli
dèi e gli Stati – rientrano nella maya, il velo dell’illusione, lezione
di risalenza indiano-brahmanica, la cultura in cui il Saskyamuni comunque aveva
avuto la sua formazione.
Eppure, nel leggere gli Stoici e, soprattutto, i Ricordi di Marco
Aurelio, certi aforismi, certe riflessioni, suscitano – sul piano della
risonanza interiore – l’impressione di un’affinità così spiccata con certi
contenuti del buddhismo da non poter escludere l’ipotesi che gli Stoici
conoscessero la lezione del Buddha e ne fossero stati influenzati,
rielaborandola nelle forme e nei limiti adatti alla psicologia ed alla forma
mentis dell’uomo romano. Si veda, ad esempio, il passo IX,10, ove Marco
Aurelio espone il concetto del frutto, inteso come una legge naturale, poiché
“ciascuna cosa, al momento giusto, porta il suo frutto”, che ricorda, in modo
impressionante, la dottrina orientale del karma come legge di
causa-effetto, così importante per una “filosofia della responsabilità” sul
piano della condotta morale. Oltre questa cauta ipotesi, per il momento non si
può andare. Il primo autore occidentale che citi il Buddha è soltanto Clemente
Alessandrino.
Le ricerche archeologiche più recenti in India e la relativa letteratura in
materia sui contatti fra India e mondo classico e sulla presenza di empori
romani fin sulla costa orientale dell’India, stanno ampliando le nostre
conoscenze, ben oltre quel che si pensava fino a qualche decennio fa. La
documentazione storico-artistica sui reciproci influssi nel campo degli stili
artistici, in conseguenza sia delle conquiste di Alessandro Magno che si era
spinto fino all’Indo, sia dei traffici marittimi e commerciali fino a tutta
l’età imperiale romana (si pensi all’arte indiana del Gandhara che risente di
canoni estetici greci o a certi busti rinvenuti a Pompei che sembrano modellati
sull’iconografia del Buddha), consentono di non escludere l’eventualità di un
contatto fra mondo greco-romano e buddhismo nei primi secoli dell’Impero romano.
E’ un terreno di ricerca tutto da approfondire che potrebbe, forse, aprire
orizzonti nuovi su un’inedita comunanza culturale fra Oriente ed Occidente.
BIBLIOGRAFIA
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1972.
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prospettiva buddhista (a cura di Geshe Thupten Jinpa), Ed. Neri Pozza,
Vicenza, 1998 (con un commento alla Guida al modo di vivere del bodhisattva
di Shantideva).
Dalai Lama, La Via del Buddhismo tibetano, Ed. Mondadori, Milano, 1996
(con particolare riferimento ai primi due capitoli sul primo e sul secondo giro
della ruota del Dharma, ossia le Quattro Nobili Verità e la dottrina della
vacuità).
Namkhai Norbu, Un’introduzione allo Dzogh-Chen (a cura di Adriano
Clemente), Ed. Shang Shung, Arcidosso, 1988.
Namkhai Norbu, Il cristallo e la via della luce. Sutra, tantra e Dzogh-Cchen,
Ed. Ubaldini, Roima, 1987.
LETTERATURA SUL RAPPORTO FRA INDIA E MONDO CLASSICO
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dell’imperatore Asoka, pp. 232-243 e bibl. ivi).
P. Daffinà, Le relazioni tra Roma e l’India alla luce delle più recenti
indagini, Roma, 1995.
Da:
http://www.centrostudilaruna.it/stoicismobuddhismo.html
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