|
|
L’abbandono totale in Madre Teresa di Calcutta e nella cultura Indù(1) Gloria Germani
Madre Teresa è conosciuta universalmente per la sua opera di carità. Ovunque nel mondo la suora di Calcutta è famosa per la sua instancabile attività di servizio ai "più poveri dei poveri", per la sua silenziosa e sollecita opera là dove esistono i casi più drammatici di solitudine, di abbandono, di miseria. Madre Teresa dava l’idea di essere una donna molto concreta, non aveva tempo di esporre dottrine, tanta era la sua urgenza, la sua voglia di aiutare gli altri. Anche quando parlava in occasioni pubbliche, non preparava mai in anticipo i discorsi ma parlava all’impronta. Usava un linguaggio molto colloquiale e concreto, fatto di frasi smozzicate, di pensieri non completati, di espressioni coloniali inglesi, ricco di esemplificazioni e formule ricorrenti. Senza dubbio Teresa dava l’impressione di essere una donna molto pratica e calata nell’agire tanto che fu chiamata "la donna più potente del mondo".(2) Infatti anche il modo laico è rimasto affascinato dalla suo esempio di azione, perché anche un laico comprende che nella risposta personale alla povertà, alla sofferenza, alla solitudine, in questo dare senza chiedere nulla in cambio, risiede la parte più nobile del nostro essere umano. Infatti sull’attività di Madre Teresa e sul suo servizio ai poveri sono stati scritti decine di biografie, articoli sui giornali, servizi televisivi in tutto il mondo. La sua attività nei lebbrosari, negli orfanotrofi, la sua presenza la dove si erano verificati terremoti, carestie, ha colpito la sensibilità del mondo. Da parte dei mass Media – che ha senz’altro contribuito a farne un personaggio di fama mondiale – l’opera di carità di Teresa che proveniva proprio da Calcutta – città simbolo della povertà e della desolazione, – è stata letta soprattutto come un tentativo di alleviare la povertà del terzomondo. Ma è davvero così? Noi cittadini del mondo industrializzato, ci possiamo sentire al riparo dalla sfida che Madre Teresa ci pone davanti? Il mio obbiettivo è stato quello di porre una domanda. È possibile rintracciare un pensiero, un intuizione spirituale che ci consenta di comprendere il significato che per lei aveva il servizio ai poveri? È possibile comprendere il suo esempio di santità nel mondo d’oggi? Questo tentativo è importante per non cadere nell’errore di considerarla una figura fuori del normale, dotata di uno stato sovrannaturale, per far si che invece il suo esempio possa illuminare ciascuno di noi nel suo presente e nella sua quotidianità. Ci troviamo dunque di fronte quasi ad un divario tra, da una parte, la sua straordinaria opera che i mass media hanno grandemente contribuito a rendere famosa e, dall’altra, quella che sembra essere l’assenza di ogni intento teologico o filosofico. Va sottolineato che Madre Teresa non scrisse infatti alcun libro. Gli unici testi che ci rimangono di suo pugno sono le prime costituzioni delle Missionarie della Carità oltre alle lettere che scriveva alle sorelle o ai collaboratori. Le pubblicazioni anche se talvolta danno adito di essere state scritte da lei (Le mie preghiere, La mia regola) sono raccolte di trascrizioni di interventi in varie occasioni, insegnamenti alla sua famiglia religiosa, preghiere, pubblicate da giornalisti, estimatori, collaboratori. Il fatto però che Madre Teresa abbia espresso il suo insegnamento in maniera orale – il fatto, quindi, che il suo pensiero non presenti né formulazioni, né ambizioni teologiche o filosofiche – , non deve indurci a sottovalutarlo e a considerarlo un pensiero completamente inscritto nella catechesi più tradizionale. Anzi, la ricerca che ho cercato di portare avanti consiste essenzialmente in una lettura più attenta, in una indagine critica svolta per la prima volta su questi documenti – che possono essere considerati "frammenti" di un pensiero che Madre Teresa aveva espresso in forma orale. Mi pare possibile affermare che questa lettura critica permette di mettere in luce la straordinaria forza dell’intuizione spirituale di Madre Teresa insieme ad una visione del mondo originale e coerente. In sintesi si può anticipare che un tal genere di analisi ci permetterà di accantonare due equivoci sulla figura della Madre. Il primo consiste nel considerare l’opera di carità come un tentativo di alleviare la povertà del terzo mondo, al contrario il servizio libero e offerto con tutto il cuore ai più poveri dei poveri (che rappresenta il quarto voto delle Missionarie della Carità) implica una radicale identificazione con i poveri, il valore positivo della povertà materiale e soprattutto come vedremo meglio in seguito della povertà spirituale. Il secondo equivoco consiste nel ritenere che il carisma di questa donna si esaurisca nella sua azione. Che si tratti di un pensiero devozionale, catechistico, insignificante contrapposto all’importanza dell’opera. Benché l’intuizione spirituale di Madre Teresa abbia senz’altro un carattere profondamente unitario proprio perché vissuto, è ben possibile individuare al suo interno varie tematiche che scandiscono le tappe di un percorso spirituale che ha notevoli affinità con quello della mistica, ma che pure ne mettono in rilievo i punti di contatto con la grande sapienza indiana, nel cui ambito l’esperienza di Teresa di Calcutta è nata e si è storicamente maturata. Non starò qua a dilungarmi sui dati biografici di Teresa basterà ricordare che Agnes Bojaxhiu giunge in India come novizia delle Missionarie di Loreto nel 1928 appena 18enne. Gli anni della sua formazione coincidono quindi con quelli della lotta non violenta di Gandhi per l’indipendenza dell’India. Sono gli anni in cui il Mahatma esprime il significato della sua lotta politica e insieme etica con pochi gesti carichi di contenuto simbolico comprensibili a tutti: la marcia del sale con la quale sfida il monopolio inglese, i digiuni, cioè l’uso che Gandhi faceva della sofferenza autoinflitta come sacrificio di sé attraverso cui si riesce a convertire l’avversario; l’adozione del khadi, l’abito tradizionale tessuto mano delle masse indiane, ed insieme il voto di povertà attraverso il quale egli giungeva ad identificarsi con gli ultimi tra gli ultimi. "Chi serve i poveri serve Dio" ripeteva Gandhi e il sarvodaya, "il servizio di tutti", è il nome che egli dette al sistema sociale che avrebbe dovuto scaturire dalla società indiana in seguito all’indipendenza. È solo nel 1947, quindi appena pochi mesi dopo che gli inglesi avevano formalizzato la loro decisione di lasciare il Subcontinente, che Madre Teresa avverte la chiamata nella chiamata, quell’esperienza interiore che le imponeva di lasciare il convento per condividere con milioni di indiani la loro vita di povertà, identificandosi totalmente con essi a cominciare dall’abito. Madre Teresa abbandona l’abito scuro a pieghe con il colletto bianco di chiara impronta europea delle Missionarie di Loreto per indossare il sari di cotone bianco delle donne indiane poverissime e decide di vivere senza nessun tipo di a sussidio né statale né ecclesiastico. Le baraccopoli di Calcutta diventano la sua casa; insegna ai bambini a lavarsi, a leggere e scrivere, entra in contatto con gli adulti per farli sentire degni d’amore e soprattutto aiuta i sofferenti di qualsiasi confessione religiosa, nel momento del trapasso, a partire con gioia, ad abbandonare tutto e ritornare all’Uno con il sorriso sulle labbra. Abbiamo or ora fatto riferimento brevemente a quelli che erano i punti di contatto con l’universo indiano; adesso accenneremo all’altro aspetto importante che abbiamo notato nell’intuizione spirituale di Madre Teresa: l’aspetto mistico. L’esperienza di Madre Teresa è essenzialmente mistica. Ma vediamo in che senso di questo termine travagliato e spesso mal compreso. Se è vero che il termine "mistica" nel suo uso originario è riferito a "teologia" ed allude ad un discorso, ad una scienza di Dio di tipo iniziatico, a cui si addicono la quiete ed il silenzio, l’esperienza mistica definisce un percorso di pensiero in cui l’umano e il divino si identificano e il mondo del molteplice, del fenomenico, del dolore è superato nella gioia inalienabile della realizzazione dell’Unità tra Dio e l’uomo, tra Dio e mondo.(3) L’esperienza mistica, come ricerca ed esperienza dell’Uno, è stata percorsa nel corso dei secoli da grandi personalità, non solo in campo religioso ma anche in quello filosofico, si pensi, in quest’ultimo senso, prima di tutto a Plotino e al neoplatonismo. Va notato però che questo tipo di esperienza attraversa ugualmente i più diversi ambiti religiosi e già Rudolf Otto aveva sottolineato le profonde affinità che uniscono la mistica occidentale con quella orientale attraverso un magistrale studio che confrontava il pensiero di Meister Eckhart, erede della tradizione cristiano-scolastica medievale, con quello del maggiore filosofo indiano: Shankara fondatore dell’Advaita Vedanta o assoluto non-dualismo.(4) Per quanto sporadici, altri studi come quelli dell’indiano Svami Siddhesvarananda e quelli dei monaci benedettini che fondarono l’ashram di Shantivanan in India, hanno messo in luce il terreno d’incontro che congiunge il pensiero induista con quello cristiano non tanto sul piano dottrinario, quanto su quello mistico dell’assenza del dualismo tra Dio e il mondo.(5) Questi studi pionieristici si inoltrano infatti in un campo di ricerca ancora ampliamente da esplorare ma che reca in sé i germi di fecondissimi sviluppi. Ed è proprio il non dualismo, l’advaita che continua ad essere la visione del mondo che anima ancor oggi la cultura indiana, ciò che fornisce la chiave di lettura dell’opera e della personalità del Mahatma Gandhi. La sua azione politica, il movimento per l’indipendenza indiana, la sua grande dedizione per le masse indiane non furono mai disgiunte dalla sua sincera tensione religiosa, dal desiderio della liberazione, dallo sperimentare l’esperienza dell’identità tra uomo e Dio, tra atman e Brahman, tra Dio e mondo. In altre parole, non c’è, ne potrebbe esserci alcuna frattura tra agire mondano e salvezza, tra contemplazione e azione. Bisogna notare che è precisamente lo stesso l’approccio di Madre Teresa. La santità è nell’operare in questo mondo, nel servire totalmente gli altri, riportando tutto al presente, al qui e ora della nostra condizione attuale. La contemplazione si realizza nell’azione come Teresa ribadiva continuamente: "siamo contemplative nel cuore del modo". L’attenzione posta da sul qui e sull’ora, sul servizio ai poveri che sono continuamente il mio prossimo adesso, come unica possibilità di unione con il divino sono un tratto che caratterizza in maniera veramente peculiare tutto il suo percorso. Non c’è quindi più separazione tra sfera religiosa e laica, tra sacro e profano, tra materia e spirito. Ed è questa non separazione ciò che collega l’intuizione spirituale di Madre Teresa alla cultura indù e alla visione non dualista del mondo. Se ci soffermiamo adesso su alcuni brani di Madre Teresa, bisogna notare che ciò che colpisce e che ci lascia smarriti negli insegnamenti della piccola suora vestita con il sari, è proprio il carattere immediato in cui pone ciascuno di noi di fronte al divino. La santità è "unione con Dio" ed "essere santi è un dovere semplice, alla portata di tutti".(6) Traspare la fede completa ed assoluta nel fatto che il divino non si pone come radicalmente lontano da noi, né separato da qualsiasi forma di dualismo come quello tra materia e spirito, uno e molteplice, purezza e peccato. "Se il mio amore per le mie sorelle è buono, allora il mio amore per Gesù sarà buono. Non ci sono due amori" afferma Madre Teresa(7) e ancora: "Dio vive in noi e ci rende divini".(8) Cristo stesso non può avere una collocazione cronologicamente e spazialmente determinata perché Cristo e ovunque in ognuno dei nostri fratelli, nei poveri; "perché i poveri sono Cristo".(9) E questo sono non è più metaforico: ciascuno di noi è un povero e di fronte a ciascuno di noi, Madre Teresa si inchina e serve perché in ciascuno riconosce l’impronta divina che noi stessi nascondiamo dietro la maschera della nostra sofferenza e miseria. In sintesi si può affermare che Teresa ha riscoperto il messaggio folgorante del non dualismo, della non separazione, della non alterità, che è così vibrante nell’universo indiano, in un unico brano dei vangeli sinottici. Questa pericope viene a costituire la fonte inesauribile della sua ispirazione e la radice della straordinaria fecondità del suo cristianesimo. Le Parole del Cristo in Mt. 25, 35-40:
Queste brevi parole: "You did it to me", che ella amava ripetere scandendole sulle cinque dita della mano, rappresentano la sintesi tanto semplice, quanto efficace, della sua visione del mondo e il significato profondo della sua azione infaticabile. Tradurre nella propria vita la verità così semplice del non dualismo è di fatto vertiginosamente difficile. Per vedere Dio presente in ognuno di noi, nei poveri, ma ugualmente in chiunque mi sta accanto: in mio marito quando è stanco e di malumore, in mia sorella quando è superba , ma anche non solo in chi ha fame, in chi è nudo, ma anche nell’ubriaco, in colui che impreca, come avviene sempre di più nella povertà del mondo industrializzato, per vedervi Dio, dicevo, occorre avere un cuore puro. Dice Teresa in un passo molto bello:
E in un altro passo straordinario per la sua incisività:
Per Madre Teresa, la presenza divina è senz’altro qua in questo mondo:
Capire e realizzare che non esiste una separazione tra Dio e questo nostro mondo, che non esiste una frattura tra noi e Dio concepito come Altro, come Bene inafferrabile, come rimando e segno di alienazione, rappresenta un traguardo che non può essere raggiunto se non cominciamo a cambiare la nostra percezione di noi stessi e la nostra maniera di rapportarci agli altri. Si può affermare infatti che la maggior parte degli insegnamenti di Teresa sono rivolti a spiegarci come possiamo avere un cuore pulito, puro "a cleaned heart". Un cuore pulito è ciò che ci permette di avere una percezione corretta di noi stessi e di conseguenza degli altri e si basa essenzialmente nel cancellare ogni impulso egocenterico, ogni egoismo, ogni mancanza di compassione verso gli altri. Madre Teresa inverte il senso moderno di concepire l’agire e sposta i criteri del modo di pensare sempre orientato verso il risultato. Ad un giornalista che le domandava "Madre, ma quando lei morirà, il mondo sarà come prima. Cos’è cambiato dopo tanta fatica?", Madre Teresa rispondeva per esempio: "Non ho mai pensato di poter cambiare il mondo. Ho cercato soltanto di essere una goccia di acqua pulita nella quale potesse brillare l’amore di Dio".(13) Soffermiamoci su questa bellissima espressione: una goccia di acqua pulita. L’approccio di Madre Teresa al mondo e ai suoi problemi è sempre interiore, intimo e strettamente individuale. Non riguarda i numeri, la quantità, ma il rapporto con noi stessi. Siamo soltanto una goccia d’acqua nell’oceano, ma se mancasse quella goccia l’oceano mancherebbe di qualcosa. Ciascuno di noi è una piccolissima goccia, , ma soprattutto deve essere una goccia pulita, cioè trasparente, completamente sgombra di qualsiasi pesantezza ed ingombro egoistico, per poter far brillare il divino attraverso di noi. La Madre dunque indica una via per diventare puliti e trasparenti che passa da alcune tappe ben precise che si possono individuare nella seguente maniera:
Tutti questi temi che abbiamo appena accennato umiltà, preghiera, silenzio, peccato trovano nell’universo indiano una vasta eco come momenti di autopurificazione (Dyana e Yoga) che aiutano la vera essenza dell’uomo a liberarsi dalle corazze e dagli offuscamenti (klesa) che celano la profonda unità tra umano e divino (in termini indiani tra atman e Brahman). Queste tappe ci portano a conquistare un cuore pulito, quella trasparenza che ci consente di riflettere, come l’acqua cristallina di un lago senza onde, Dio stesso e di identificarci in lui attraverso quel movimento di pura apertura incondizionata che è l’amore. Madre Teresa afferma:
Siamo così giunti a quel tema del distacco che confluisce nel tema centrale dell’abbandono totale che è propriamente all’oggetto della nostra riflessione. Lungo la via del distacco, si abbandonano gli impulsi più spontanei del nostro apparato psichico ordinario: per prima cosa gli impulsi alla procreazione attraverso la castità, per seconda cosa gli impulsi al possesso, al desiderio di potere e di acquisizione attraverso il voto di povertà e per terzo cosa si rinuncia all’impulso volitivo, alla volontà di autodeterminazione che è forse l’istinto più forte dell’individualità umana, che si rispecchia nel voto di obbedienza. A questi che sono i voti tradizionali di qualsiasi ordine monastico – castità povertà obbedienza – , Madre Teresa conferisce una radicalità molto profonda. Innanzitutto perché in essi il distacco e la rinuncia coincidono con la vera libertà. "La castità è la nostra libertà, la povertà è la nostra libertà" non si stanca di ripetere Madre Teresa. Il voto di castità significa infatti non essere più limitati da un amore determinato per qualche persona, ma riuscire ad amare tutto il mondo. Essere poveri significa non essere posseduti dai nostri averi far sì che i nostri averi non ci controllino e non ci impediscano di condividerli e di donargli agli altri. "Possedere le cose ci condanna all’ansia di mantenerle e o di aumentarle. Perché le esigenze aumentano e una cosa tira l’altra e il risultato è una insoddisfazione incontrollabile".(15) Rimanere invischiati dal legame alle cose è schiavitù mentre la libertà consiste nel distacco dell’io dalle cose contingenti, determinate, specifiche. Più propriamente bisogna distaccarsi dall’io – quell’io psicolgico che costituisce la nostra individualità fenomenica – e che si realizza proprio per mezzo del legame con le cose concepite come esterne da sé attraverso i movimento di attrazione e repulsione, di piacere e di dispiacere. Allora comprendiamo come il nocciolo della questione verta proprio sulla maniera più profonda di rapportarsi al nostro io, a ciò che la Madre Chiama total surrender l’abbandono totale, la rinuncia, il lasciarsi andare, la resa del nostro sé, nel significato originario di arrendersi cioè di rendere se stessi a quell’Uno da cui proveniamo e da cui tutto proviene. L’abbandono totale riguarda dunque ciò che ci costituisce in quanto individui psichici, come individualità fenomenica e quindi in primo luogo riguarda la nostra volontà che è essenzialmente ciò che fa di noi degli esseri individuali. In moltissimi brani Madre Teresa insiste sulla assoluta necessità dell’abbandono alla volontà di Dio ma chiarisce che essa si realizza attraverso una serie di movimenti ben precisi. In primo luogo, la necessità di accondiscendere alla volontà di Dio corrisponde all’osservare l’obbedienza e l’esercizio dell’obbedienza va praticato nei confronti dei nostri simili: di mio marito, di mia moglie, dei miei genitori, o di coloro che in generale, mi sono superiori. L’obbedienza non è infatti un precetto riservato solamente ai religiosi, ma deve pervadere la nostra vita di ogni giorno, e tradursi nel dire sì nelle mille e una occasione di obbedienza che ci capitano durante la giornata.
Osservare l’obbedienza significa liberarsi dall’egoismo, dall’orgoglio, da quella vanità che ci spinge a volere essere arbitri della nostra vita e a volere fare tutto a nostro piacimento. Quanto superficiale, vana e insussistente è, nelle parole della Madre, questa volontà ostinatamente individuale, questa fede nelle nostra capacità di scelta e d’arbitrio, tanto che ella ne parla come scaturita da una concezione di vita corrotta! In secondo luogo, l’abbandono alla volontà di Dio passa attraverso l’abbandono di ogni pretesa di merito, nel rifiutare la logica di successo insuccesso. Finché rimaniamo nella sferra di successo insuccesso rimaniamo infatti sempre nella logica della vanagloria dell’io.
E in un brano assai famoso:
In terzo luogo, infine, l’abbandono alla volontà di Dio si realizza attraverso la rinuncia del frutto degli atti. Occorre rompere la logica che vede ogni mia azione legata al suo risultato. Bisogna invece agire senza badare affatto a quali saranno i frutti dell’azione, ai risultati.
L’abbandono totale si presenta però anche in un altro aspetto molto importante: un altro aspetto in cui ci distacchiamo dall’io psicologico ordinario per pervenire ad uno stato più profondo del nostro essere L’abbandono totale riguarda infatti anche il farsi vuoti della volontà quando essa si presenta come volontà di presa e di dominio concettuale, e dunque è distacco dalla propria ragione. Talvolta infatti Madre Teresa accanto all’espressione "total surrender" usa anche quella di "blind surrender".
Questa è la vera povertà spirituale: rinunciare anche alla nostra volontà di dominio che si esplica attraverso il nostro voler sapere, il nostro conoscere. Sull’esempio di Gesù, anche noi dobbiamo farci poveri non solo materialmente ma anche spiritualmente. Lasciamoci ancora guidare dalle parole di Madre Teresa.
Diventa chiaro così che l’abbandono totale significa l’annullamento, l’arresa del nostro io ordinario, di tutti i suoi appigli con cui si aggrappa al mondo e cerca di arginare la paura per il fluire senza fine del mondo. Ma la nostra nullità e l’assenza di fondamento dell’io psicologico non devono spaventarci; anzi, questo inoltrarci nel vuoto di fondamento ci conduce alla scoperta di qualcosa di più profondo che è la sola nostra forza. Madre Teresa è molto chiara e insistente su questo punto.
La Madre ripete questa verità instancabilmente:
Questo completo svuotamento di sé che si realizza nel "total surrender" non è altro che l’apice dell’esperienza mistica dell’Uno. Madre Teresa insiste senza posa su questo passaggio obbligato: quando svuotiamo il nostro se da tutti i contenuti, il divino non può fare a meno di colmarci. Si tratta di un processo immediato, automatico. Eppure, l’io è sempre "pieno" come ci ricorda Madre Teresa. Il particolarismo psicologico oscura inesorabilmente l’unità divina. Quando l’uomo invece si distacca da sé stesso, allora non trova più separazione tra sé stesso e le cose, tra Dio e tutte le cose; si cancella infatti l’alterità dell’essere, si entra nell’Uno e nella pace. Se pensiamo a questo difficilissimo percorso del distacco a cui l’uomo deve sottoporsi attraverso il surrender, è impossibile non ricordare l’analogo tema dell’arresa nelle correnti indiane della Bhakti. Il totale abbandono del nostro sé – del nostro apparato psichico ordinario – è reso più facile infatti, quando si stabilisce una relazione al trascendente. Il Bhakti Yoga, o la pratica dell’unione attraverso la devozione, è una disciplina emozionale largamente diffusa ancor oggi in India tesa a far sì che tutte le nostre energie siano concentrate e focalizzate sul Signore da servire e da amare in ogni nostro atto, pensiero e parola. Secondo questa pratica spirituale, ogni azione che l’uomo intraprende è dovuta per volere di Dio, deve essere compiuta come servizio a Dio, deve essere eseguita per amore di Dio e attraverso quell’energia vitale che è essenzialmente Sua e non nostra. Attraverso questa pratica devozionale, che è soprattutto una tecnica di sviluppo spirituale, ogni attività che intraprendiamo per assolvere ai nostri doveri nel mondo e la fatica del nostro lavoro diventano, essi stessi, un rituale sacro offerto a Dio il quale finisce per sostituire il nostro piccolo io in quanto centro di affermazione. La disciplina dell’abbandono aiuta e favorisce, dunque, il processo di svuotamento e il progressivo annullamento dell’egocentrismo. D’altronde va ricordato che l’annullamento dell’io psicologico, del nostro piccolo io determinato da questa specifica esistenza, da tutti legami che intesse senza posa dalla sua nascita alla sua morte e oltre, è il grande obbiettivo della visione del mondo induista. Parlo di visione del mondo, perché per la civiltà indiana, religione e filosofia non possono esistere in maniera separate. La conoscenza è sempre saggezza e via di liberazione (moksa). Per questa antica e profonda saggezza che affonda le sue radici nel samkhya e nello yoga per passare poi alla dottrina non dualista del vedanta, la molteplicità e la separazione delle cose non sono altro che un prodotto del nostro apparato psichico, della mente empirica – distintiva e analitica – che gli indiani chiamano ahankara, abhimana, proprio per distinguerla dal sé profondo o atman che si nasconde nella grotta più interna e più profonda di noi stessi. Tacitare il nostro io, significa non essere più schiavi e tormenti dagli alterni rapporti con le cose esterne, cioè spezzare le catene del samsara (del ciclo perenne del divenire, dell’eterna catena di causa-effetto-causa), ma raggiungere una pace interiore e finalmente riconoscere l’essenziale unità del tutto e di noi stessi in Dio. Se si spezzano così le catene dell’ignoranza, non c’è più separazione tra ciò che è mutevole e ciò che è eterno, tra sacro e profano, ma tutta la realtà è una, tutto il mondo è uno. Agire qui e ora in questo mondo e realizzare la salvezza o la santità , sono un’unica e medesima cosa. Per questo tanto Gandhi che Madre Teresa sono considerati in India due grandi anime Mahatma che si sono completamente dedicate all’azione. Non avrebbero potuto fare altro. Agire nel mondo, servendo gli altri come essenza della santità – questa è precisamente la grande lezione del Karma Yoga (lo Yoga dell’azione) che Gandhi ha fatto propria e che Madre Teresa ha saldato alla sua carità cristiana. Per questo in India ambedue sono chiamati Karma Yogi (coloro che hanno realizzato l’unità attraverso l’azione). Ed è per questo che l’abbandono totale non può che sfociare necessariamente nell’azione a cui Madre Teresa si dedicò tutta la vita – che è servizio libero, offerto con tutto il cuore ad ogni nostro prossimo – "Wholehearted free service to the poorest of the poor". Il servizio totale significa operare sempre per il bene quando il bene degli altri è diventato molto più caro del nostro proprio, quando è annientato qualsiasi interesse personale e qualsiasi autocompiacimento nel risultato; quando il nostro essere è diventato uno con l’essere divino. L’amore è infatti questa condizione di apertura senza fine, che si traduce naturalmente nel qui e nell’ora o come diceva Madre Teresa in ventiquattro ore su ventiquattro della nostra quotidianità, nell’operare servendo gli altri.
Nota Bibliografica Riportiamo qui di seguito una bibliografia essenziale e in lingua italiana su Madre Teresa. Oltre ai numerosissimi volumi dedicati alla vita e all’opera di Teresa di Calcutta pubblicati da vari autori, anche i volumi che riportano le trascrizioni dei discorsi della Madre sono inseriti secondo il nome del curatore (abbreviato ed.), dal momento che è importante sottolineare che Madre Teresa non ha mai scritto alcun libro.
Note (1) Queste
note si inseriscono in una riflessione più ampia sull’intuizione spirituale
di Madre Teresa di Calcutta a cui mi permetto di rimandare il lettore per un
approfondimento di tutti quei temi che sono solo brevemente accennati in questa
sede. Cfr. G. Germani, Il pensiero di Teresa di Calcutta. Una mistica tra
Oriente e Occidente, Paoline, Milano, 2000.
Da: http://www.doncalabria.it/rsc/1_2002/germani.htm
|
|