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L'Uno è tutte le cose (dalle Enneadi di Plotino)
I. L'Uno è "tutte le cose" e
al tempo stesso non è neppure una di esse; principio di tutto, voglio dire, non
è "tutte le cose" in una maniera qualunque ma è tutto in una maniera
trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte devono trovarsi come dopo una corsa;
o, meglio le cose non si trovano ancora nell'Uno, ma vi si troveranno. Come
possono allora derivare dalla semplicità dell'Uno, mentre in una pura identità
non si può mostrare mai nessuna varietà, nessuna piegatura, quale che sia,
assolutamente? Orbene, proprio perché nulla fu mai in lui, proprio per questo,
dico, tutto deve sgorgare da lui; anzi, affinché l'essere sia, per questo Egli
non è "essere", ma solo il genitore dell'essere; e questa che vorrei chiamare
"genitura" è primordiale. Mi spiego; perfetto com'è, giacché nulla ricerca,
nulla possiede, di nulla ha bisogno, Egli trabocca, per così esprimerci, e la
sua esuberanza dà origine a una realtà novella; ma l'essere così generato si
rivolge appena a Lui ed eccolo già riempito; e, nascendo, volge il suo sguardo
su di se stesso ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo fermo orientamento
verso l'Uno crea l'Essere; la contemplazione che l'Essere volge a se stesso crea
lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per contemplarsi, deve pur stare orientato
verso se stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed Essere. Così, dunque,
l'Essere è un "secondo Lui" e perciò crea ciò che gli è simile, versando fuori
la sua forza esuberante; ma, immagine, anche questa, dell'Essere corrisponde a
Colui che già prima dell'Essere s'effuse. E questa forza operante che sgorga
dall'Essere è "Anima" che diviene quello che è, mentre lo Spirito è fermo;
poiché anche lo Spirito sorse mentre "Ciò che era prima di Lui" perseverava
nell'immobilità.
I. Se c'è "qualcosa"
ulteriormente al Primo, necessità vuole ch'esso o derivi da Lui, immediatamente,
o si rifaccia a Lui per via di intermediari; esiste, così, un ordine di "cose di
secondo grado" e un ordine di "cose di terzo grado": l'uno risale al Primo - è
il secondo, s'intende -, il terzo poi risale al secondo. Sì, ciò che è di tal natura non può esser altro che Uno; ché, se ve ne fosse un "altro" di simigliante natura, l'uno e l'altro coinciderebbero. Qui, beninteso, noi non ci riferiamo a due corpi, né diciamo che l'Uno è il primo corpo! In verità, nulla che sia semplice può essere corpo; e il corpo, poi, è qualcosa che diviene, ma non può mai esser principio; il principio, per contro, è ingenerato. Se, dunque, quell' "altro" non è corporeo ma è realmente uno, esso coincide col Primo. E allora, se dopo il Primo, ha da esserci qualcosa di diverso, mai più questo sarà semplice; sarà, di conseguenza, "uno-molti". Orbene, donde nasce questo "secondo"? Dal Primo. Certo non potrebbe nascere a caso, perché allora non sarebbe più "principio di tutte le cose" quel nostro Primo! Ma in qual maniera, allora, il secondo nasce dal Primo? Ecco, se il Primo è perfetto, anzi il più perfetto al mondo, se esso è la primordiale forza operante, urge, allora, che esso sia, tra gli esseri tutti, il più perfetto e che tutte le altre forze operanti, a tutto potere, imitino Lui.
Qualsiasi, tra le restanti
cose, giunta che sia alla sua piena maturità, genera - noi lo vediamo - e non
sopporta una immota solitudine, in se stessa; ma crean tutti un essere novello,
non solo chi abbia una volontà consapevole, ma quelli ancora che, senza volontà
consapevole, vegetano semplicemente, e persino gli esseri inanimati cedono
altrui, di sé, tutto quello che possono: ad esempio, il fuoco riscalda e la neve
raffredda e le medicine esercitano una efficacia corrispondente alla loro
propria natura su di un essere diverso: tutte le cose, assolutamente, sono copie
più o meno fedeli che si dispiegano in eternità e in bontà.
E perché non è generante lo
Spirito, quello Spirito il cui atto è pensiero? Ma il pensiero contempla
l'oggetto dello Spirito ed è volto su di questo e da questo è come perfezionato
e compiuto: tale pensiero è indefinito come il vedere, e viene definito solo
dall'oggetto dello Spirito! Perciò poi fu anche detto: "dalla dualità
indefinita" e dall'Uno escono le Idee e i numeri: vale a dire lo Spirito. Ecco
perché lo Spirito non è semplice ma è "molte cose" e rivela già una composizione
di natura spirituale, s'intende - e contempla oramai la pluralità. Certo, egli è
anche, in se stesso, oggetto di pensiero e, nondimeno, altresì soggetto
pensante: e quindi comporta già una dualità; ma vi è ancora dell'altro: la
realtà spirituale che viene dopo di Lui. Proprio così è anche nel mondo superno; lassù, anzi, a più forte ragione: mentre l'Uno persevera nel suo proprio modo di essere, la forza operante, nata com'è dalla perfezione e dalla congiunta forza operosa ch'è in Lui si ipostatizza appunto perché sorge da una potenza enorme - la suprema, certo, tra tutte - e giunge sino alla vetta dell'essere e dell'essenza; poiché l'Uno era al di là dell'essenza. Precisiamo: l'Uno è la potenza del Tutto; il generato, invece, è già il Tutto. Ma se questo è il Tutto, Quegli è al di là del Tutto; di conseguenza, al di là dell'essere. Inoltre, se lo Spirito è tutto, l'Uno invece è anteriore a tutto e non ha quindi una unità di misura comune con tutte le cose e così, anche per questa considerazione, Egli vuol essere al di là dell'essenza; tant'è dire al di là pure dello Spirito. Si conclude che al di là dello Spirito c'è "qualcosa". Francamente, l'essere non è un cadavere e neppure una "non-vita" e neppure "uno che non pensi". Così Spirito ed Essere coincidono. Mi spiego: tra le cose e lo Spirito non corre lo stesso rapporto che c'è tra la sensazione e i sensibili - i quali la precedono -; no, ma lo Spirito coincide con le cose, dal momento che le loro forme ideali non sono acquisite ma immanenti; poiché donde potrebbero acquistarsi? Qui solamente, tra questi oggetti dello Spirito, regna una vicendevole identità ed unità. Del resto, anche la scienza delle cose immateriali, presa nel suo complesso, si identifica col suo contenuto reale. Enneade V, 4 - I - II - Ibid.
Ora, come può uno essere nel
bello e tuttavia non vederlo? Ecco: fino a che uno vede il bello come altro da
sé, non è ancora nel bello costui; se invece è divenuto bello, allora soltanto,
egli si trova, al più alto grado, nella bellezza. Se pertanto il vedere si
riferisce a ciò che sta fuori, non vuol essere visione, questa, se non sia tale
da identificarsi con la cosa vista: ma questa è, per così dire, intelligenza e
coscienza di sé, e qui si deve fare attenzione a che non si corra il rischio di
allontanarsi da se stesso, proprio mediante una più intensa coscienza! Occorre
pure riflettere al fatto che le percezioni di cose cattive ci colpiscono più
violentemente e indeboliscono la conoscenza che viene sbalzata fuori dai loro
urti: una malattia, ad esempio, ci inebetisce; la sanità invece, benché
tranquilla compagna, sa farsi avvertire di più poiché essa sta in noi, come a
casa sua, al primo posto, anzi s'unifica con noi, mentre la malattia è
un'estranea e non è appropriata al nostro essere ed è visibilissima proprio per
questo che si manifesta violentemente diversa dal nostro essere. Enneade V, 8 - XI - Ibid.
XII. [...] Ma almeno ciò, che è in senso assoluto quello che è - Essere in sé - e non è distinto dalla sua essenza, in questa situazione è proprio quello che è, vale a dire padrone di sé e privo di ogni ulteriore orientamento su altrui, in quanto è e in quanto è essenza. A lui, d'altronde, fu dato esser padrone di sé su la via ov'Egli è "Colui che è il Primo". Su la via che conduce all'Essere. Ora, Quegli che rende libera l'essenza, Quegli che ha insita, con piena evidenza, nella propria natura, l'opera della liberazione sino ad essere detto "creatore di libertà", a chi mai dovrebbe far da servo? Purché non sia già sacrilegio esprimersi così persino in una maniera generale! Forse alla sua propria essenza? Intanto, anche questa è libera solo in grazia di Lui ed è posteriore a Lui; e poi non ha essenza, Lui! Così, se c'è in Lui qualcosa sul tipo dell'atto e noi vogliamo far consistere Lui in tale atto, neppure per questa via Egli riuscirebbe diverso da sé, e non sarebbe padrone di sé Colui donde l'atto scaturisce, poiché non sono cose diverse l'atto e Lui stesso. Ma se non vogliamo proprio ammettere che ci sia un atto, in Lui; se dobbiamo, per contro, riconoscere che solo le altre cose si attuano intorno a Lui e conquistano così l'esistenza, a maggior ragione ancora non dobbiamo ammettere lì, nell'Uno, né un elemento che domina né un elemento dominato; a rigore, anzi, non gli concederemo neppure l'attributo "padrone di sè" non perché un altro sia padrone di Lui ma perché noi assegnammo il dominio di sé all'Essere e collocammo invece Lui in un grado più alto di quel che corrisponde a questo auto-dominio. Ora, che significa questa espressione "in un grado più alto di quel che è padrone di sé"? Ecco: lì, in seno all'Essere, essenza ed atto sono, in un certo senso, dualità - dall'atto stesso ognuno poté trarre l'idea dell' "esser padrone" (quest'atto, beninteso, è identico all'essenza) -; proprio per questo fatto fu preso separatamente "l'esser padrone", e, l'Essere fu detto "padrone di sé". Allorché, invece, non c'è una dualità in valore di unità ma proprio l'unità in se stessa - cioè o esclusivamente atto o qualcosa che non è neppure atto - anche l'espressione "padrone di sé" non è giustificata. XIII. Frattanto, se è necessario introdurre queste espressioni che si applicano in modo inesatto all'oggetto della nostra ricerca, si ribadisca ancora una volta che ben a ragione si afferma l'esigenza di non renderlo dualità neppure per successiva astrazione mentale; per il momento, però, solo per destare la persuasione, c'indurremo persino ad uscire dal retto cammino della logica, nel nostro discorso.... Enneade VI, 8 - XII - XIII – Ibid.
Da: http://www.montesion.it/_montesion/Montesion.html
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