"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
L'anima del cosmo sensibile è congiunta
al suo corpo per sempre e inscindibilmente: poiché l'Universo è una totalità,
essa né vi discende né se ne separa, ma gli conferisce una vita perenne e una
infinita durata. Perciò il mondo non ha avuto principio né mai avrà fine. Ma le
anime individuali, in quanto costituiscono cicli definiti di vita chiusi dentro
una nascita e una morte e sono congiunte per un certo tempo a una porzione di
corporeità, rappresentano «episodi» diversi della vita universale e molteplici
destini, ognuno dei quali non è apparenza fugace e insignificante, ma ha il suo
fondamento metafisico nell'essere eterno e nella serie delle vite antecedenti
cariche di morali responsabilità. Soltanto l'anima individuale discende nel suo
corpo; ma tale discesa non è dovuta a una colpa o a un caso irrazionale, bensì
alla necessità cosmica che governa con la sua legge la gerarchia degli esseri e
il processo della divina generazione. Il pensiero platonico a questo proposito,
ancora involuto nelle narrazioni mitiche del Fedro e del Timeo e oscillante tra
posizioni speculativamente immature, trova finalmente nella struttura metafisica
della dottrina plotiniana il suo sbocco definitivo. La vita dell'anima nel corpo
per Platone significava quasi sempre un fenomeno eccezionale e pressoché
anormale e contronatura, mentre in Aristotele era semplicemente l'espressione di
un normale processo fisiologico e biologico estraneo a qualsiasi superiore meta
sovrasensibile e a qualsiasi significato escatologico: in Plotino essa, se da un
lato vuol significare l'attuazione di una legge cosmica per la quale la vita si
disperde necessariamente nella molteplicità spaziale e corporea, dall'altro
rivela insieme l'attuazione di una profonda legge morale che nelle vicende della
generazione terrena compie, per vie segrete e lontane dalla consapevolezza dei
singoli, l'opera di una eterna Giustizia.
Il male non è realtà sostanziale ma è privazione che accompagna il mondo
fenomenico, opera dell'anima. Ciò significa, in altri termini, che il male non
inerisce all'anima e che l'anima non è malvagia in se stessa. Se l'irrazionale
sembra turbare il divino ordine dell'universo, se il mondo appare agli occhi
nostri come il teatro di drammi sanguinosi, di guerre e di odi infiniti, e la
discordia essere veramente la legge del nostro mondo sensibile, è vero però che
l'anima, che appartiene all'ordine delle realtà ipostatiche, è radicata
nell'essere, da cui deriva e a cui tende. Ma il male è non-essere. Non l'anima è
nel corpo, ma il corpo è nell'anima e per l'anima, di cui rivela l'intima
potenza demiurgica nello spazio e nel tempo; e l'anima, se da un lato discende
nel suo corpo con la sua potenza inferiore, dall'altro rimane in immediato
contatto con l'Essere e lo Spirito. Perciò il corpo è per lei strumento e fatale
necessità: in quanto il corpo è da lei e in lei, essa lo domina o plasmandolo
inconsciamente attraverso le ragioni seminali o subordinandolo consciamente alle
superiori esigenze di una norma ideale; in quanto è l'ultimo riflesso di un
processo necessario, l'anima lo trova accanto a sé e di fronte a sé come
un'ombra fatale che lo accompagna e in cui ritrova l'espressione della sua
individualità caduca, emergente dal nulla e destinata a piombare nel nulla.
Ma tra l'anima e il corpo non c'è affinità, come non c'è tra la luce e le
tenebre, tra l'essere e il non-essere; l'anima individuale, dice Plotino, è
sorella dell'anima universale: è portata cioè a trascendere la sua circoscritta
vita corporea per vivere, in una serie indefinita di esistenze, una vita sempre
più vasta e comprensiva, ed è capace di formarsi una coscienza cosmica e di
sperimentare il senso panico della realtà infinita che da ogni parte la
circonda. Ma non si limita a questo l'affinità dell'anima. Poiché l'Uno e lo
Spirito sono onnipresenti non meno dell'Anima universale, l'anima individuale
può tendere ad essi poiché li trova nella sua individualità allo stato latente,
come le condizioni assolute della sua esistenza e come i fini della sua azione e
del suo pensiero.
Tale è dunque la posizione dell'anima individuale tra i due limiti estremi della
realtà. Da un lato l'Uno inconoscibile, Potenza assoluta che sopraffà il
pensiero con la sua infinità e che il pensiero può sperimentare in un atto
ineffabile rinnegando le sue capacità razionali; dall'altro la materia,
tenebroso e irrazionale fondo delle esistenze, indefinibile non-essere, da cui
emergono le cose determinate e particolari che sono misteriosi destini senza una
causa palese e una funzione positiva. Tra queste due «irrazionalità» vive ed
oscilla l'anima, ed ognuno dei due limiti estremi segna la morte del suo
pensiero: da un lato è lo «scacco» del suo desiderio di conoscenza, dall'altro è
il gorgo del nulla. Le posizioni speculative di Jaspers e di Heidegger sembrano
precorse insieme dal sistema plotiniano: ed in effetti non sarebbe privo di
interesse indagare questi remoti accenni. Ma la compresenza in Plotino delle due
posizioni, nella fondamentale struttura del sistema, è insieme l'anticipata
confutazione dell'«angoscia» esistenzialistica nelle sue estreme conclusioni.
Tra questi due limiti infatti l'anima conosce l'Essere, le eterne immobili
essenze delle cose, le eterne inderogabili leggi del nostro mondo. Entro questo
trasparente e luminoso cosmo noetico l'anima possiede una inconcutibile certezza
contro cui s'infrange ogni scettico assalto. Eppure, se questa è vera
conoscenza, obbiettiva e universale, dell'essere, se qui la sapienza sembra
essere immoto possesso, non ora si ferma l'itinerarium dell'anima. Il Reale nel
suo originario fondamento non è concepito in termini di conoscenza, di oggetto e
soggetto, ma come assoluta unità e bene interiore che intendere non può chi non
lo prova; né d'altra parte il pensiero, definito, come vedremo, quale desiderio,
trova pace fino a che non abbia superato le definizioni e le discriminazioni
logiche della sua attività razionale e non si neghi in una mistica Oscurità che
non ha nome. Scacco del pensiero, dunque? Sì, ma purché non si dimentichi che lo
stesso pensiero è invocato a preparare il suo stesso fallimento per riconoscere
e al di là di sé e dentro di sé il trionfo della Vita infinita e delle eterne
Forze, come razionalità gaudiosa. Il pensiero tace, non perché atterrito al
cospetto di una tenebrosa Potenza, sorda ed ostile, ma perché acquietato in una
pace profonda, dove il parlare è vano.
Altrettanto è l'atteggiamento dell'anima di fronte all'estremo limite
dell'assoluta negatività. Le apparenze fenomeniche che emergono dal vuoto
tenebroso spazio non hanno consistenza che agli occhi nostri e non esistono pel
pensiero che conosce soltanto ciò che è intelligibile e invisibile e puro. La
conoscenza essenziale lascia fuori di sé tutto quel fondo esistenziale che
sembra venire dal nulla e ritornare nel nulla, come un assurdo residuo che è ma
non dovrebbe essere. E in realtà, il pensiero non può sentirsi che sgomento di
fronte alla morte inesorabile che annienta ad ogni istante la vita e le
individualità nate per avere un loro nome soltanto per breve tempo. Ma anche qui
la luce dell'essere e dello spirito, a cui l'anima è, con la sua parte
superiore, eternamente intesa, impedisce questa tremenda disperazione. La
certezza razionale con cui l'anima possiede l'essere che è Valore e Verità, come
le rende impossibile di concepire l'Assoluto in termini di inumana
irrazionalità, essendo l'Uno fonte di quell'Ordine razionale da cui essa prende
coscientemente le mosse, così la tiene lontana dalla disperazione di fronte
all'inesorabile divenire delle cose, poiché essa sa che di quell'Ordine
razionale le cose transitorie sono immagini e simboli, ultimi deboli chiarori di
una Luce inestinguibile. L'ipostasi del Noûs (che è Essere e Razionalità eterna)
a cui l'anima è eternamente sospesa, le vieta qualsiasi follia metafisica:
poiché se in un punto solo del reale si è manifestata la luce dell'Idea
razionale, non può più il pensiero sconfessarla, ma dovrà da quella risalire al
Principio, concependolo come generatore di ogni razionalità e perciò non opposto
ad essa anche se inafferrabile e impensabile; e da quella, ancora, discendere
alle apparenze fenomeniche considerandole sue manifestazioni transeunti, non
essendo possibile che dal razionale derivi l'irrazionale, dall'essere il nulla.
Ciò non toglie che l'anima oscilli fra due estremi che non sono due idee, ma due
sentimenti: il gaudio ineffabile e l'angoscia senza nome. Ma il gaudio è per chi
sia arrivato, attraverso il Noûs, alla sommità della Vita; l'angoscia per chi,
oblioso della propria intelligenza, sia rimasto attonito a mirare fuori di sé la
vicenda delle esistenze come se essa fosse l'unica realtà. Nel sentimento, non
in un'idea, l'anima tocca il fondo di se stessa e si congiunge con se stessa;
nel sentimento è la risonanza profonda dei limiti raggiunti nella più completa
tensione del suo desiderio; e solo in esso l'anima coglie e vive
l'incomunicabile estremo senso della sua vita.
Tra i due limiti della realtà l'anima può dunque oscillare compendiando in sé
tutto l'Universo e rendendo possibile la continuità e le relazioni tra le
ipostasi che, in sede puramente metafisica, sembravano pregiudicate. Perciò
l'anima individuale è definita coi termini del più esplicito dinamismo: essa non
è intuizione immediata del Vero, ma perenne discorsività che procede
faticosamente di cosa in cosa, di pensiero in pensiero, di ragionamento in
ragionamento; il suo stesso pensiero è definito come desiderio e ansia di
conoscenza e di unità interiore, e quindi come tensione che non si appaga in
nessuna determinata conquista; essa è amore, eros, che incessantemente si
sacrifica per ritrovarsi nella cosa amata e che in una perenne vicenda di umani
contrasti cerca di adeguarsi all'eterno Oggetto della sua devozione. Il suo
movimento è duplice: essa può rivolgersi alla realtà inferiore, apparente e
transitoria, e può elevarsi a superiori altezze, allo Spirito, all'Uno. Può, in
altre parole, obliarsi per disperdere il suo sguardo interiore verso
l'esteriorità, dove le forme sensibili incantano e inabissano l'incauto nei
vortici di un divenire inesorabile; e può, vincendo l'incantesimo, raccogliersi
in se stessa, ritornare alle sue profondità e lì attingere l'Assoluto che è
unità e pace silenziosa.
Ma i due movimenti non hanno la stessa forza: il movimento verso la realtà
inferiore è istintivo e fatale, perché le cose fenomeniche ed esterne sono il
primo dato immediato che si presenta all'anima, e l'anima è portata a credere ad
esse per quella stessa legge cosmica che regola il processo discendente della
divina generazione. La realtà superiore, al contrario, non è un dato immediato;
e benché essa sia presente nel fondo oscuro dell'anima come sua potenzialità
indefinita, è necessario che l'anima, con un atto di libertà, consideri come
realtà inferiore e relativa quella che prima aveva ritenuto per unica vera e,
vincendo eroicamente il fascino del sensibile, creda più fortemente
all'invisibile e se ne crei un'intima persuasione.
Perciò se discendere è per l'anima, come per l'Uno, necessità indimostrabile e
indeducibile, il salire, che per l'Uno non ha significato, è per l'anima
individuale opera di libertà e insieme di liberazione. Ma esser liberi non vuol
dire affermare il proprio arbitrio costruttore e possedere la velleità di
edificare un mondo soggettivo sopra convenzioni e capricci personali: chi
costruisce tali mondi arbitrari può illudersi di essere libero in quanto può
credere di porsi al di fuori e al di sopra della realtà, mentre in effetti è
vittima della sua potenza inferiore che lo incalza non fuori, ma verso i margini
estremi della Vita universale: poiché nulla può uscire dai confini dell'essere.
Esser liberi vuol dire realizzare il proprio destino, e cioè ritrovare se stessi
e ricongiungersi con se stessi non fuori dell'Assoluto, ma in esso e con esso.
La libertà non contraddice alla Necessità metafisica, ma si identifica ad essa:
perciò l'uomo è veramente se stesso, e cioè libero, soltanto quando abbia saputo
eliminare da sé ciò che prima lo estraniava all'Assoluto nel quale vive e
respira. Altra libertà non è permessa all'anima. Noi concepiamo nell'Uno una
illimitata potenza creatrice; ma non possiamo concepire altrettanto di noi
stessi, perché noi non siamo l'Assoluto. Perciò la libertà ha significato
soltanto se essa non sia sospesa sulla assoluta mancanza di valori
trascendentali, ma sia condizionata dalle reali ipostasi (lo Spirito, l'Uno),
nella cui libera accettazione da parte dell'anima si compie la sua sorte divina.
Così si riconsacra definitivamente in Plotino il peculiare atteggiamento
teoretico del genio ellenico, che nella scoperta e nella contemplazione di un
Cosmo ideale celebrava se stesso e il suo vanto migliore.
Ora, le vie dell'anima sono numerose, come molteplici sono i piani della realtà:
in esse si esprime la ricchezza inesauribile della Vita universale e insieme per
l'anima la possibile scelta di un destino tra destini innumerevoli: o la vita
avvolta nei piaceri, intesa agli incantamenti delle belle forme caduche,
trascinata da un oscuro istinto alla generazione di nuovi individui destinati
alla morte; o il sogno di potenza e di gloria, che si illude di placare
l'infinito desiderio interiore scatenando guerre sanguinose e calpestando ogni
diritto umano; o l'ansia di fissare per sempre nei marmi, nei ritmi o nei colori
fugaci fantasmi di bellezza; o la dedizione a una scienza e il disinteressato
amore della verità e delle segrete leggi che reggono il cosmo; o l'aspirazione a
una divina purezza da conseguire attraverso le pratiche misteriche e le più
dolorose rinunce. In ogni destino, per quanto inferiore, freme l'innato
desiderio dell'Uno, che è la condizione prima del pensiero e dell'azione; in
ogni destino l'anima rivela con quanta razionale chiarezza abbia saputo rendersi
consapevole di quel desiderio; ed ogni destino si inquadra nel piano della
Giustizia e dell'Ordine universale, in quanto è castigo o premio di vite
anteriori e porta con sé, a prova della sua imperfezione, una irrequietezza che
non dà pace e urge l'anima verso altri piani di vita fino a che non abbia
raggiunto quella perfetta libertà spirituale che è possesso dell'Assoluto.
Nel suo processo di liberazione l'anima individuale ripercorre le varie tappe
ipostatiche della generazione divina: superando l'angusto cerchio delle sue
esperienze particolari, essa vive della Vita dell'anima universale e acquista la
coscienza cosmica avvertendosi collegata a tutti gli esseri viventi;
oltrepassando i limiti della animazione universale, intuisce l'Essere eterno che
non muta e che fonda l'intelligibilità trasparente e luminosa di ciò che vive;
approfondendo l'intuizione dello Spirito e scendendo al suo intimo centro, essa
raggiunge l'Uno come suprema unità con se stessa. Così l'anima rifà in sé il
processo della divina generazione potenziando al massimo la sua spiritualità
vivente e dinamica: tutto ciò che l'Uno è e che da lui irradia necessariamente
come lumen de lumine si ripete, con processo inverso, nella varietà di
indefiniti destini, per opera delle singole anime e della loro redentrice
libertà. L'Uno rivive nelle anime moltiplicata la sua potenza generatrice...
E così, se la costruzione metafisica delle ipostasi deve ora apparirci
necessario fondamento obbiettivo delle esigenze morali e religiose, è facile
comprendere come essa non abbia un senso e una funzione se non nella vita di
un'anima e che perciò il nucleo essenziale del sistema plotiniano va ricercato
nell'anima individuale e nel suo dramma interiore. L'Uno, lo Spirito e l'Anima
universale non hanno storia: la loro vita si volve al di là del tempo e dello
spazio e beata gode di sé in eterno. Ma alle anime individuali non è dato
posare; incalzate dal desiderio di vivere, errano esse quaggiù avvolte
dall'invisibile presenza del Divino e dello Spirito, eppure agitate da
un'inconscia bramosia di beni apparenti, di possesso e di piaceri. Donde vengono
e dove vanno? Esse non lo sanno ma dovranno saperlo: la loro quotidiana
esperienza, col suo incessante ritmo di angosce e di gioie, di morali esperienze
e di conquiste intellettuali additerà il cammino della redenzione. E sarà questa
l'unica vera storia, in cui si esprima il senso autentico dell'esistenza, in cui
i valori abbiano un reale significato: la storia dell'anima. Altra storia non
esiste: non quella delle nazioni e dei popoli, che sopraffà il destino delle
anime singole ed ha uno spirituale significato solo se, inverandosi in ciascuna
di esse, contribuisca a farle ritrovare la sua interiore libertà e la sua
autonomia incrollabile. La vera storia del mondo è la storia invisibile che
nessuno potrà mai scrivere: storia di destini individuali che si consumano nel
silenzio delle coscienze e non hanno altro giudice fuori della voce interiore.
Così l'eternità si instaura nel tempo, in quanto le ipostasi eterne si
realizzano nell'anima che si redime; e il tempo si svolge nell'eternità, in
quanto l'anima si pone dentro la Legge universale e ne esprime, anche
esteriormente, l'attuazione.
Questo dramma spirituale si svolge dentro l'inquadratura ellenica del «tempo
ciclico» e dell'eterno ritorno; e ciò indubbiamente toglie alla storia delle
anime quella unicità e quella irreversibilità che, solo, possono conferirle un
carattere assolutamente impegnativo e irreparabile e che costituiranno il «tempo
storico» peculiare della concezione cristiana. Ma in Plotino - mi sembra di
poter decisamente affermare - il tempo ciclico non è che un fossile residuo
della vecchia speculazione naturalistica, simile a un vecchio scenario inutile
conservato per un inconscio rispetto del passato, rimasto a servire da sfondo
mitico al vero dramma dell'anima.
La realtà che appare immediatamente ai
nostri sensi è diveniente e fenomenica: muta e si trasforma incessantemente,
nasce e muore, si svolge in un ritmo di opposizioni e non rimane mai identica a
se stessa. La sua amarezza avvelena ad ogni istante la nostra esistenza e la
fascia di terrori e di disperazione, mettendoci al cospetto dell'irrazionale e
della morte. Se questa non è una realtà ma una illusione, come e perché essa
emerge dal nulla di fronte a noi? E se essa è reale, come è possibile
conciliarne l'irrazionalità con le divine eterne ipostasi? L'Uno, Io Spirito,
l'Anima sono eterni, immutabili, invisibili, sono al di là del tempo e dello
spazio e non conoscono né il nascere né il morire. Non sembra perciò che il
divenire sensibile derivi da essi. Nella sfera inferiore all'anima universale
vivono gli indefiniti individui, ognuno con le sue caratteristiche irriducibili
e le sue peculiari qualità dovute alle ragioni seminali; ma le ragioni seminali
non derivano da una materia, ma procedono dall'anima e si estrinsecano nello
spazio nella complessità dei colori, dei sapori, degli odori, delle forme
sensibili che costituiscono la ricchezza del nostro mondo fisico. Queste qualità
appaiono a noi, ma non sappiamo se per effetto di una realtà materiale esterna,
dinanzi alla quale noi saremmo passivi, oppure se esse siano una produzione
dell'anima. Nel primo caso noi dovremmo ammettere, oltre le tre ipostasi, una
nuova realtà sostanziale capace di agire su di noi e di produrre in noi le
sensazioni; e l'anima nostra perderebbe il suo valore spirituale diventando cosa
tra cose, esposta agli urti meccanici dei corpi. Ma noi sappiamo che la realtà
sostanziale e divina finisce con l'anima: il visibile, che nell'opinione dei
molti rappresenta il vero essere, non esiste se non in relazione ad altro, ed ha
la stessa consistenza dell'immagine. Le sensazioni non sono passioni dell'anima,
ma suoi atti, e non esigono perciò una causa produttrice esterna; esse emanano
dall'anima di cui sono proiezioni nell'esterno e ne esprimono la molteplice
potenzialità. L'anima in quanto ultima ipostasi non genera una nuova ipostasi;
ma poiché essa è pur sempre potenza generatrice, si estrinseca in un mondo
fenomenico e spaziale che non ha consistenza se non nell'anima che lo produce e
alla quale esso è sospeso. Questo mondo che noi chiamiamo materiale non sussiste
dunque in se stesso, ma solo come espressione visibile di indefiniti centri di
vita invisibili.
Ora, la materia non è ciò da cui derivano le cose, ma ciò in cui appaiono le
nostre sensazioni e le sensibili estrinsecazioni delle anime e delle ragioni
seminali. Essa è il luogo delle apparenze fenomeniche ed esiste con esse ma non
è identica ad esse; ma poiché i fenomeni sono opera dell'anima, anche la materia
è, in ultima analisi, opera dell'anima, non certo come cosa sostanziale, ma come
necessario luogo ideale delle sue possibili sensazioni. Sentire implica un'alterità
come l'intelligere. E come nello Spirito il pensante e il pensato non sono fuori
l'uno dell'altro ma costituiscono la unità vivente del cosmo noetico, così
nell'anima, che è immagine del Noûs, il sensiente e il sentito non sono due
realtà, ma i due intrinseci aspetti de la sua vita unitaria. Nello Spirito
soggetto e oggetto si identificano in una silenziosa interiorità; nell'anima
invece si sdoppiano in modo che l'oggetto appaia esterno ad essa e il soggetto
si disperda nell'oggetto illudendosi di trovare in esso una concreta sostanziale
realtà. Le esistenze divenienti e transitorie sembrano dunque emergere da un
«fondo tenebroso» che si contrappone all'anima, come se esso fosse la materia
che le costituisce, mentre in effetti esso non è che uno spazio ideale e
indefinito che sussiste nell'anima e per l'anima e che soltanto per un'illusione
trascendentale può essere considerato come sussistente in se stesso. In questo
senso Plotino dichiara esplicitamente che la materia non è separata localmente
dall'anima, ma che è nell'anima così come l'anima è nello Spirito e lo Spirito
nell'Uno; che essa non è separata dalle idee, ma ne rivela, per tramite
dell'anima, un vestigio, mirabile agli occhi nostri; e che perciò essa è sempre
illuminata, non essendo possibile che rimanga fuori dell'anima, come realtà a sé
e come tenebra assoluta. E ancor questo egli intende significare quando a più
riprese afferma, in un modo che potrebbe sembrare mitico, che l'anima, a
differenza del Noûs, discende «quaggiù», cioè si dispiega necessariamente nel
mondo delle sensazioni e delle apparenze fenomeniche.
Intesa così la materia e impostata in tal modo nel complesso sistema plotiniano,
è ovvio che una sua definizione si renda impossibile dal momento che il pensiero
non può definire ciò che per essere definito richiede l'allontanamento e la
negazione di ogni determinazione logica e sensibile. Come nella tentata
definizione dell'Uno Plotino «conduce al limite» la tensione del pensiero nel
vano sforzo di circoscrivere logicamente l'Ineffabile, che è assoluta Potenza e
Trascendenza, così ora con minore tensione intellettiva egli tenta di far
intuire ciò che è assoluta potenzialità e assoluto non-essere.
Gli attributi dell'Uno - Bene, infinità, Principio, Primo, libertà assoluta,
ecc. - non erano intesi come predicati di qualche cosa, ma come la natura stessa
dell'Uno; ora gli attributi della materia non saranno considerati come qualità
inerenti a un substrato reale, ma come la natura stessa della materia che è
assoluta negatività. Vana tensione voler definire e comprendere i limiti estremi
del reale: il nostro pensiero non è che un episodio in seno a l'Assoluto e sta,
mediano, tra il tutto e il nulla; e se esso è impotente a comprendere l'Uno
perché è da esso «compreso», altrettanto disorientato si trova quando vuol
ficcare gli occhi nel fondo di quello spazio misterioso da cui emergono le
esistenze, poiché l'ipotesi di un nulla sarebbe assurda dal momento che l'essere
è. La materia è sì dunque la tenebra in cui si disperde la potenza diffusiva
della Luce prima, ma non come la tenebra che esiste in un certo luogo della
nostra casa fuori della quale è la luce. La materia è menzogna come è menzognero
il pensiero che volesse affermarla come reale ipostasi. Perciò le attribuzioni
che il pensiero potrà via via determinarle non intendono costruire un mondo
tenebroso contro il regno dell'essere ma soltanto porre in risalto i limiti del
nostro pensiero e le immanenti possibilità dell'anima nostra, definendo
chiaramente l'ambito della sua attività spirituale.
Concepita la materia come pura negatività - e qui le classiche analisi di
Anassimandro, di Platone, di Aristotele vengono condotte sino al limite estremo
- riesce facile dedurre per viam negationis tutte le varie caratteristiche che
sembrano definirla. Poiché nessuna forma la circoscrive definitivamente,
dobbiamo concepirla illimitata e indeterminata; essa non è forma né formata, ma
è la negazione di ogni forma; e quando accoglie la traccia di una forma, essa
non è questa forma, ma è altro da essa e rimane l'«informabile» e il
«potenziale» in senso assoluto, pronto ad accogliere nuove parvenze in un
processo indefinito: perciò essa è semplice, ma di una vuota semplicità che
ricorda, solo per inganno, la feconda semplicità dell'Uno, sorgente e generatore
di ogni essere. Non muta perciò la sua natura nell'accogliere in sé le varie
apparenze fenomeniche, ma rimane impassibile e insieme inattiva, puro soggetto
senza qualità e senza quantità, indefinitezza pura e perenne relatività. Essa è
il non-essere che si può pensare solo in quanto il pensiero si appoggi
all'essere e riferendosi ad esso lo neghi. La sua verità consiste nell'essere
menzogna, cioè nell'essere lo spazio e il ricettacolo di tutte le apparenze che
nascono e muoiono, di tutte le sensazioni in cui si esaurisce la potenza
inferiore delle anime e la energia plastica delle ragioni seminali. E' fantasma
senza consistenza, ombra che segue inesorabilmente ogni esistenza, oscurità in
cui il pensiero si inabissa e si perde.
Abbiamo già visto che le ipostasi sono potenze generatrici, e cioè poiesis, solo
in quanto sono contemplazione di una realtà superiore. Soltanto l'Uno, che è il
Primo, e non ha nulla sopra di sé, non contempla eppure è la fonte inesauribile
di ogni realtà. Anche la materia non è theoria, ma essa, limite estremo
dell'essere e privazione assoluta, non produce nulla appunto perché non è
theoria; se fosse attività, essa produrrebbe un'altra realtà dopo di sé. Non
essendo dunque né contemplante né generante, essa è relativa al contemplante
(all'anima), ma non come il suo vero oggetto (che è l'intelligibile, lo
Spirito), ma come la indefinita potenzialità della sua attività inferiore che è
la percipiente, e insieme come il fondo ideale della inesauribile possibilità
delle esistenze contingenti. E poiché Plotino concepisce la realtà tutta in
termini di dinamismo, la materia, che è non-essere e mero fantasma di
corporeità, è pensata come «pura aspirazione all'esistenza»: aspirazione che non
inerisce affatto a un soggetto, all'anima sensiente, ché in tal caso tale
soggetto dovrebbe già esistere in atto, ma che deve essere intesa, come abbiamo
già visto, come il corrispettivo ideale esterno alla potenza inferiore
dell'anima, che non si affisa in Oggetti eterni e necessari, ma si disperde in
una molteplicità di impresagibili esistenze fenomeniche contingenti. La materia
è dunque aspirazione all'esistenza soltanto perché l'anima stessa è tensione
cieca e fatale verso l'esteriore.
Ma è ancora più facile determinare la funzione del concetto della materia,
quando si consideri l'uso che ne fa Plotino rispetto alle ipostasi. Lo Spirito
infatti non è l'Uno e perciò è materia rispetto all'Uno; l'anima non è lo
Spirito ed è perciò materia rispetto allo Spirito. Ciò che non è l'Uno si può
dunque considerare materia, cioè molteplicità e relazione, poiché soltanto l'Uno
è l'Assoluto. Ma lo Spirito e l'Anima non sono detti materia nel senso di
potenze non ancora passate all'atto, poiché essi sono ipostasi già in atto e
sono perciò in se stessi quello che sono, non quello che diverranno. Ora, la
materia intesa in se stessa e non più in rapporto alle ipostasi, non è né l'Uno
né lo Spirito né l'Anima: è dunque la negazione di ogni ipostasi e non è perciò
nulla di ipostatico. E se riguardo alle ipostasi essa vuol significare l'intima
ricchezza della loro vita in quanto protesa al Fine superiore, la potenzialità
infinita che accompagna tutto ciò che non è l'Uno, vuol dire che essa esprime
una funzione inerente al reale e vale solo in rapporto vivo e dialettico col
reale: in modo che, considerata in se stessa, dimostra la sua assoluta
inconsistenza e impensabilità. Se la concepiamo - come sembra giusto - come
funzione logica, è naturale che essa muti significato a seconda che noi la
consideriamo nello Spirito, nell'Anima o in se stessa; nello Spirito, che è
indefettibile possesso dell'Essere, essa vuol significare l'immobile rapporto
con l'Uno, l'ideale movimento del Noûs verso la sua interiorità assoluta, ed è
perciò detta materia intelligibile, perché quel suo movimento non è passaggio
logico e discorsività; nell'anima essa è aspirazione all'essere e
all'intelligibile, poiché essa non è l'essere e l'Uno si trova in lei solo per
accidente; perciò fuori del reale rapporto con le ipostasi il concetto della
materia si svuota di qualsiasi determinazione e può essere pensata soltanto se
la nostra mente la riferisca a qualcosa di reale che la sostenga, cioè all'anima
e alle ragioni seminali che nella materia estrinsecano necessariamente l'estremo
limite della loro potenza generatrice.
La materia dunque non è una realtà opposta all'Essere, ma è privazione che
accompagna tutto ciò che non è l'Uno e che aumenta a seconda che dallo Spirito
si discende alle apparenze fenomeniche, ma senza che essa possa mai affermarsi
come un qualcosa di reale. In intimo rapporto con tale dottrina della materia
anche il problema del male viene risolto con le stesse chiarificazioni già
esaminate. La materia è il primo male; ma poiché la materia non sussiste in se
stessa e non ha consistenza alcuna, ne consegue che anche il male non esiste
come realtà opposta al bene, ma soltanto come grado di bene o come privazione
del bene. Ora, soltanto l'Uno è il Bene: ciò che l'Uno genera non è il Bene ma
un bene. Difatti lo Spirito e l'Anima non sono l'Uno; in quanto sono opera
dell'Uno e partecipano dell'Uno e tendono ad esso, sono beni; in quanto non sono
l'Uno, non sono il Bene. Intesa come pura privazione la materia è il male primo;
ma come la materia non è oscurità ipostatica, ma assoluto non-essere e
relatività infinita, così il male non esiste in se stesso, ma del dialettico
rapporto col bene. Ciò è possibile nel sistema plotiniano, dove la dottrina
delle ipostasi determina una gerarchia di valori tra i quali non è possibile una
discriminazione e un movimento ideali: volere il male non significa tendere a
una assoluta irrazionalità e tanto meno tendere al nulla, poiché l'anima si
rifiuta di andare al nulla; ma vuol dire preferire un bene inferiore a un bene
superiore o al Bene supremo. L'uomo, come non può pensare il Nulla assoluto,
così non può volere il Male assoluto; perciò non nell'oggetto voluto come tale
va ricercato il male, ma nell'anima che vuole in quanto piega verso una realtà
esterna e inferiore. Se l'anima non fosse aspirazione spirituale e non si
elevasse da un piano a un altro di vita confermando così col suo atto vitale la
continuità delle Potenze ipostatiche che sembravano rimanere irrigidite e
irrelative, il male sarebbe un vuoto nome. Ma la posizione centrale dell'anima,
intesa come desiderio, rende possibile il problema del male. La stessa legge
della generazione divina dominante nell'Universo spirituale, per la quale
dall'Uno si discende nel molteplice per un necessario affievolimento delle
realtà generate, spiega metafisicamente la possibilità del male per opera
dell'anima. Che il superiore generi l'inferiore è necessario; ma il superiore
non si disperde nel generato, ma rimane immobile nella sua inesauribile e
intatta perfezione. Anche l'anima genera necessariamente, per legge divina, una
realtà inferiore; ma questa realtà non è un male, ma un'immagine transeunte e
fugace dell'essere e del bene. A queste immagini che non sono realtà vere
l'anima può tendere, sia perché essa è per natura movimento ed eros, sia perché
essa stessa le ha create. Che l'anima discenda è dunque fatale: e ciò toglie al
male quel carattere tragico che ha nel Cristianesimo, pel quale il primo peccato
ha aperto tra l'uomo e Dio una scissura profonda che soltanto il Figlio fatto
uomo potrà colmare.
Il senso della colpa non manca nella morale plotiniana: anzi, l'oggettivismo
mitologistico, proprio della mentalità greca, e gli influssi diretti delle
religioni misteriche spingono talora Plotino a concepire il male come qualcosa
che «lorda» l'anima e da cui è bene purificarsi al più presto; ma queste sono
espressioni popolari alle quali bisogna guardarsi di attribuire soverchia
importanza. Sta il fatto che il male non è la mostruosa eccezione che rompa la
divina armonia dell'Universo e richieda il più grande prodigio per essere vinto.
L'anima che lo compie (e lo compie attuando una possibilità che appartiene alla
legge divina del Cosmo) è la stessa che lo vince e si eleva; anzi, non potrebbe
elevarsi se non allontanasse lo sguardo via dai beni fuggevoli, e dei beni
inferiori non si servisse come di fulcro per ascendere all'Uno. In rapporto con
l'anima operosa, il male va dunque considerato come un momento dialettico della
vita spirituale; come non è possibile all'anima intuire in qualche modo l'Uno,
se non riferendosi alla tumultuosa e amara molteplicità clic la preme da ogni
parte e negandola eroicamente, maturando così nell'angosciosa esperienza
quotidiana una sempre più luminosa certezza di ciò che il puro pensiero non
saprebbe da solo conoscere giammai, così l'anima non può conquistare e far suo
il bene e comprenderne il valore e gustarne l'intima dolcezza se non supera il
male, cioè tutto quello che minaccia di deviarne l'innato anelito al Divino. Il
male esiste perché esistiamo noi che non siamo l'Assoluto; ma non esisterebbe il
bene per noi se lo possedessimo senza averlo conquistato: perciò il male che
esiste non è male se serve a darci la coscienza del nostro destino.
Le indagini plotiniane sull'arte
continuano la più pura tradizione ellenica e ricordano Platone e Aristotele,
Fidia e Prassitele, Pindaro e Sofocle, ma acquistano, in funzione del suo
sistema, un valore originale e una suggestione incomparabile. Il suo
fondamentale problema è quello della Bellezza, obiettivamente intesa:
scarsissimi accenni, se non è silenzio, sulle questioni della forma, dello
stile, dell'espressione, della genialità creatrice, dell'arte come vera opera
dell'uomo. Per lui, come per lo Schopenhauer, l'arte è assoluta obbiettività. Il
Bello è l'Idea, scevra di ogni elemento sensibile e oggetto di intuizione pura;
e poiché l'Idea è l'Essere, la Bellezza è l'essere vero delle cose, al quale
ognuno tende come all'intimo senso della sua vita.
Da queste dogmatiche premesse è facile dedurre gli attributi essenziali del
Bello: poiché esso è puro valore intelligibile, non può essere un fatto fisico,
né attributo di un fatto fisico, come la simmetria, il colore o la proporzione,
secondo quanto pensavano gli Stoici. Il Bello è idealità; e poiché l'idea è
riflesso dell'Uno e perciò una in se stessa, il Bello è unità; in quanto è
oggetto di un pensiero che abbia superato la sfera dell'accidentale e del
particolare, esso è Universale che non soggiace ai capricci dell'opinione e
della fantasia del singolo; in quanto s'impone ad ogni mente che abbia saputo
trascendere le vicende del fenomenico e del contingente, esso è Necessità,
poiché l'Essere è necessario. Il Bello, esaminato così nel suo intrinseco
significato, si risolve integralmente nel Vero.
Ma l'anima vive e pensa nello Spirito, al quale è affine: perciò il Bello è ciò
che ha diretto rapporto con l'anima, non con la materia. L'anima, per ritrovare
il Bello, non deve uscire fuori di sé, ma ritornare a se stessa per ritrovare
nel suo intimo l'assoluta conoscenza dell'esser suo e l'accordo pieno con la sua
natura: perciò la bellezza vuol dire per l'anima ricongiungimento con se stessa
e possesso della propria libertà. Per lei, essa non è dunque una qualità
estrinseca e contingente che possa indifferentemente aderirvi o no, ma è reale
fine della sua esistenza e il suo migliore destino. Non così avviene delle cose
sensibili che non hanno un'anima e che rivelano agli occhi corporei una bellezza
visibile e destinata a morire; in esse la bellezza è partecipazione transeunte
di un'idea o di un logos, non intimo possesso di sé; è immagine fugace, non
essere vero; è qualità, non sostanza. Per conseguenza, il brutto, preso in se
stesso, è non-essere e assoluta negatività, come la materia e il male; esso non
esiste nel mondo noetico che è bellezza pura; nell'anima è discordanza interiore
con se stessa, angoscia e passionalità impura, momento di un ritmo dialettico
che tende al Bello in un perenne superamento del brutto; nelle cose visibili è
qualità spiacevole mista ad altre qualità, mancanza di ordine, disarmonia che
contrasta dolorosamente col nostro profondo desiderio di unità.
Sembra che, data una simile concezione del Bello, non debba esserci nessuna
differenza tra l'arte e la filosofia; l'arte esaurirebbe il suo compito in una
silenziosa visione dell'Idea, non meno del pensatore che, disdegnando la realtà
fenomenica, intuisce nella trasparente regione dell'Intelligibile l'unità degli
esseri eterni. Ma l'arte non si presenta storicamente come tale se non come
prodotto esteriore individuato in determinati colori e forme, in suoni e parole,
in marmi e linee architettoniche. Perciò, se il Bello è quello che abbiamo
esaminato, che valore si deve riconoscere alle espressioni esterne che
caratterizzano l'arte di fronte alla conoscenza filosofica? Se esse sono
essenziali, il Bello non si deve più concepire come Idea; se sono accidentali ed
estrinseche, non se ne comprende la portata e la necessità. Nella soluzione di
questi problemi consiste la suggestiva profondità dell'Estetica plotiniana. Però
una cosa è soprattutto inequivocabile nell'idealismo di Plotino: l'arte è
intuizione dell'Idea.
Ora, perché l'anima possa intuire l'Idea, è necessario che essa sia a contatto
con lo Spirito mediante la sua parte superiore e inerisca eternamente ad esso:
questa è la condizione trascendentale dell'arte. In altri termini, è necessario
che l'anima sia capace di pura contemplazione e di libertà e sappia superare
ogni motivo ed interesse pratico. L'artista perciò non è un uomo comune, ma, pur
non essendo un essere anormale o eccezionale, è però uno dei pochi rivelatori
nei quali l'umanità riconosce se stessa; egli non copia le cose particolari che
ogni uomo può vedere - come sembra pensasse Platone -; e nemmeno ciò che nelle
case e negli avvenimenti v'è di verosimile e necessario, come opinava
Aristotele. Egli intuisce l'Idea che non si mesce alla materia e rimane pura al
di là del sensibile. Né si può dire perciò ch'egli crei: l'arte è rivelazione
dell'Essere e dell'assoluta Obbiettività, non capriccio individuale o prodotto
della fantasia, che è soggettiva, arbitraria, personale: essa è intuizione
intellettuale e idealità pura che tende a dissolvere completamente in se stessa
la sorda pesantezza della materia.
E poi, sappiamo che non l'anima genera lo Spirito, ma lo Spirito genera l'anima,
e l'anima genera la corporeità e le sensazioni che sono suoi atti: l'artista non
crea dunque l'Idea, ma le sue espressioni visibili, e produce queste
contemplando quella. Anche nell'artista come nella natura la theoria è poiesis;
e come l'Anima dell'universo, l'artista crea «senza riflessione», per quell'intima
necessità che fa dell'Uno il Principio di tutti gli esseri e del mondo tutto un
grandioso processo di automanifestazione. Il creare dell'artista è fatale come
la generazione divina, se per creazione s'intenda non l'intuizione di ciò che
l'intelletto umano deve comprendere, ma l'espressione di sé in immagini
concrete, in parole e in ritmi sensibili, in colori e in marmi. Perciò l'Idea
estetica, in quanto opera dell'arte, si distingue nettamente dall'idea
filosofica e dalla percezione empirica, perché è sintesi di universale e di
particolare, di sensibile e di sovrasensibile, non meno di un essere vivente:
l'idea filosofica è il puro universale, oggetto di una comprensione tutta
interiore; la percezione è la mera esteriorità percepita, è il dato
insignificante di una constatazione senza anima.
L'immagine creata dall'artista, se da un lato condivide le caratteristiche della
percezione empirica, se ne distingue però come organismo vivo da cosa morta;
essa non si rinchiude miseramente in se stessa, ma rimanda ad altro, suggerisce
e annuncia l'Universale - aistesis ággelos. Ma poiché l'Universale, l'Idea, è
interiore all'anima ed è, anzi, il suo essere vero, a cui l'anima guardando
conosce se stessa, l'espressione, che è necessariamente esteriore e fenomenica,
compie la funzione iniziatrice di ricondurre l'anima a se stessa. Chi contempla
un'opera d'arte esce solo momentaneamente da sé per ritornare a se stesso e
contemplare e conoscere la sua vera, originaria natura spirituale, le eterne
«Madri» del cosmo, l'assoluto stesso delle cose. L'opera d'arte trova il suo
compimento nell'anima e per l'anima, in una visione tutta interiore;
l'espressione esterna è semplicemente un segno, un'occasione mediatrice
dell'anima con se stessa. La percezione che nella discesa è un ultimo, diventa
un primo per l'ascesa a chi sappia comprenderla. Comincia così nello spirito e
per lo spirito il mondo dei valori che, fuori di esso, sono soltanto discese,
apparenze, realtà inferiori, ma che in esso sono valori, poiché esso valuta,
cioè pone quelle cose e quelle immagini in relazione con l'Idea che è presente
solo nel pensiero. Soltanto nello spirito il sensibile può assolvere il compito
di suggerire l'Ideale e di ricondurci ad esso, di compiere cioè la sua unica
giustificabile funzione, quella redentrice.
L'arte che Plotino esalta è dunque la scultura di Fidia e di Prassitele, tutta
compiuta in se stessa e armonicamente racchiusa dentro una linea immobile,
sufficiente a se stessa? É una bellezza beata di sé e che non sembra suggerire
nostalgie per un mondo più caro di quello che l'occhio estasiato contempla?
Oppure quell'arte divinamente serena doveva deludere la sua anima assetata di
pura idealità e di trascendenza e sdegnosa di soste terrene? Avrebbe egli
compreso le tele di Van Gogh, in cui il colore irrompe per varcare i limiti
dell'esprimibile? Egli cita Fidia e pare che non presagisca un'arte diversa
dalla sua; eppure l'arte che egli preconizzava forse non era questa. La sua
visione metafisica dell'Universo, che imposta il sensibile in modo originalmente
dialettico e dinamico, non consente un'arte di «pura visibilità» compiuta e
chiusa in una sua formale perfezione.
L'espressione dev'essere suggestione e simbolo e vale solo se ispiri un'altra
realtà tutta interiore, fatta di levità immateriale e purissima. É facile
chiedersi ora quale rapporto analogico intercorra tra un'immagine concreta e
corpulenta, e l'Idea, incorporea e invisibile, che quella dovrebbe suggerire.
Affermare che la cosa è assai comprensibile quando si pensi che l'immagine, ad
es. di uomo, artisticamente espressa, suggerisca il concetto universale di uomo,
mi sembra interpretazione banale, indegna della profonda dottrina plotiniana.
Quando egli dice che «il fuoco è bello perché splende simile a un'Idea», noi
comprendiamo che l'espressione artistica, per esser tale, deve essere non
l'analogo concettuale dell'Idea, ma un analogo ineffabile, fatto di assonanze e
somiglianze prodigiose, che solo i puri riconoscono. Si guardi infatti alle
immagini a cui Plotino ricorre per far intuire le profondità della Vita
inaccessibile e infinita e che compiono una genuina funzione artistica (cioè
iniziatrice e rivelatrice) nei suoi trattati: la pianta, il sole, la fonte, il
calice che trabocca, la stella della sera. Quale rapporto logicamente
determinabile si può trovare tra la luce e il Bene? Eppure la nostra mente
intuisce la loro segreta affinità: una sola Vita spirituale si estende dall'Uno
al molteplice riverberando in modo misterioso la realtà intelligibile dell'Idea
in un certo colore o in un certo motivo musicale. Perché così avvenga ci è
ignoto, ma che sia così ce lo rivelano i genii creatori che sanno intuire
l'ineffabile parentela del Cielo e della terra, dell'Invisibile e del visibile,
di un'anima pura e dell'espressione del suo viso.
La classicità, come determinata esperienza artistica, ha ormai chiuso il suo
ciclo; Plotino ne raccoglie l'eredità e la trasmette, trasfigurata dalle
esigenze del suo pensiero, ad altre anime affini alla sua, sitibonde di un'altra
realtà al di là delle forme tradizionali. Eppure, l'estetica plotiniana,
malgrado i suoi elementi preromantici, è dominata da una profonda esigenza di
equilibrio e di razionalità obiettiva: la funzione dell'espressione può essere
interpretata romanticamente e suggerire, forse anche, la dottrina schlegeliana
dell'«ironia»; ma ad impedire una decisa interpretazione romantica dell'estetica
plotiniana giova ricordare che ad essa manca la concezione del genio, creatore
del suo mondo, le manca l'inequivocabile valutazione della fantasia e della
soggettività. Il Romanticismo potrebb'essere tutt'al più una prefazione alla
teoria plotiniana, non viceversa; ed è forse per questo se i romantici,
irrequieti e sentimentali, cercheranno in Plotino la visione di un mondo ideale
obbiettivo - il loro paradiso perduto - che plachi il dèmone che li turba.
Se in Plotino l'espressione non è l'intuizione stessa, ma ciò che rende
possibile un'intuizione intellettuale tutta interiore, è naturale che il
problema della forma, benché non esaminato espressamente, esista implicitamente
nell'estetica plotiniana. É vero che nell'opera d'arte l'essenziale è l'Idea;
che nessuna espressione può essere l'equivalente sensibile dell'idea; e che
perciò qualsiasi tecnica - necessariamente individuata e personale - deve
rivelarsi alla fine inadeguata. Ma poiché l'arte non è filosofia, ma si presenta
storicamente come produzione di opere concrete, è evidente che l'espressione,
indifferente ai fini dell'intuizione filosofica, è invece di capitale importanza
in quelle opere, destinate, appunto mediante quelle determinate forme, a
suggerire l'ideale. Non qualsiasi colore o accordo di colori può evocare l'Idea;
è necessario che esso raggiunga una certa tonalità, una certa potenza, un certo
valore espressivo. Chi riconosce tutto questo è l'artista che sa esprimersi, e
in ogni parola che pronunzia, in ogni pennellata, in ogni solco lasciato dallo
scalpello intuisce l'ineffabile accordo con l'intima visione del suo spirito.
L'espressione non è dunque l'opposto, e nemmeno l'identico al vero Oggetto
dell'arte, che è l'idea: ma è funzione. E poiché essa è sensibile e finita,
mentre l'Idea è intuitiva e infinita, l'opera d'arte non può mai essere una
sintesi compiuta e statica, ma un vivo rapporto dialettico di finito e infinito.
In questo prodigio creato dall'arte l'immagine è riconsacrata e redenta: Plotino
si dichiara qui esplicitamente: «la produzione e l'azione sono o un
indebolimento o un accompagnamento della contemplazione; un indebolimento, se
dopo l'azione nulla più rimane; un accompagnamento (acoloutema), se potremo
contemplare una cosa superiore a quella prodotta».
L'arte è dunque contemplazione pura, perché è liberazione assoluta, non dalle
sensazioni che sono la necessaria mediazione dell'atto intuitivo, ma
dall'aspetto pratico di esse e dal loro valore di cose utili o praticamente
interessanti: il concetto aristotelico di catarsi estetica si svincola da ogni
equivoco e si chiarisce nell'impostazione metafisica del sistema. Non di meno,
la necessaria presenza del dato fenomenico inerente all'Idea non può non velare
di malinconia l'opera d'arte: in seno alla limpida purezza dell'Idea
interiormente intuita esso rimane, malgrado la massima adeguatezza possibile,
come un elemento impuro ed estraneo che turba ed atterrisce; ché se l'Idea
suggerita riconduce l'anima a se stessa e le offre un senso di libertà divina,
l'immagine rimane pur sempre, oggetto di una conoscenza inferiore, ad offuscare
il gaudio della visione dello spirito. La bellezza sensibile suscita brividi e
un senso di amarezza e di sgomento: essa non può bastare all'anima che tende
alla sua libertà e purezza assoluta.
Ciò che l'arte esprime è l'universale concreto; ma nel processo che conduce per
una via rettilinea all'unica mèta del Bene, la concretezza che essa implica deve
essere superata. La dialettica dell'anima non conosce soste né compromessi con
la realtà esteriore: la religione della bellezza e dell'arte è un incantesimo
nefasto che ritarda la liberazione suprema; e se l'arte può rimanere come una
funzione spirituale, è soltanto a condizione che essa sia educatrice, non
rigetti indietro le anime verso la passionalità della vita inferiore, ma le
liberi da essa, schiuda loro un più vasto orizzonte di pensiero, di universale
spiritualità e di etica purezza, le ricongiunga con se stesse. Come nella
dialettica hegeliana e gentiliana, l'arte è qui soltanto un «momento» che il
pensiero supera nell'incessante sforzo di ritrovare se stesso come assoluta
Razionalità. Essa perciò è destinata a morire come espressività esteriore, non
nella storia dell'umanità e nella dialettica dell'Universale, che in Plotino è
impensabile, ma nella storia spirituale dell'anima singola che ha ritrovato il
suo cammino.
Per chi al culmine della vita dello spirito pone non la perenne attività del
pensiero che rifà criticamente la propria storia incessante, ma l'esperienza
suprema dell'Inesprimibile, l'espressione è destinata a dissolversi. Il pensiero
è interiore e indivisibile e il suo logos interiore non ha parti; il linguaggio
espresso divide in qualche modo il pensiero e lo esteriorizza, rendendolo così
percepibile a chi parla e a coloro che lo ascoltano, ma insieme lo disperde;
l'espressione diventa così un'immagine del pensiero. Ma chi voglia raccogliersi
in se stesso, via dalla dispersione nel tempo e nello spazio, deve dimenticare
ogni logos espresso e riconquistare la perduta visione interiore, deve anzi
diventare «visione» (opsis) e comprendere senza parole l'Inesprimibile.
L'arte a questo punto non esiste più: l'artista, come la S. Cecilia di
Raffaello, disdegna ormai ogni linguaggio terreno, perché le opere che egli ha
già creato gli hanno schiuso l'occhio interiore alla visione suprema, ed egli le
dimentica perché contempla ciò che nessuna parola può dire; egli ha raggiunto
l'arte vera, ipostatica, che ogni poeta vorrebbe celebrare, ma che nessuno
realizzerà perché essa appartiene al grande silenzio. La Vita è più possente
della forma, perché essa è l'Infinito.
E così, malgrado la riconosciuta funzione dell'espressione artistica, il bello
esteriore non è più un valore che importi creare. Ciò che importa è essere
belli, non contemplare una bellezza sensibile: importa essere se stessi. Nella
contemplazione della bellezza l'anima si sdoppia, si esteriorizza, esce dal suo
centra divino, è ancora ammalata di terrenità, e perciò percepisce con stupore
la realtà esterna e sente il bisogno di produrre una cosa che l'occhio possa
vedere. Nell'arte pura, che è pura visione dello spirito, l'anima non esce più
da se stessa per conoscersi attraverso immagini inadeguate; essa è ormai «anima
bella» e la sua vita stessa è opera d'arte. Che essa dovesse possedere la
purezza per accostarsi alle cose e intuirne la bellezza, era già dapprima una
condizione trascendentale; e se l'anima non fosse capace di unità interiore e
non potesse spogliarsi della sua individualità empirica per assurgere
all'Universale non potrebbe né comprendere né creare un'opera d'arte: ché
soltanto il puro conosce il puro. Ma ora che ogni parola è stata dimenticata e
le stesse cose belle che prima la stupivano non hanno più valore per lei, già in
possesso della sua bellezza immortale, il produrre opere materiali non è più suo
desiderio. Coerente ed una in se stessa, pura da ogni passionale contatto,
l'anima bella guarda a tutti gli esseri con la medesima serenità e col medesimo
disinteresse; ogni cosa diventa bella nella sua spirituale bellezza. Esprimere
esteriormente questa visione interiore sarebbe ora indifferente per lei: poiché
chi possedesse l'essere vero per quale ragione vorrebbe le sue immagini? Ma ora
l'anima è in possesso di se stessa: e il pieno possesso spirituale di sé vuol
dire bellezza, purezza, verità e libertà gaudiosa.
Mentre l'arte come tale ci offre l'universale concreto,
accompagnato da uno speciale sentimento di ammirazione e di stupore, la
conoscenza filosofica nella sua peculiare natura è intuizione pura dell'essere,
nóesis assoluta; l'arte deve risolversi alla fine anch'essa in visione
intellettiva del Vero sovrasensibile purificandosi da ogni elemento esterno
perturbatore, la filosofia è invece possesso immobile delle Essenze e non ha
bisogno di compiere nessun superamento. Come attività dello spirito, essa non è
ricerca e indagine infinita, non è storia né ha uno svolgimento come se dovesse
conquistare nei momenti successivi del processo ciò che prima non possedeva, ma
è eterna presenza dell'Essere a se stesso e perciò è autoconoscenza: poiché nel
mondo noetico l'essere è identico al pensiero. Ma l'essere non è unità
indifferenziata, ma unità che include la molteplicità delle idee: l'essere-uno
di Parmenide, come annulla la irriducibile alterità degli esseri, così distrugge
la vita stessa del pensiero che è movimento logico e articolazione dialettica.
L'anima umana, al contrario, è per sua natura discorsività, processo,
aspirazione; intermedia tra la pura molteplicità delle sue sensazioni condannate
a un perenne divenire e l'unitaria complessità dello Spirito eterno, nata dal
Bene e ansiosa di ricongiungersi a lui, essa non può sostare: un dèmone a lei
superiore, simbolo del suo ideale di vita, la incalza verso la meta suprema e la
guida sino allo Spirito, per lasciare alla fine il posto a un dio beato. Essa
ricerca, ma per possedere; la sua ragione (diánoia) ha bisogno di dimostrazioni,
di procedimenti sillogistici, di prove, di mediazioni logiche; essa non possiede
consciamente l'essere, ma lo persegue in se stessa conquistando così con la
conoscenza filosofica delle cose la vera coscienza di sé. Essa ricerca l'essere,
ma solo perché in qualche modo lo possiede. L'anima infatti vive nello Spirito
ed è ad esso sospesa perché è da lui generata; ma essa né sa come lo Spirito
l'abbia generata, poiché il processo della generazione divina si compie «nel
silenzio», fuori della coscienza empirica dei singoli, né è immediatamente
conscia della sua immanenza nel Noûs. Lo Spirito possiede l'anima, ma l'anima
non possiede ancora lo Spirito, se non inconsciamente. Essa è a contatto anche
con l'inferiore, con la corporeità da lei prodotta, con le sensazioni che sono
suoi atti. E benché essa non sappia di aver creato i suoi prodotti, per la
ragione testé ricordata, è non di meno conscia di sé per opera della sensazione,
la quale, in quanto sdoppia in certo modo l'anima in interno ed esterno e la
contrappone a se stessa, le offre il primo barlume di autocoscienza: la
sensazione infatti è il primo oggetto che la costituisca come soggetto; ma
poiché la sensazione non è l'oggetto vero ma esteriorità fenomenica e
contingente, l'anima non può per essa conquistare la coscienza del vero essere
suo, ma solo una vaga coscienza empirica, sempre minacciata di disperdersi e di
perdersi nel fluire delle impressioni.
Ma il reale è continuità che dall'Uno procede ininterrottamente sino ai margini
dell'esistenza e in cui ogni grado inferiore è espressione e immagine del
superiore e messaggero del generante. Anche la sensazione perciò non deve essere
considerata come un opposto del pensiero e dello Spirito, ma solo come una loro
manifestazione inadeguata, un riflesso e un'immagine delle potenze superiori;
essa è un pensiero oscuro, è sonno dell'anima, occasione della conoscenza
razionale e noetica e nunzia dello spirito, strumento pratico che serve
all'anima per orientarsi nel mondo fenomenico, costituito di bisogni e di
desideri di valore economico. La sensazione è nell'anima ed è perciò un suo atto
spirituale, poiché tutto ciò che appartiene all'anima non è passività: ché la
passione è soltanto nei corpi. L'anima constata in sé la sensazione, non come
una cosa estranea, ma come una traccia dell'intelligibile, nella quale il
continuo intelligibile si frantuma disperdendosi nel discontinuo e minacciando
di discontinuità l'anima stessa, ove questa non sappia riconoscere il valore del
percepito.
Per ritornare allo Spirito, l'anima non deve uscire da sé per ritrovare
l'universale nelle immagini corporee, poiché uscire da sé vuol dire uscire
dall'Essere, in cui essa è immanente, e avventurarsi verso i confini estremi
della realtà. L'universale non si attua nel particolare, ma si annunzia nel
particolare; è vano pensare di poter enucleare, con un processo di astrazione,
l'Idea eterna da ciò che appare nel tempo e nello spazio; l'Idea e il fenomeno
stanno tra loro come modello e immagine, affini soltanto in quanto ambedue
presenti all'anima che li riconosce e li discrimina con atti diversi della sua
potenza conoscitiva.
La conoscenza per l'anima è un processo tutto interiore di ricostruzione della
Verità, che è al di là del tempo e dello spazio; non è contatto col mondo, ma
dell'anima con se stessa e perciò riconquista di sé e autoconoscenza, processo
di unificazione e di interiorizzazione. Ma se l'anima vive nello spirito ed ha,
d'altra parte, la prima vaga coscienza di sé in quanto constata la presenza di
dati empirici, è naturale che la prima sintesi logica del particolare e
dell'universale è l'opinione, la dóxa; credere che la sensazione sia un mero
particolare privo di qualsiasi luce intellettuale equivarrebbe a negare che la
sensazione sia nell'anima e l'anima nello spirito. La sensazione è già un
giudizio, cioè una sintesi logica, poiché l'anima è presente in ogni suo atto
con la sua potenza dianoetica.
Attraverso il processo conoscitivo noi diventiamo sempre più consapevoli di ciò
che siamo e pensiamo inconsciamente, poiché al contatto con la molteplicità
fenomenica avvertiamo sempre più chiaramente le nostre fondamentali intuizioni e
funzioni nell'atto stesso in cui le attuiamo. Ora, la funzione trascendentale
dell'anima è quella unificatrice. Infatti, l'Uno è onnipresente in ogni parte
più o meno altrove; in se stesso è Unità assoluta e libertà infinita; nello
Spirito non è Idea dell'Uno (poiché non esiste idea di ciò che è ineffabile, e,
d'altra parte, le idee sono idee soltanto di ciò che viene dopo di esso), ma
unità immobile dell'Essere che è molteplicità e unità delle singole essenze;
nell'anima, che è attività discorsiva, esso si riflette come funzione
unificatrice tendenza dell'Uno; nelle cose materiali come unità di parti
discontinue, come qualità transitoria; nella materia non esiste più se non come
vuota semplicità. Per la presenza dell'Uno l'anima è dunque attività
sintetizzatrice, che condiziona la stessa sensibilità, la memoria, la ragione;
il molteplice fenomenico acquista coerenza e continuità solo nell'anima e per
l'anima che è una; allo stesso modo, l'immanenza nello Spirito, il cui rapporto
con l'anima è, non come con l'Uno, mediato, ma immediato, offre ad essa quelle
nozioni trascendentali che rendono possibile la valutazione dell'inferiore. Non
potrebbe l'anima ricavare dal tempo, di cui ha una nozione, o meglio
un'intuizione indefinibile, il concetto di eternità, anzi nemmeno potrebbe
discriminare ciò che è da ciò che non è più, se già non possedesse più chiara
l'idea di Eternità o, che è lo stesso, di Essere. Il suo giudicare è un
riportare il particolare all'universale, un vedere quello nella luce di questo,
un ricondurre la cosa alla sua interiorità.
La teoria agostiniana della «illuminazione» ha anch'essa in Plotino tutte le sue
premesse.
Poiché la sensazione è una semplice occasione della vera conoscenza, e il
processo dianoetico è una perenne riconquista ed attuazione di sé, è chiaro che
la nozione platonica di anamnesi ritorni in Plotino con tutto il suo antico
calore, ma spoglia dello sfondo mitico che la legava alla preesistenza. La
discesa dell'anima nel mondo sensibile, non più concepita come un fatto storico
che si compie una volta per sempre, ma come una perenne possibilità nella vita
dell'anima, è «oblio» della sua origine divina e offuscamento della spiritualità
interiore; tutta immersa nelle sue affezioni e legata ad esse, non sa vedere
nulla al di sopra della sua immediata esperienza e si accontenta delle sue
opinioni senza ricercare se in quelle non si nasconda un mezzo di salvezza; essa
ricorda soltanto ciò che una volta le ha dato gioie e piaceri e che poi è
svanito per sempre. La sua memoria è incatenata a ciò che fluisce e muore ad
ogni attimo; più in basso l'anima discende, nel mondo delle passioni e delle
esistenze, più la memoria si acuisce e conserva con tenacia le immagini dei
falsi beni perduti, rimpiangendo ciò che non è più, come se non esistesse altra
realtà al di là del divenire temporaneo. Anche in questa memoria l'anima non
perde l'unità con se stessa, poiché questa unità è, anzi, la condizione della
memoria, come riconoscimento, nel presente - in cui tutto il tempo si risolve -
di ciò che l'immagine vale.
Se questa memoria è intimamente connessa con l'oblio dell'intelligibile, è
evidente che nell'ascesa alla conoscenza dell'Eterno il sensibile sia
dimenticato e una nuova rimembranza si accenda in noi; la mnéme si spegne a mano
a mano che l'anámnesis ci illumina della sua luce. Ma l'anamnesi non è memoria:
si ricorda ciò che non è più, non ciò che è. Ora, la verità non diviene, ma è,
cioè non si ricorda, ma si intuisce. Se chiamiamo memoria anche l'intuizione
superiore dell'Eterno, è perché l'anima non sempre possiede consciamente ciò che
possiede: essa trascorre le vie della realtà, non lo spirito, che è luce immota.
In questo ritmo di memoria e di oblii consiste la vita dell'anima: nessun
compromesso deve esistere tra i due oblii o le due memorie, se non
provvisoriamente nell'opinione che è sintesi momentanea di particolare e di
universale. Chi vuole salire alla visione dell'Eterno deve, come Catone nel
purgatorio dantesco, dimenticare gli antichi affetti e liberarsi da qualsiasi
incantesimo. Anche la memoria acquista in Plotino un significato drammaticamente
etico; e l'oblio diventa un atto eroico con cui l'anima taglia ogni legame con
la terra e annulla ricordi cari, affetti, dolcezze mondane, tutto ciò insomma
che costituisce la sua empirica individualità.
Così l'anima può ricongiungersi allo Spirito, in cui vive e di cui è partecipe,
e per lui a se stessa.
L'autoconoscenza non le appartiene se non in quanto si
converta all'Essere che è l'essere suo. Lassù essa più non abbisogna né di
riflessione né di memoria né di mediazioni logiche né di dimostrazioni. Ogni
interesse pratico è stato superato in una purezza perfetta, ogni parola
dimenticata. La visione dell'Essere è visione di sé; l'anima non si annulla in
una contemplazione abissale, poiché l'Essere è Unità molteplice ed essa è
irriducibile centro di vita, ma perde quella individualità empirica che
minacciava di contrapporla come cosa ad altre cose. Qui, alla stessa mèta
dell'arte, il processo si placa; la volontà aderisce indefettibilmente alla
nóesis e si risolve in essa; l'amore che era passione nel mondo degli interessi
pratici e dèmone nello sforzo di ascendere, ora è un dio; e il filosofo è egli
stesso un essere divino.
«Nel mondo greco l'esigenza monistica si
rivela, fino alla esasperazione, nella dottrina eleatica dell'Uno. L'Essere è
eterno, uno, immutabile, sempre identico a se stesso. L'esperienza non può
conoscerlo, ma scorre alla superficie del mondo delle apparenze passando di
illusione in illusione, poiché illusione non è ciò che l'occhio non vede e che
la mente pone con un atto di decisione metafisica, ma proprio ciò che sembra la
realtà più concreta. Ciò che diviene è irreale, non è, e invano la nostra mente
cerca di fermarlo e di possederlo; il movimento è soltanto l'increspamento che
tocca l'onda alla superficie ma non la trasforma; la molteplicità è soltanto
apparenza che non può distruggere quell'unità che, anche nella ipotesi di una
reale molteplicità, deve appartenere a ciascuna parte, infinitesimale, di essa.
L'Essere-Uno non include ma esclude il molteplice in modo assoluto, così come la
luce annienta la tenebra, la verità l'errore e l'intelligenza il senso. E se il
movimento è negato, negata è l'anima che lo produce. Non rimane che lo spirito
puro come pura immota intuizione di un Essere immobile che non ha storia né
vita. Se l'essere e il pensiero son un'unica identica cosa, nemmeno potremmo
pronunciare che l'Essere è uno: poiché il pensare implica un'alterità tra
pensato e pensante, tanto meno potremmo con complessi ragionamenti (che sono
movimenti logici) illuderci di dimostrare l'illusione, per il motivo che ogni
movimento e discorsività sono illusori. Il pensiero si irretisce e si abbuia
dentro la sua premessa metafisica: il pensiero muore, l'essere è annientato
dallo stesso pensiero che lo ha posto.
Ma l'Essere-Uno è il postulato originario; il pensiero Io presuppone,
consciamente o inconsciamente, come condizione e garanzia del suo desiderio di
razionalità; se affermarlo è distruggerlo, il non affermarlo lo sottintende.
Contro di esso, ma anche su di esso, sorge la vita, il movimento, il divenire,
la guerra, la sofferenza, la molteplicità. Contro Parmenide, Eraclito difende
l'anima che non ha confini e l'illusione vitale del divenire, immettendole
dentro l'Uno e riconsacrandone così la realtà. Il Cosmo è Uno ma include il
molteplice come sua articolazione e sua vita; l'Uno, in quanto in sé diverso,
con se stesso si accorda in un'armonia perenne di contrasti. L'abissale
intuizione dell'Uno riconosciuta da Parmenide al pensiero umano si frantuma per
Eraclito come si frantuma l'essere nei suoi indefiniti momenti e opposizioni pur
conservandosi uno in dinamica unità; al pensiero umano egli nega l'intuizione,
pur postulandone la condizione assoluta, e distrugge così l'identità di
essere-pensiero, determinando nel pensiero stesso un oscillamento drammatico tra
la discorsività, che accompagna le varie e relative apparizioni del reale, e la
conoscenza intellettiva, che vorrebbe districarsene per comprendere il
significato immobile ed eterno di quel divenire incessante. L'immanenza dell'Uno
negli indefinibili, dinamici e contrastanti aspetti della realtà non garantisce
la scientificità del sapere ma getta il pensiero in braccio a un relativismo
esasperante. L'Uno, per quanto postulato, non esiste più se non come illusione
metafisica; il pensiero muore come possesso sicuro e si adegua, angosciosamente,
alla Vita, vita esso stesso.
Socrate sembra ignorare questa problematica metafisica e non ha interesse che
per i problemi dell'attività morale, ma per il fatto stesso che egli imposta la
sua istanza etica su basi razionalistiche e logiche, la sua dottrina Io
riconduce inconsapevolmente alle speculazioni eleatica ed eraclitea, di cui
sembrerà continuazione e superamento. Il concetto socratico è unità, non unità
cosmica ma mentale; ma se col concetto l'unità è reintegrata nel regno della
conoscenza, anche la molteplicità vi rientra poiché i concetti sono molti e
ognuno è unità.
Con la mediazione del concettualismo socratico, Platone, pur rimanendo fedele
alle esigenze intellettualistiche dell'eleatismo, supera il monismo astratto e
nello stesso tempo riconferma le vive istanze eraclitee a favore della vita e
della molteplicità irriducibile del reale, ma liberandole dal gorgo senza nome
ed elevandole alla dignità di valori imperituri ed eterni. La sapienza è
possibile perché la mente ha scoperto i suoi fondamenti assoluti che le
consentono di pensare. L'Uno rimane, ma la sua abissale profondità si svela alla
nostra intelligenza come ricchezza di molteplici idee; il movimento è pur sempre
condannato ad essere l'espressione e il simbolo della opinione incerta e del
trapassare inafferrabile, ma di esso è ricercata la fonte prima nell'anima che
non è apparenza ma realtà spirituale, affine all'essere vero. I fenomeni
acquistano così una loro relativa intelligibilità, ma non possono essere risolti
in razionalità pura, perché emergenti da un fondo oscuro e indefinibile, la
materia. Dio, intelligenza, idee, anima, materia: su queste concrete entità
Platone costruisce l'organica struttura dell'universo visibile ed invisibile,
articolando le teorie eleatica cd eraclitea ed insieme il pensiero che è in
funzione del reale.
Ma l'accresciuta complessità del Cosmo moltiplica le relazioni e con esse i
problemi del pensiero: l'Uno è intelligenza o superiore all'intelligenza? le
idee sono suoi pensieri o realtà esterne ad esso? che affinità esiste tra
l'anima, che è principio di movimento, e le idee immutabili? perché l'anima che
conosce le idee è insieme quella che discende nella materia? e come deve essere
intesa la natura, l'origine, l'esistenza della materia? La speculazione
posteriore non ha continuato a percorrere il cammino aperto da Platone, forse
aduggiata da quella molteplicità di enti che sembravano distruggere l'unità e la
continuità del reale. Vi è ritornato il neoplatonismo che fissò ben presto,
prima di Plotino, il numero delle ipostasi (Uno, Noûs, Anima); vi ritorna
Plotino come a una tradizione sacra, ma in realtà ripensandola attraverso la sua
coscienza di uomo e le sue esigenze di filosofo che conosceva i complessi
problemi e i bisogni spirituali dell'epoca. La tradizione filosofica è
riconsacrata ma l'anima è nuova.
Anche per Plotino come per gli Eleati l'Uno è il postulato per eccellenza del
pensiero e della volontà; negli Eleati esso era staticità assoluta, non
essendoci nessuna molteplicità reale da interpretare, in Plotino esso è insieme
forza diffusiva e potenza infinita; soltanto a questa condizione le ipostasi
platoniche non rimangono più irrelative ma costituiscono una organica e continua
unità. L'Uno non distrugge le distinzioni, né le distinzioni dissolvono l'Uno.
Il grande sforzo di Plotino consiste nel voler salvare questo e quelle senza
scavare nel reale alcuna soluzione di continuità. Le ipostasi — Uno, Spirito,
Anima — sono tre, non di più; all'anima si arresta il mondo spirituale, al di
sotto non c'è che movimento caotico, tenebra e apparenza. Una sola vita si
estende in linea retta dal Principio all'infima delle realtà: "ciascuno dei
punti successivi della linea è differente, ma la linea intera è continua. I suoi
punti sono continuamente differenti, ma il punto anteriore non perisce in quello
che segue". Il Primo, in quanto fonte di tutta la realtà, è comparabile alla
luce; egli è potenza produttrice e il suo essere è attività. Ma la sua natura
opera senza movimento, al di là del tempo; il generato, pur essendo generato,
non viene dopo il generante, ma è eterno; allo stesso modo della luce che emana
dal sole ma è contemporanea, non posteriore, ad esso pur dipendendo da esso.
Assurdo chiedere perché dall'Uno emani un'altra realtà: il processo divino si
compie al di là del tempo, dello spazio e della causalità. Il pensiero deve
constatare in sé e fuori di sé dei piani spirituali di vita che costituiscono la
struttura dell'essere: piani che nell'anima sono attitudini spirituali e
orientamenti che segnano diversi destini ma che per un greco non sono soltanto
attività umane, ma presuppongono tutta una complessa metafisica di ipostasi che
fonda e garantisce l'oggettività assoluta dei nostri valori. Una gerarchia di
potenze divine che non si risolva in opera umana incentrandosi nell'anima ma
rimanga fuori di noi come oggetto di pura contemplazione è altrettanto
insignificante quanto un complesso di azioni umane che non si adegui a un Ordine
reale e transumano ma si sforzi, inutilmente, di creare un mondo di valori
storici, autonomi.
Perciò l'impegno con cui Plotino cerca di suturare al massimo i vari piani della
vita e i molteplici termini con cui vuole esprimere l'intima loro connessione,
oltre che significare uno sforzo teoretico, rappresenta soprattutto la sua
fiducia morale nell'accordo tra l'Umano e il Divino e nelle possibilità
soteriologiche dell'anima nostra».
Nascono così le tre ipostasi che sono: l'Uno-Bene, lo Spirito (Noûs) e l'Anima.
L'Uno genera lo Spirito (il due) e lo Spirito genera l'Anima (il tre).
«Ora, il Primo è perfezione e onnipotenza infinita; perciò anche lo Spirito
generato è Potenza generatrice di un'altra realtà ipostatica a sé inferiore,
l'anima; e l'anima, a sua volta, è generatrice di effetti sensibili nel mondo
spaziale e temporaneo. L'Universo viene così concepito come un grandioso
processo di autoespressione e di autorivelazione in quanto è manifestazione e
genitura dell'Uno-Bene: in funzione di questa dottrina ogni ipostasi è detta
Verbo (logos) della superiore. Il Divino è tale perché non si racchiude in sé,
ma è concepito in funzione della sua creatività inesausta e inesauribile,
immobile fuori della durata e della storicità. Soltanto l'anima umana porterà in
seno a questo Ordine immoto e inderogabile il palpito del suo amore e il fervore
di una drammatica esistenza.
Ogni ipostasi generata è inoltre infinità. Infinito per eccellenza è l'Uno,
poiché la sua potenza assolutamente libera non ha confini; perciò anche lo
Spirito, in quanto è una «unità multipla», è infinito e nessuno spazio lo
circoscrive; infinita è l'anima nella sua assoluta indivisibilità ed unità;
infinita, anche se di una falsa infinitezza, è la materia, come se essa
significasse il vuoto lasciato dalla potenza dell'anima giunta al limite della
sua efficienza.
Tale infinità non è vuota e indifferenziata potenza ed astratta unità: ciascuna
ipostasi include in sé una ricchezza indefinita, una molteplicità inesauribile.
L'Uno, quale principio di tutto il reale, pur rimanendo uno, semplice e
indifferenziato è coincidentia oppositorum, è potenza di ogni distinzione e
include in assoluta unità ciò che nella generazione si esplica in alterità e
numero; lo Spirito è uno, ma racchiude in sé la realtà delle molteplici idee
che, pur essendo in rapporto di ideale alterità col Soggetto intuente, fanno
tuttavia con esso e tra di loro un compatto immobile mondo intelligibile, in cui
ogni parte ideale contiene il tutto; l'Anima è una, ma da sé esprime ed in sé
include una molteplicità di anime individuali che non distruggono l'unità
dell'Anima infinita, come questa non annulla in esse la loro distinzione e la
loro peculiare individualità; ed ogni anima, a sua volta, contiene un numero
indefinito di ragioni seminali che si rivelano finalmente in una sempre
rinnovata varietà di caratteristiche sensibili esterne in cui finisce il
processo del reale. Così, nella discesa e nel graduale allontanamento dall'Uno,
la molteplicità inclusa nelle ipostasi si accentua e si disgrega sempre più
rispetto alle unità prime generate tendendo vanamente a dissolvere fin l'ultima
traccia dell'Unità primordiale; ma l'Uno, onnipresente ovunque si trovi una
traccia della sua potenza, vincola e connette anche le apparenze fenomeniche: la
simpatia cosmica armonizza tra loro i corpi, concilia i contrari e collega gli
avvenimenti della terra e del cielo in modo che gli uni siano "segni"
annunciatori degli altri. Poiché una sola Vita pervade ogni cosa e nessuna
cesura spezza la divina continuità dell'Universo.
Ad accentuare i caratteri di questo integrale spiritualismo e ad evitare
qualsiasi equivoca interpretazione della dottrina delle ipostasi, Plotino
insiste su quei caratteri e rapporti che impediscono di concepire queste
ipostasi come "cose" piuttosto che come funzioni e attività spirituali.
L'onnipresenza è invocata a render ragione di questa dottrina: come il Bene,
anche lo Spirito è onnipresente ed onnipresente è l'anima; lo spazio fenomenico
è illusione che non riesce ad allontanarci dalla nostra sacra interiorità: il
Divino si fa incontro ovunque a chi non coi piedi cammina, ma con lo spirito si
ricongiunge a se stesso, né il tempo riesce a disperdere in una durata logorante
i momenti sacri del presente eterno, in cui l'anima affilandosi all'Essere e
all'Uno vince il tempo e la morte.
L'ipostasi superiore contiene in sé l'inferiore e la illumina: lo Spirito è
nell'Uno, l'Anima nello Spirito, il corpo nell'Anima, ma l'Uno è soltanto in se
stesso. Tale rapporto vuol significare la correlatività dei piani di vita e
insieme la loro funzionalità essenziale: così, ad es., l'Anima in quanto
contenente il corpo guarda al corpo come ad un fenomeno strumentale che non può
violare la sua divina purezza; ma in quanto contenuta dallo Spirito, essa
riconosce al di sopra di sé una Trascendenza suprema che le dà la coscienza del
suo limite e in qualche modo la informa elevandola all'Essere.
In questo senso Plotino, adoperando con ben altra significazione metafisica la
terminologia aristotelica, afferma che la ipostasi inferiore è materia rispetto
a quella superiore: l'Anima rispetto allo Spirito, lo Spirito rispetto all'Uno.
Ma poiché le ipostasi sono al di là del divenire e del tempo, la loro relativa
potenzialità non implica movimento e processo nella durata, ma significa una
assai diversa relazione. Che cosa dunque salda in unità organica le distinzioni
e i piani spirituali senza distruggere né questi né quella? Che cosa rende
possibile questa connessione vivente senza turbare la silenziosa immobilità
delle geniture divine? A questo problema è destinato il trattato Della
contemplazione e dell'Uno (III, 8) che è dei più significativi e profondi.
L'atto immanente a tutte le ipostasi e ad esse comune è la contemplazione (theoria).
"Tutti gli esseri, non solo i ragionevoli ma anche gli irragionevoli, le piante
e la terra che li produce, desiderano di contemplare e tendono a questo fine".
All'Uno si affisa lo Spirito e contemplandolo produce in sé la ricchezza delle
sue interiori distinzioni ideali; allo Spirito guarda l'Anima producendo con un
atto di contemplazione silenziosa i suoi oggetti viventi; contempla la Natura
producendo le sue indefinite ragioni seminali. La contemplazione è produzione,
poiesis; e nei suoi gradi inferiori, attività esteriore, praxis. E la poiesis è
theoria. Tutti gli esseri sono contemplazioni: ogni vita è un pensiero, più o
meno oscuro, come la vita stessa. Perciò il contemplato, luce del contemplante,
è la ragione di vita del contemplante: l'Uno, illuminando lo Spirito, lo
determina e lo limita; Io Spirito illuminando l'Anima, la libera della sua
illimitatezza e la rende feconda; l'Anima, illuminando la realtà sensibile la
trae fuori dell'oscurità della materia e le conferisce ordine e bellezza. In
rapporto con questa dottrina della theoria poiesis si comprende con quale
significato Plotino parli delle ipostasi inferiori che girano intorno alle
superiori o sono sospese alle superiori.
La concezione plotiniana, nel suo geniale tentativo di conciliare insieme, anzi
di identificare, la staticità della contemplazione e il dinamismo del suo
sistema, il Rios theoreticós e il Bìos practicós, annunzia di lontano la
speculazione leibniziana e la precorre anche nel riconoscimento di una vita
inconscia che è pure theoria e attività creatrice. Ma le varie esplicazioni
escogitate sono ben lontane dal condurre una vera vita e una vera relazione
entro i vari piani spirituali della realtà. La loro silenziosa immobilità li
fissa l'uno fuori dell'altro: la loro deduzione trascendentale è tanto
impossibile quanto la loro generazione; essi sono lì, numerati e distinti.
Invano le immagini suggestive cercano di compiere in noi il miracolo e di farci
intuire quello che non ci è possibile comprendere; e Plotino ha un bel
moltiplicare i rapporti e le interferenze e le omogeneità e le partecipazioni e
le somiglianze e le parusíe tra ipostasi e ipostasi: esse rimangono tre circoli
l'uno dentro l'altro. E se l'immagine del cerchio, da lui spesso e volentieri
adoperata, può aiutarci a comprendere per analogia molte cose, non può tuttavia
renderci ragione della diversità sostanziale delle tre ipostasi. Qui il pensiero
si arresta.
Ma ciò che il pensiero non può spiegare teoreticamente,lo potrà attuare l'anima,
se con un atto di libera decisione si avventurerà incontro all'essere e
dimostrerà a se stessa, nell'azione e nella vita, nello spazio e nel tempo, di
poter connettere idealmente i vari piani spirituali e di poter percorrere
davvero la via diritta che dal molteplice conduce all'Uno. La chiave di volta di
tutto il sistema plotiniano è l'anima, non l'Anima universale e infinita che non
ha storia, ma l'anima individuale che prova a se stessa nella sua esistenza ciò
che il pensiero deve accettare come Dato assoluto c come mistero. Errante
quaggiù, tra questa dissonante molteplicità in cui la potenza dell'Uno
fatalmente si disperde, non può l'anima abbandonarsi ai facili vagheggiamenti e
ai giochi di un vano pensiero. Il suo destino è più forte di lei; ed essa deve,
con un atto di libera decisione, iniziare il suo cammino, anche se la mèta sia
invisibile. La sua è una sacra avventura, è un rischio che la impegna contro gli
stessi dubbi e l'impotenza del suo proprio pensiero».
L'Assoluto in sé è l'Uno, l'assoluto in
noi è la tendenza all'Uno. Tendere all'Uno per l'anima vuol dire aspirare alla
propria libertà, riconquistare se stessa e l'originario fondo del proprio
essere, raccogliersi, fuori della dispersione nel tempo e nell'eterogeneo, in un
presente eterno, che più non conosce ricordi o nostalgie di un passato ormai
inesistente, né desideri o ansie di un futuro ancora lontano. Questa originaria
tensione dell'anima all'Uno, è presenza dell'Essere nell'essere, che rende
possibile questa stessa aspirazione. Essa è luce che illumina la via del
pensiero e ne dirige il processo e gli offre la possibilità di orientarsi tra il
molteplice e di porre sempre vaste e comprensive relazioni, anche se il pensiero
dovesse essere poi destinato a un'indagine infinita; è la stessa luce che basta
ad avviare la volontà verso quella collaborazione morale che è l'essenza del
nostro vivere associato ed insieme l'espressione della ritrovata purezza
interiore, anche se nella determinazione dei princìpi morali la ragione dovesse
procedere tra sempre nuove incertezze. L'Uno non è dunque soltanto il tacito e
astratto postulato di ogni pensiero e di ogni azione, ma è anzitutto
orientamento originario e vivo della nostra vita, che rende possibile la stessa
pensabilità di quel postulato, anima dell'anima nostra.
Ma questa Unità non è un dato immediato né della esperienza sensibile né
dell'intelligenza: poiché l'immediato primo è la molteplicità esteriore, che
disperde l'anima fuori di se stessa. In rapporto con questa molteplicità
esteriore ed immediata, l'anima avverte un senso di amarezza e di sgomento, in
quanto riconosce, sia pure oscuramente, l'inadeguatezza del fenomenico a quell'Uno,
a cui tende per natura. Ecco perché il male, il dolore, l'errore, l'odio e la
morte, tutti insomma gli elementi negativi che implicano un'intima opposizione,
compiono nella vita spirituale una funzione dialettica ed esistono solo come
momenti dialettici della realtà positiva. Essi servono all'anima per iniziare il
suo processo di ascesa, per suggerire il valore superiore e, in ultima analisi,
per renderla più consapevole del suo segreto desiderio di unità. Perciò l'Uno è
Fine di un faticoso processo, meta di volontà operose: è Fine perché Principio,
Nell'Uno il circolo dell'anima si apre e si chiude: circulus bonus.
La condizione trascendentale del «ritorno» dell'anima è dunque la presenza
dell'Uno come tendenza inconsapevole. Esso è presente in ogni anima e sempre; la
sensibilità estetica può mancare in qualche individuo, il brivido dell'amore può
essere assente in qualche anima, non però la tensione all'Uno, che è la Potenza
intima, più antica. L'inconscio compie nel sistema plotiniano, qui e altrove,
come si vedrà, una funzione di capitale importanza. Ché se il pensiero che
riflette e ragiona è per Plotino un valore di secondo grado ed aspira
naturalmente, come a suo ultimo fine, non ad una razionale verità, ma al Bene,
se il Bene-Uno, pur essendo fonte del Noûs, è al di là del Noûs in una regione
spirituale dove la distinzione di soggetto e oggetto non ha più ragion d'essere,
è naturale che l'inconscio stia alla base della nostra vita e del nostro stesso
pensiero e che il processo della mente umana si svolga perennemente
dall'inconscio al conscio o, se vogliamo adoperare i termini aristotelici, dalla
potenza all'atto. Poiché l'esplicazione dell'anima non è condizionata a un
contatto col reale esterno, quasi che essa debba trarre dal visibile i suoi
tesori e il suo valore: il processo spirituale si svolge soltanto
dall'interiorità, e il fenomenico che tocca l'anima dall'esterno non è che una
«occasione» che rende possibile il compimento di un processo tutto interiore.
Se non che, la Sehnsucht all'Uno, appunto perché inconscia, non basta ad
iniziare il ritorno. É necessario che essa diventi, da vaga aspirazione, vera e
consapevole conquista attraverso un'attività intellettuale che riconosca ciò che
l'Uno è e lo discrimini da ciò che, pur manifestandolo, non è l'Uno. L'inconscio
non è valore finché rimane assoluta indistinzione.
L'anima dunque non può ritornare per il semplice fatto di avere in sé quella
inconscia aspirazione: se così fosse, tutte le anime rivelerebbero un medesimo
destino e tutte si confonderebbero in una grigia uniformità. Ora, le anime
singole si distinguono tra loro per il modo con cui si atteggiano e reagiscono
di fronte alla realtà esterna e sanno riconoscere in essa la «traccia» di un
Valore non sensibile e non fenomenico. Perciò se tendere inconsciamente all'Uno
è di tutti, anche delle cose che sembrano inanimate, ritornare all'Uno è
soltanto privilegio di pochi, di quelli cioè che hanno la capacità di sentire in
un certo modo le cose e di avvertire in esse un «al di là», ma anche, e
soprattutto, di comprendere l'invisibile messaggio e di conquistare per esso un
mondo di razionalità purissima. In pieno accordo con Platone, Plotino concepisce
i valori dello Spirito come il privilegio di una aristocrazia destinata a vivere
la sua vita superiore in una sublime solitudine: aristocrazia che egli non fa
derivare dal decreto di un cieco Destino che dispensi a caso le sorti, ma
dall'attuazione di una inesorabile Legge morale che a ciascuno dà secondo i
meriti di trascorse vite anteriori: sicché la vita presente appare allo sguardo
di ogni anima come l'espressione viva e concreta di una Giustizia universale, e
nessun avvenimento e nessuna azione rimangono estranei a una sanzione etica.
Potrà sembrare che una certa fatalità amorale incomba sulle anime e schiuda loro
dinanzi un cammino inderogabile: e in realtà, come vedremo, per Plotino come per
Goethe, nessuno può mai liberarsi 'dalla guida del suo «genio», ma deve portare
a compimento il suo destino individuale, segnato nel profondo della sua anima.
Ma chi potrà negare la necessità delle vicende esterne che accadono nella vita
empirica dei singoli? Non certo un greco, che al Cosmo ha sempre guardato come
al regno di un Ordine ineluttabile.
Di fronte al mondo delle apparenze la maggioranza degli uomini rimane attonita
come dinanzi all'unica realtà; per i molti (oi polloí) è reale soltanto ciò che
appare immediatamente al senso. Alle cose essi guardano come al loro vero unico
fine, considerando somma gioia il loro possesso. La sfera della loro
spiritualità si limita all'utile e al piacere immediato: al di là delle
apparenze essi non presagiscono nulla, ma rimangono paghi dei contatti
sensibili, abbandonandosi con voluttà e con passione alle ombre e ai fantasmi.
Conquistare le cose è tutto per essi, come se esse fossero la cosa più preziosa:
perciò, in quanto aspirano a oggetti destinati alla morte, come al loro sommo
bene, essi si considerano inferiori alle cose stesse e disprezzano
inconsapevolmente la loro anima. Credevano di essere padroni della realtà
esterna e di essere più che uomini: in realtà obliano la loro dignità umana e
decadono allo stato di cose soggette al divenire fatale, schiavi delle forze
esterne e destinati a rimanere per sempre ignari della loro divinità. Il loro
mondo è il mondo dell'utilità e del possesso, che significa disprezzo di sé e
schiavitù dello spirito.
Alcuni uomini invece, pur essendo, come la maggioranza, legati all'esterno,
sanno avvertire nelle voci del mondo ciò che sfugge agli altri: essi sono
sensibili all'incanto dei suoni, nei ritmi cercano la misura e l'accordo, nei
canti evitano disaccordi e discordanze. Come costoro, altri sono sensibili alla
bellezza dei colori o all'armonia delle linee architettoniche o al fascino della
parola. É la via dell'arte. Altri provano una strana commozione dinanzi alla
bellezza dei corpi e avvertono un incomprensibile fascino di fronte a un bel
viso armonioso e sereno: è la via dell'amore. Altri reagiscono, nei loro
quotidiani rapporti con gli uomini, con un animo mite e naturalmente inclinato
alla bontà e preferiscono subire un'offesa piuttosto che commetterla; per un
«dono divino essi, indipendentemente da ogni conoscenza razionale, scelgono la
virtù come per istinto e l'apprezzano in sé e nelle altrui azioni: è la via
della catarsi morale (se può essere considerata come una via determinata quella
interiore purezza che deve accompagnare ogni processo ascendente). Tutti costoro
- poeti, amanti, virtuosi - non considerano il mondo sensibile come unica
realtà, ma come «segno» di un'altra realtà invisibile e puramente intelligibile,
ch'essi però non conoscono ancora ma soltanto presagiscono. Perciò essi non sono
ancora liberi completamente dal fascino delle forme visibili, ma hanno già in
loro potere il mezzo per avviarsi alla liberazione. Difatti la commozione e il
brivido che li pervadono sono oscuri e inconsci sentimenti non ancora giunti
alla loro piena chiarificazione razionale.
Al di sopra di questi uomini «demonici» ci sono gli uomini «divini», gli eletti,
che non subiscono il fascino esteriore e non hanno bisogno, per salire, di
nessun «segno» o messaggio esteriore che li commuova. Il nascere e il morire
delle cose non li turbano più; per natura essi non comprendono che la realtà
intelligibile, che è per loro l'unica vera: il vero oggetto del loro pensiero è
l'eterno essere, identico al loro spirito intuitivo; unica bellezza per loro non
è quella che si rivela ai sensi incantati attraverso colori o armonie sensibili,
ma la Verità stessa che si svela nella sua purezza senza bisogno di mediazione
alcuna. In costoro la tendenza all'Uno è consapevolezza luminosa; la libertà non
è più processo di liberazione dal contingente e dal mutevole, ma pieno possesso
dell'essere e consistenza nell'essere.
Sono questi i filosofi, virtuosi per natura, il cui desiderio può ormai
ripiegarsi su se stesso e ritrovare in sé l'Uno: nessuna tendenza rimane più
inconscia ed incompresa, poiché essi non si sono fermati a constatare
semplicemente dei dati, ma hanno percorso tutti i piani della realtà
comprendendo la necessità metafisica dell'itinerario e la funzione spirituale di
ciascuno di essi. Perciò, essendo l'Uno, e non lo Spirito, la meta finale
dell'ascesa, e non essendo possibile giungere all'Uno se non per lo spirito
ormai liberato dal mutevole e dal fenomenico e possessore della Razionalità
dell'Essere, è inesatto parlare di «molte vie» che conducano all'Uno.
In realtà, non esiste che una sola via: il pensiero, che è luce che condiziona
ogni altra attività dello spirito e la rende consapevole del suo valore
soteriologico.
L'amore, l'arte, la virtù istintiva sono vie che conducono allo Spirito, non
all'Uno; e conducono allo Spirito solo a condizione ch'esse vengano accompagnate
e portate a compimento dalla presenza del pensiero. Senza il pensiero filosofico
che è «saper di vedere» l'arte rimarrebbe cerchio incantato che irrigidisce
l'anima e ne ritarda la salute suprema, l'amore sarebbe illusione terrena e
vagheggiamento di una falsa immortalità, la virtù istintiva stagnerebbe in
naturalità e impulso, priva dell'anelito consapevole che la trasforma in valore.
La via del filosofo - che è la dialettica, unica vera via - è dunque superiore
ad ogni altra in quanto è conoscenza dell'essere e perciò sa discriminare in
seno all'arte, all'amore, alla virtù inconscia, ciò che è apparenza e illusione
da ciò che è realtà vera ed eterna. Nell'atto stesso in cui il pensiero riflette
sui suoi fantasmi di bellezza e di amore, esso li trascende perché li riconosce
come fantasmi e cioè come segni di altra realtà e, superandoli, li dimentica, ma
dopo essersene servito per affermare, una volta di più, la sua libertà
dominatrice.
Utile, Bello, Vero, Bene sono, nei sistema plotiniano, i fondamentali valori
della vita: l'Utile si realizza negli immediati rapporti quotidiani con gli
uomini e con le cose; il Bello ci dà il primo annuncio di una realtà invisibile
e ci incammina verso il mondo ideale; il Vero è il pieno possesso dell'essere e
la perfetta conoscenza del nostro io; il Bene è il ricongiungimento con noi
stessi e con l'Assoluto. Questi valori devono essere distribuiti lungo quell'unico
cammino che conduce all'Uno e concepiti in funzione dialettica con la meta
finale; staccarli dalla continuità dinamica dell'unico processo ascendente e
considerarli statici e distinti porterebbe alla distruzione dell'unità della
vita spirituale dell'anima; e ciò contraddirebbe a quella tendenza all'Uno che è
al fondo del nostro pensiero e delle nostre azioni, nonché all'Uno metafisico
stesso. Si possono pensare come «distinti» purché ognuno di essi venga concepito
come momento che ha la sua ragion d'essere in quello successivo; anzi alla loro
distinzione è pur necessario pensare quando si consideri che l'Uno non distrugge
la distinzione dei piani ipostatici di vita. Ma se tale dottrina, come si è già
visto, rende possibile all'anima l'opzione tra diversi destini, non giustifica
tuttavia il relativismo che annulla l'obiettività dei valori. Perciò se l'utile
è l'utile e non è il Bello, vuol dire che esso è un distinto, non nel senso che
esso costituisca un piano di vita autonomo e sufficiente a se stesso, ma in
quanto rappresenta un mondo inferiore che il pensiero riconosce come tale
appunto perché è realmente proteso a un Fine che non è perenne processo di
conoscenza, ma riconoscimento di un'Unità che trascende ogni alterità logica. Il
Bello sensibile si distingue dal Vero, ma solo per risolversi nel Vero; il Vero
si distingue dal Bene, ma per condurre l'anima al Bene.
Perciò se da un lato la dialettica plotiniana può apparirci come una dialettica
dei distinti, data la irriducibile trinità delle ipostasi, dall'altro essa può
anche essere considerata come dialettica degli opposti, essendo quelle ipostasi
soltanto momenti di un unico processo vitale che culmina nel Bene. Ma ad
impedire una decisa identificazione in un senso o nell'altro, giova ricordare
ancora una volta che il pensiero, nel sistema plotiniano, non è né
esclusivamente destinato a costruirsi in sapere storico in cui si assorba e
scompaia il personalissimo intimo destino dell'individuo pensante, né è soltanto
perenne infaticabile ricerca che goda, in una eterna vicenda di opposti,
ripensare la rinnovata ricchezza del suo contenuto e tendere a una sintesi
irraggiungibile. In Plotino non c'è vera storia al di fuori di quella interiore
del singolo, che rifà, in ordine ascendente, il processo delle eterne ipostasi;
e d'altra parte le opposizioni non esistono in seno ai valori, ma solo ai
margini della realtà fenomenica, nel pulsante ritmo dell'esistenza quotidiana.
La dialettica plotiniana appartiene soltanto all'anima e conosce una meta
suprema che è una ed immota fuori del tempo e della storia.
Il ciclo della vita dell'anima, nella sua fenomenologia terrena, è dunque un
processo spirituale che ha le sue radici e il suo inizio nell'inconscio e
nell'irrazionale, nell'esteriore e nel sentimento, e culmina nell'ineffabile
gaudio dell'infinita Razionalità, posseduta nell'unità del proprio spirito. Di
quell' «irrazionale» immediato Plotino ha riconosciuto la funzione iniziatrice,
dimostrando così che al regno dello Spirito non si può giungere se non
attraverso il concreto e la molteplicità e valutando perciò, dentro i necessari
limiti, le forze oscure e primigenie dell'istinto e della creatività originaria
e insieme la segreta spiritualità del mondo sensibile e il suo valore di
«occasione» allo scoprimento dei valori eterni. Di qui il suo ottimismo eroico
con cui sa guardare alle vicende terrene, tristi e forse anche terribili e
nefaste nell'apparenza, ma capaci di avviare l'anima, che sappia comprendere il
silenzioso messaggio, a quella interiorità impassibile e beata che non teme
nessun orrore. L'esteriore non ha se non quel significato che l'anima, cieca
della sua ignoranza o veggente della ritrovata luce interiore, gli concede. Di
qui la sua lotta contro il pessimismo gnostico, che condannava il mondo come
opera di un demiurgo malvagio e non s'accorgeva di precludersi così il cammino
che avvia alla salute interiore.
Se l'unica vera via che conduce all'Uno non è che il pensiero, e le altre vie
compiono la loro funzione soltanto se si risolvono in pensiero dialettizzante,
anche l'attività morale non deve essere considerata come una via, ma come la
condizione primaria dell'ascesa in tutte le sue forme. L'imperativo morale -
Afele pánta: elimina ogni particolarità - è insieme un imperativo gnoseologico:
per raggiungere lo Spirito che è libertà, purezza e piena autoconoscenza, è
necessario superare il piano più basso della vita, in cui le cose esteriori e
contingenti incantano, come allettanti sirene, l'anima e la costringono ad
abbandonare la sua divina interiorità e con piaceri e sdegni e passioni d'ogni
sorta la inducano ad operare azioni che hanno rapporto col suo corpo, cioè coi
suoi bisogni economici transeunti e individualistissimi. La virtù perfetta non è
compromesso né col proprio corpo né con la realtà sociale che ne circonda: le
virtù civili o politiche, se da un lato sono un bene in quanto elevano l'uomo al
di sopra della sua impurità, dall'altro rappresentano ancora un piano morale
inferiore e un grado di schiavitù spirituale. L'anima aspira alla sua libertà e
alla sua purezza; ma la libertà non esiste per lei se non nello Spirito dove il
pensiero è pieno possesso di sé e l'esteriorità non esiste più. Il ritmo
sensibile è ritmo di opposti, incessante vicenda di nascita-morte,
azione-passione, piacere-dolore; in questo mondo non c'è posto né per la libertà
né per la purezza, poiché esso è il mondo dei «motivi» che spingono ad agire
esternamente nel tempo e nello spazio. Perciò se soltanto lo Spirito è libertà e
purezza, elevarsi ad esso vuol dire purificarsi moralmente e insieme assurgere a
una sempre più adeguata conoscenza. Nella sua finale perfezione, la virtù è
contemplazione noetica e forma e sostanziale idea; perciò se il processo morale
è «purificazione» e perenne sforzo di elevazione, ]a virtù nella sua essenziale
natura è purezza assoluta.
Alla sfera più bassa della conoscenza corrisponde un agire che è istintività,
costrizione esterna, schiavitù dello spirito; la conoscenza suprema è invece
pieno e libero possesso di sé; tra il primo e l'ultimo grado di questa ascesa il
conoscere è anche un fare travaglioso che, nel momento stesso in cui allontana
da sé tutto ciò che è gnoseologicamente inadeguato ed oscuro, elimina ciò che è
eticamente impuro ed utilitaristico. La volontà è dunque destinata a risolversi
da impulso inconsapevole in conoscenza intuitiva e ad affermare, nel
riconoscimento della necessità dell'Essere, la sua libertà vera. In ciò consiste
quella omoiosis teó che è la meta dell'azione morale; ma se il dio supremo, pur
rimanendo in sé, opera eternamente senza mai legarsi al risultato della sua
creazione, è naturale che anche l'anima, assimilatasi allo Spirito e all'Uno
nella sua contemplazione indefettibile, non si immobilizzi in una morta inerzia,
ma continui ad operare nel mondo sensibile, ferma al suo Principio, guardando al
suo corpo come a cosa estranea a se stessa e rivelando nelle sue operazioni il
perenne distacco dai frutti delle sue azioni e il disprezzo per ogni «possesso».
Così essa vive, sospesa all'Eterno; e la sua felicità, identica alla visione
dell'essere, non è dispersione in tempi diversi, ma Iota simul nell'eterno
presente: è, per adoperare il termine spinoziano, gaudium, non laetitia.
Identificato così il processo ascensivo o dialettico dell'anima con la prassi
catartica, è facile comprendere perché, nel pensiero plotiniano, la
purificazione condizioni le varie attività spirituali che conducono al Noûs: non
può l'amore redimere se la purezza non lo nobiliti e non gli schiuda una visione
più vasta della passione che angustia le anime; non può l'artista assurgere alla
contemplazione della Bellezza imperitura, se pratici interessi turbano ancora il
suo sguardo interiore e rendono impossibile la sua intuizione pura; non può il
pensiero compiere il suo itinerario logico in cerca di una Verità immobile, se
l'anima è travolta da mille discordanti opinioni ed affetti, ai quali crede
ancora più che al richiamo dell'Invisibile. Beati i puri di cuore perché
vedranno Dio.
L'essere è molteplicità intelligibile e
alterità di soggetto e oggetto: il pensiero è identico al pensato, ma non si
annulla nel pensato, poiché rimane pur sempre pensiero discriminante. L'Essere è
ciò che è eternamente, è Necessità e Obbiettività prima. L'anima, giunta alla
visione dell'essere, ha conquistato la libertà dalle apparenze fenomeniche
vincendone il fascino magico, ha riconquistato nell'Essere l'essere proprio, ma
non ha attinto ancora l'Assoluto, che è Unità e Libertà al di sopra del
molteplice e del necessario. Il pensiero stesso, che pur compie la sua funzione
in seno alle articolazioni ideali dell'Essere e dovrebbe perciò esaurire qui il
suo compito e le sue esigenze senza aspirare ad altro al di sopra di sé,
constata in sé una tensione all'Unità assoluta quale mèta suprema di ogni
desiderio. Malgrado la funzione iniziatrice solennemente riconosciuta al
pensiero, la metafisica plotiniana segna il trionfo dell'Ineffabile e del
sentimento. É vero che l'Uno è anche il fondamentale postulato del pensiero e la
condizione assoluta dello spirito, e ciò è sufficiente a impostarlo
legittimamente in un sistema di pensiero; ma è altrettanto vero che il pensiero,
ove si impegni a definirlo in qualche modo, è destinato a sfociare in un Nulla
innominabile. E infatti l'Uno non è né puro oggetto, né puro soggetto, poiché
l'uno rimanda all'altro in un'alterità insuperabile: non è la pura
coscienzialità dell'anima, che rimane dopo la rimozione di qualsiasi contenuto
sensibile e intelligibile, ché, in tal caso, chiunque e in qualsiasi momento
potrebbe con un semplice sforzo di astrazione, senza iniziazioni logiche o
morali o artistiche, realizzare l'esperienza suprema; e nemmeno è Oggetto
determinabile, poiché ogni determinazione logica delimita e nel delimitare pone
l'Oggetto fuori del soggetto, contraddicendo così allo stesso pensiero che esige
l'onnipresenza vivente del Divino.
L'esigenza dell'Uno, per il pensiero effettivamente sempre congiunto con una
molteplicità, rimarrebbe una vuota astrazione, se una peculiarissima esperienza
interiore non ne fosse in qualche modo una vitale conferma. L'esperienza del
Divino o del Numinoso è «senso di presenza», di gaudio interiore, di libertà
perfetta e di assoluta unità con se stessi, è un raptus ineffabile che vibra di
una sua inesprimibile tonalità affettiva; né il pensiero può darne l'equivalente
logico in concetti, né la parola descriverla. Perciò Plotino non tenta nemmeno
di ricostruirla con immagini suggestive, ma si richiama sempre all'esperienza
dei singoli, riconoscendo così implicitamente l'universalità umana di questo
universalissimo atto spirituale. Che il pensiero tratti di Dio come del suo
oggetto supremo e lo «pensi» con l'estrema tensione del suo intuito è un dovere
logico, ma non è ancora la realizzazione piena del nostro spirito; un dio
pensato non è il Dio vivente, ma la contraddizione alle esigenze stesse del
pensiero che concepisce l'Uno come il Liberatore delle anime, che, vivendo in
esse, non le rende contemplatrici di una libertà estrinseca (che non è libertà)
ma capaci di affermare se stesse in divina libertà.
Il metafisico intellettualista potrebbe obbiettare che Dio non è oggetto di
scienza, cioè di esperienza, ma della metafisica, vale a dire del puro pensiero
metempirico; ma ciò, oltre a negare arbitrariamente una potenza psichica
superiore, contraddirebbe aile esplicite dichiarazioni di tanti mistici, da
Lao-Tse e Chuang-Tse a Giovanni della Croce, dai Brahmani ai Sûfi arabi, da
Agostino a Meister Eckhart, che rivelano, anche in questa personalissima
esperienza, l'universalità dello spirito umano.
Ma l'affettività come tale non può interpretare se stessa,così come il pensiero
non può attingere la Vita divina nella sua attuosità: finché il mistico vive la
sua mistica esperienza, non ha bisogno di alcuna giustificazione razionale
poiché egli è in possesso di una certezza assoluta; soltanto quando l'attimo
sacro sia trascorso, il pensiero sente la necessità di ripensarlo in funzione di
una dottrina organica e di ricostruirlo come Valore riscattandolo così dalla sua
naturalità immediata; esso costruisce perciò quella teoria dell'Uno ineffabile,
che, se da un lato esprime il fondamentale postulato dell'intelligenza e della
volontà, rischia dall'altro di rimanere vuota formula ove non si realizzi in un
atto di vita. Il sentimento mistico ritrova nel pensiero il suo riconoscimento
razionale che lo sa discriminare da ogni altra affettività aspirituale; e il
pensiero trova nell'unione estatica la sua vitale conferma, cessando così di
tormentarsi in una perenne alterità logica. Ciò non toglie che il raptus mistico
rimanga pur sempre nel suo profondo un «irrazionale», un «tutto altro», che,
malgrado la brama chiarificatrice della mente, si interpreta solo con se stesso.
Ma l'impostazione che tale abissale esperienza ottiene in Plotino ci impedisce
di vedere nel suo misticismo un precorrimento della teologia irrazionalistica di
un Otto o di un Barth. L'Uno, per Plotino, è al di sopra del Noûs, ma è fonte
del Noûs e della Razionalità del cosmo; chi desidera giungere al sommo della
Vita infinita non deve abbandonarsi ai ciechi casi, alle emozioni quotidiane,
all'irregolare vicenda degli impulsi e dei sentimenti, ma disciplinare la sua
passionalità per assurgere a una purezza morale che è anche conoscenza intuitiva
della eterna razionalità e dell'essere proprio. Al culmine di questa ascesa
intellettuale e morale l'esperienza mistica non è dunque l'«absurdum» che sfida
ogni nostra convinzione etica o razionale, ma è Valore dei valori, consacrazione
suprema del nostro processo catartico e dialettico.
In questa notte mistica l'uomo si perde; la sua individualità svanisce
nell'Unità infinita che non ha confini nel pensiero né rapporti con l'essere;
l'anima raggiunge in se stessa il centro luminoso della vita, la fonte della sua
esistenza. Qui tace ogni rumore mondano, qui la tenebrosa Potenza generatrice
vive se stessa e si rispecchia negli infiniti nuclei di vita che da lei sono
scaturiti e che in lei ritornano. Il dolore, che è retaggio di tutto ciò che,
emergendo dall'infinito, assume un nome e una forma, non ha più senso. Qui tace
il desiderio che ha raggiunto il bene; qui il pensiero, che è desiderio, ha
ritrovato la sua sorgente prima, ha ritrovato l'Uno, non già come oggetto di una
tormentata intuizione, condannata ad arrestarsi sempre di fronte a una sua
costruzione inadeguata, ma l'Uno in se stesso.
Se l'estasi non avviene per nessuno speciale intervento divino, ma per le stesse
forze spirituali, naturalmente immanenti all'anima, ne consegue ancora che
all'Uno si può giungere già in questa vita terrena e che l'unione estatica non è
privilegio di un al di là. Il mistico infatti non si preoccupa tanto di una vita
spirituale perfetta che si compia dopo la morte, quanto invece della stessa vita
terrena, poiché la corporeità che accompagna l'anima non menoma affatto la sua
potenza spirituale né ritarda il compimento del suo destino superiore. Una
divisione in «al di qua» e «al di là» non ha senso per Plotino, o, per lo meno,
non ha quell'importanza che, agli effetti della vita morale-religiosa, possiede
invece nella mistica ortodossa cristiana e specialmente nell'antiplatonico
Tommaso. Che Plotino affermi l'immortalità dell'anima e la possibilità, per lei,
di raggiungere un'assoluta immateriale purezza, è ovvio ricordare; perciò è
naturale che egli distingua tra l'esperienza mistica di quaggiù, ove essa
costituisce soltanto una breve fase, dall'unione definitiva che riempie di sé
tutta l'eternità. Ma non si tratta, com'è chiaro, che di una differenza
quantitativa: l'eternità non è separata dicotomicamente dal tempo e non
appartiene affatto a un mondo inesorabilmente negato all'anima, ma è la realtà
vera dell'anima, e può quindi essere instaurata nella sua vita stessa; la morte
del singolo non è la chiusura ineluttabile di un destino, dopo cui non sia più
possibile rinnovare il processo della redenzione, ma è un momento o un episodio
in una vicenda che comprende più vite e più morti, al quale si può guardare
senza terrore perché non segna una decisione irrevocabile; la nascita, a sua
volta, non è l'entrata in un mondo già condannato, per un'orribile colpa, ad
essere un breve esilio e a rimanere lontano dall'immediato contatto con Dio, ma
è una fase della vita del cosmo, in cui l'anima non anela invano a un Bene
irraggiungibile, ma lo raggiunge in se stessa, perché nessuna colpa originale ha
scavato tra lei e il Padre un abisso umanamente incolmabile. La distinzione tra
«naturale» e «soprannaturale» si può dire che esista anche in Plotino, ma non
esige se non l'opera dell'anima a compierne la sutura. Ecco perché i mistici
cristiani attingeranno copiosamente alle Enneadi come a un libro di vita, ma
senza ricordarne l'autore: il misticismo plotiniano era troppo umanistico e
pericoloso, in quanto deviava lo spirito, dalla concezione imperniata sul valore
della grazia e della mediazione del Cristo, verso una religiosità schiettamente
speculativa.
Quando l'Uno sia stato raggiunto e goduto quaggiù, l'anima non vi rimane assorta
per sempre, ma ritorna ancora a vivere tra i suoi simili portando con sé il
senso del Divino e il perenne eroico distacco da ogni bene inferiore, la beata
Gelassenheit: ché non può l'unione estatica con l'Uno non rinnovare dal profondo
tutta una vita e non dare alle cose più insignificanti un sapore divino. Il
mondo non svanisce, ma viene trasfigurato; il Divino non sopraffà l'umano sino
ad annientarlo, come nel misticismo orientale, ma si instaura nell'umano.
Difatti il processo della generazione ipostatica non è illusorio ma reale; i
piani della vita spirituale non possono svanire come ombre vane, perché sono
oggettivissimi, possono bensì riconquistare nell'anima e per l'anima una loro
più armonica compresenza, perché vissuti nel contatto dell'Uno. Così avviene che
il mistico, dopo l'unione suprema, riacquisti massimamente potenziata la propria
personalità e viva il molteplice non più come dispersione fatale, ma come
raccolto e incentrato nell'anima che ha ritrovato l'intima unità con se stessa.
Solo a questa condizione sono possibili le azioni veramente morali, le opere che
rinnovano spiritualmente l'umanità, l'attività saggia dei politici che realizza
una sempre più vasta solidarietà sociale. I valori dello spirito non sono
possibili se non per l'anima coerente con se stessa, per quella che attingendo
la sorgente prima della vita universale e sua propria si è ricongiunta alla sua
natura schietta e pura, al suo essere originario e libero, alla «coscienza
profonda» di cui parleranno il Rousseau e l'Hölderlin, fuori di ogni aggiunta
estranea e profanatrice. L'Uno infatti non è né il Vero né il Bello, ma è la
fonte prima del Vero e del Bello; il Bene li condiziona entrambi. Perciò chi
abbia instaurato in se stesso l'unità divina ha in sé la condizione assoluta per
poter intuire l'universo sub specie aeternitatis, vale a dire la verità e la
bellezza di ogni cosa, e per rimanere tra gli uomini senza odio e senza amore,
con cuore puro e sereno. Il processo dialettico dell'ascesa era conquista,
liberazione e purificazione, ma non si prolungava in un tormento indefinito
verso una mèta irraggiungibile in questa vita, poiché l'anima non è processo
rettilineo, inteso a perseguire fuori di sé un Essere inattingibile, ma è
circolarità che si conchiude in se stessa e nel suo ciclo compiuto attinge se
stessa e in sé l'Assoluto.
Come l'Uno è attività assoluta che opera senza possedere i suoi prodotti, in
piena gioiosa libertà, così l'anima, che ha raggiunto il suo centro ed ha
instaurato in sé il Divino, agisce con perfetto distacco dalle cose esteriori.
Essa è ormai libera dal fascino delle cose e dagli affetti terreni, non si lega
ad amori e a vincoli umani, ma non per questo è inoperosa e inerte. La sua vera
vita è il bios theoreticós; ma anche il suo theorein, come quello delle eterne
ipostasi, è un «fare» che non è estrinsecazione e dispersione del principio
generante. Niente di più inesatto perciò il credere che il misticismo plotiniano,
in quanto esalta la vita contemplativa sopra il tumulto delle passioni e della
smania di possesso, voglia dire quietismo e atonia spirituale. La vita del
mistico che ha ritrovato in se stesso il Divino non deve essere concepita come
perenne visione estatica. Il momento sacro dell'unione suprema, benché possibile
quaggiù e spiritualmente necessario, non è che un raro istante che interviene,
nei momenti di grazia, a elevare nuovamente l'esistenza alle sorgenti stesse
della spiritualità e a ridonarle quel senso divino, eroico e puro, che minaccia
di assopirsi e di dissolversi tra i rumori e gli odi della vita quotidiana. La
vita dell'uomo comune è ritmo di cadute e di rinascite, è oscillamento che non
ha mai pace; la vita dell'uomo superiore è anch'essa ritmo, ma di momenti ognora
pervasi dalla presenza dell'unità interiore: ora è la comunione mistica che
rapisce l'anima sino alle vette dell'Inesprimibile, ove la perfezione della
forma è ciò che non ha più forma: e questa è la divina tregua dell'esistenza che
non sa né il conoscere né l'operare; ed ora è la comunione con gli uomini, cui
l'anima offre, con disinteressata benevolenza, i frutti della sua umanità
rinata.
Se poi guardiamo all'unione estatica, dobbiamo chiederci se il misticismo
plotiniano conduca a una posizione di panteismo. Considerata in se stessa come
atto di vita, l'estasi mistica non è se non contatto immediato (prosbolé) di cui
nessuna parola e nessun concetto possono rendere l'equivalente logico, e perciò
non può costituire la base positiva a una dottrina panteistica. Se di panteismo
si può parlare, dobbiamo cercarlo nell'interpretazione che il pensiero escogita
dell'esperienza mistica; ora, non mancano in Plotino i termini che possono far
pensare a un vero e proprio panteismo. E difatti, se quell'esperienza è
interpretata come assoluta unità dell'anima con se stessa e come assoluta
assenza di alterità di soggetto e oggetto, è naturale che in quell'attimo sacro
l'anima e l'Uno non costituiscano una dualità, ma una inequivocabile identità.
Al culmine della vita spirituale si compie il prodigio, che è anche la più
grande sfida al pensiero discriminante e un'insolubile antinomia. E difatti
l'estasi (ecstasis), se da un lato dev'essere intesa come la suprema interiorità
del soggetto, dall'altro ci appare come assoluto superamento della soggettività
e come annientamento dell'io personale. Sta il fatto che in Plotino l'anima non
è l'Uno eppure vive nell'Uno e può ritornare ad esso. La teoria delle ipostasi è
tutt'altro che panteistica, ma la particolare dottrina che afferma l'immanenza
del generato nel generante sembra fatta apposta per suggerire pericolosi motivi
di panteismo: è ciò che avverrà del misticismo speculativo di Meister Eckhart e
della sua dottrina della «scintilla dell'anima».
Di fronte ai culti misterici, alle pratiche teurgiche, ai riti orientali, la
religione plotiniana è l'espressione del più spirituale equilibrio intellettuale
e morale: con quelli non conosce compromessi; e se ad essi talora ricorre e
sembra indulgere al loro valore religioso, si tratta soltanto di un riferimento
superficiale che, nell'atto stesso in cui li include nel sistema, li svuota del
loro effettivo significato per trasformarli in simboli ed immagini di una
concezione più razionale della Vita. Lo sforzo immane compiuto da Plotino
consiste nell'aver voluto conciliare insieme la ragione e l'esperienza mistica,
la dialettica e l'Ineffabile. Altre anime, assetate, come la sua, di sapere e di
divino oblio, riscopriranno in lui, fuori delle religioni storiche e dei dogmi e
dei riti esteriori, l'espressione di una religiosità pura in cui si ritrovino
gli uomini migliori, lo scienziato non meno del poeta, il politico non meno
dell'artista. La sua è la religione degli eletti che nell'intuizione dell'Unità
universale colgono il frutto migliore delle loro umane possibilità.