"me pinguem et nitidum bene curata cute
vises
cum ridere voles, Epicuri de grege porcum"
(Orazio, Epist., I, 4)L'ironia che Orazio rivolge a se stesso,
mentre si definisce come uno che va ad iscriversi nelle fila della saggezza
epicurea, puntando l'attenzione prevalentemente sull'aspetto godereccio, per
così dire, della dottrina, non dice tutta la complessità dell'etica
insegnata da Epicuro.
Del resto Orazio non intende esporre che principi generali - e non
dottrinali - all'amico Albio Tibullo, allo stesso modo in cui esorta al
carpe diem o rivendica l'aurea mediocritas. Orazio recepisce
delle suggestioni che influenzavano i poeti del circolo di Mecenate. Una
assai diversa sensibilità lo anima rispetto a Lucrezio, che ci ha tramandato
la più compiuta esposizione dell'epicureismo in ambito romano.
I sistemi filosofici dell'ellenismo si configurano in parte come regole
pratiche del buon vivere, in parte rielaborano le eredità platonica e
aristotelica, assimilandone alcune istanze e polemizzando con altre. Se
vogliamo fare un breve confronto, ciò che resta più lontano dalla modernità
è comunque la concezione del bene come virtù e piacere, razionalmente
individuabili e saldati in una unità coincidente con la piena realizzazione
della natura umana. Oggi sembra del tutto fuori luogo credere e far credere
che nel mondo lacerato da sempre più profonde differenze sociali (anche nel
cosiddetto primo mondo) ciascuno può realizzare il proprio piacere sapendosi
accontentare di ciò che si ha, ma in fondo anche filosofie ellenistiche
confortavano le differenze sociali lasciandole così com'erano.
Non veramente diffuso a livello popolare, l'epicureismo arrivava nella
satira e nel pensiero comune in forme becere e immediate, di elogio e
pratica del piacere sensibile fine a se stesso.
Una contestualizzazione storica suggerisce di affiancare, almeno
cronologicamente, l'epicureismo alla nascita delle filosofie stoica,
scettica, cinica, cioè a quelle forme di pensiero che prediligono l'aspetto
etico rispetto a quello teoretico, proprio delle filosofie precedenti, come
il platonismo o l'aristotelismo, e pratico (o pratico-politico).
La creazione e istituzionalizzazione di scuole, il prestigio dei maestri di
filosofia erano un punto di riferimento nel mondo ellenistico, considerati
come modelli di comportamento oltre che di insegnamento, ed essi
esercitavano, nelle vesti di guida spirituale, la pratica dei giovani che
per la propria formazione volevano accedere al più alto livello di
preparazione ed elevarsi al di sopra della massa degli stolti. Trasmettendo
una sapienza su "come vivere", la scuola fornisce così un riferimento per la
definizione dell'identità, un luogo in cui un gruppo abbastanza ristretto
può riconoscersi e condividere dei valori, primo fra tutti l'amicizia, le
scelte intellettuali e di vita.
Nell'ellenismo, con la specializzazione dei saperi, la formazione di
circoli, la condivisione di principi e valori, il saggio si allontana dal
contesto politico e si ritira ai margini, inseguendo un'ideale serenità o
allontanamento dagli affanni del vivere, una felicità "privata". A
differenza dello stoicismo e dello scetticismo, infatti, proprio
l'epicureismo resta sempre piuttosto marginale e passa indenne nel mondo
romano attraverso le epoche, i poteri e i climi culturali, rigidamente
cristallizzato nell'insegnamento del suo fondatore e per sua natura poco
adatto a farsi coinvolgere nelle istanze politiche e del potere, restando
legato a ristretti circoli aristocratici. L'epicureismo, poco permeabile,
arriva ad estinguersi senza aver subito sostanziali modifiche e adattamenti.
Lucrezio riprende organicamente il pensiero di Epicuro invocando pace e
serenità per i Romani oramai pericolosamente vicini alla guerra civile,
facendo leva sulla saggezza che deriva dalla giusta conoscenza delle cose,
che si dovrebbe seguire, poiché realizza la virtù e perché cancella le
superstizioni che inducono gli uomini all'errore e ad atti empi, a scelte
sbagliate, "suicide" diremmo noi.
Le dottrine etico-pratiche, dunque, si concentrano sul raggiungimento
della serenità stabile: il piacere dell'epicureo è affare abbastanza
complesso e si definisce per sottrazione e negazione: il piacere è assenza
di dolore. Vivere saggiamente è esercizio continuo di saggezza pratica o
prudenza (phronesis), che conduce al mantenimento costante del
piacere catastematico, frutto di una pratica non irriflessa ma, appunto,
risultato dello sforzo, del calcolo, di comprendere quale sia la gioia
stabile dell'esistenza, non la soddisfazione effimera, ma il risultato
dell'eliminazione del dolore e di ciò che lo provoca. La vita umana è
afflitta da timori e false credenze che la costringono entro i lacci
dell'angoscia e della paura, ma dai quali la riflessione razionale può
aiutare a svincolarsi, e giungere a vedere la realtà o verità delle cose,
meno spaventosa dei frutti della nostra immaginazione.
La filosofia, il percorso di sapienza è, in altre parole, un mezzo per
raggiungere la felicità, l'eudaimonia degli antichi, il buon
equilibrio della vita, la lontananza dal male, sia esso il dolore fisico (a-ponia)
o i tormenti dell'anima (a-tarassia). Il "buon demone" è dunque
assenza di fatica, afflizione e una sorta di calma piatta, senza
scuotimenti, agitazioni, ansie; detto altrimenti, un piacere caratterizzato
dall'alfa privativo. Il saggio non si fa perciò trascinare dagli eventi, ma
decide in libertà del proprio destino, secondo il calcolo (logismos,
attività razionale) e l'inclinazione, compie scelte valutando cosa sia il
piacere duraturo e se valga la pena sopportare un male passeggero in vista
di un bene più grande.
Il valore della scelta epicurea risiede soprattutto nella gnoseologia, che,
con il suo empirismo e la lontananza da qualsiasi metafisica trascendente,
libera l'uomo dalla superstizione, da timori infondati, per pervenire alla
serenità necessaria per affrontare prove "insuperabili", che riempiono gli
uomini di terrore, come la morte, o dagli errori di valutazione che possono
avere nefaste e tragiche conseguenze, quale l'assurdo sacrificio di
Ifigenia, come si legge in Lucrezio, e servire da esortazione per evitare
catastrofi collettive come la guerra. Non credere a ciò che è vano e falso
significa non prestare fede a null'altro che alla propria percezione, senza
trarre conclusioni (elaborare opinioni) non supportate da essa.
Riguardo a come affrontare la morte ecco il celebre passaggio della
Lettera a Meneceo:
"il più terribile dei mali, dunque, la morte,
non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte
non c'è, e quando essa sopravviene noi non siamo più. Essa non ha
alcun significato né per i viventi né per i morti, perché per gli uni
non è niente, e, quanto agli altri, essi non sono più... Abituati a
pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male
risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto
privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per
noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita."
(Epist. a Meneceo 125,124) |
Vulgata redatta dallo stesso Epicuro, prontuario di massime e regole da
imparare mnemonicamente anche per chi non possa seguire in profondità la
speculazione fisica e gnoseologica, la Lettera è un compendio che
l'autore stesso raccomanda di mandare a memoria per fare fronte ad ogni
frangente ricorrendo alla dottrina. Come si è detto, il piacere è assenza,
la "retta conoscenza" è negazione: affidarsi completamente alla sensazione
evita di cadere in errore, libera dalla paura e concede la tranquillità,
vale a dire il piacere duraturo.
Ma bisogna distinguere: la dottrina indica diversi tipi di piaceri o
desideri: Epicuro considera "naturali e necessari quei piaceri che portano
alla soppressione del dolore, per esempio bere quando si ha sete; naturali e
non necessari quelli che rendono vario il piacere senza però comportare la
cessazione di una sofferenza, per esempio il desiderio di cibi opulenti; non
naturali e non necessari quelli, ad esempio, di corone e statue in proprio
onore". (Massime Capitali XXIX). Siamo così lontani dalla
volgarizzazione che vorrebbe vedere nell'epicureo il porcello liscio e ben
nutrito votato alla crapula.
Le tesi esposte nell'Epistola a Meneceo riprendono alcuni precetti
del cosiddetto tetrafarmakon sintesi minima, estrema, del pensiero di
Epicuro, dove si ribadisce che la morte non è niente per noi, si afferma che
il piacere è sempre raggiungibile, e che il dolore è sempre sopportabile
perché o è intenso, e allora dura poco, o non lo è, e allora ci si abitua.
Per una beffa del destino (ma egli non avrebbe accettato questa
determinazione) (1), sembra che Epicuro abbia sofferto di
una lunga e dolorosa malattia, sopportando questo male fino alla fine con
grande forza d'animo, sorretto dalle proprie teorie.
Note
1. "E in verità sarebbe meglio credere ai miti
sugli dei che non rendersi schiavi di quella necessità che predicano i
fisici; quel mito infatti offre una speranza con la possibilità di placare
gli dei con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile." (Epist.
a Meneceo 133-134) |