| |
Esercizi spirituali nella
filosofia antica (Pierre Hadot)
"Fare il proprio
volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso.
Ogni giorno un «esercizio spirituale», da solo o in compagnia di una persona che
vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi
di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore
intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prude come un male cronico).
Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l'odio. Amare tutti gli uomini liberi.
Eternarsi superandosi.
Questo sforzo su di sé è necessario,
questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella
politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari,
rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere
degni".
A parte le ultime righe, questo
testo non pare un'imitazione di Marco Aurelio? È di G. Friedmann, ed è
certamente possibile che l'autore, scrivendolo, non fosse consapevole di questa
somiglianza. D'altronde nel resto del suo libro, cercando «quali siano le
proprie fonti», giunge alla conclusione che non esiste nessuna tradizione
(ebraica, cristiana, orientale) che sia- compatibile con le esigenze della
situazione spirituale contemporanea. Ma, curiosamente, non si chiede quale sia
il valore della tradizione filosofica dell'antichità greco-romana, mentre le
poche linee che abbiamo citato mostrano fino a che punto, inconsciamente, la
tradizione antica continui a vivere in lui come in ciascuno di noi.
«Esercizi spirituali».
L'espressione svia un poco il lettore contemporanei. In primo luogo non è più
elegantissimo, oggi, l'uso della parola «spirituale». Ma dobbiamo pur
rassegnarci a impiegare questo termine, poiché gli altri aggettivi o
specificazioni possibili - «psichico», «morale», «etico», «intellettuale», «di
pensiero», «dell'anima» - non coprono tutti gli aspetti della realtà che
vogliamo descrivere. Si potrebbe evidentemente parlare di esercizi di pensiero,
poiché, in tali esercizi, il pensiero fa in qualche modo di se stesso la propria
materia, e cerca di modificare se stesso. Ma la parola «pensiero» non indica in
maniera abbastanza chiara il fatto che l'immaginazione e la sensibilità
intervengano in questi esercizi in un modo molto importante. Per gli stessi
motivi, non possiamo accontentarci di «esercizi intellettuali», sebbene gli
aspetti intellettuali (definizione, suddivisione, ragionamento, lettura,
ricerca, amplificazione retorica) vi svolgano una parte molto importante.
«Esercizi etici» sarebbe un'espressione abbastanza seducente, poiché, come
vedremo, gli esercizi in questione contribuiscono fortemente alla terapia delle
passioni e si riferiscono alla condotta della vita. Eppure anche questa sarebbe
una visione troppo limitata. In realtà tali esercizi (il testo di G. Friedmann
ce lo fa intravvedere) corrispondono a una trasformazione della visione del
mondo e a una metamorfosi della personalità. La parola «spirituale» permette, a
nostro avviso, di fare capire come tali esercizi siano opera non solo del
pensiero, ma di tutto lo psichismo dell'individuo, e, soprattutto, rivela le
vere dimensioni di questi esercizi: grazie ad essi, l'individuo si eleva alla
vita dello Spirito oggettivo, ossia si colloca nella prospettiva del Tutto
(«eternarsi superandosi»).
Accettiamo, se è necessario, questa espressione «esercizi spirituali», dirà il
nostro lettore. Ma si tratta degli Exercitia
spiritualia di Ignazio da Loyola? Quale rapporto esiste fra le meditazioni
di Ignazio e il programma di G. Friedmann: «Uscire dalla durata... eternarsi
superandosi»? La nostra risposta, semplicissima, sarà: gli Exercitia
spiritualia non sono che una versione cristiana di una tradizione
greco-romana, di cui dovremo mostrare l'ampiezza. In primo luogo, il concetto e
l'espressione «esercitium spirituale» sono testimoniati, ben prima di Ignazio da
Loyola, nell'antico cristianesimo latino, e corrispondono all'ασκησις del
cristianesimo greco. Ma, a sua volta, questa ασκησις,
che non deve essere intesa nel senso di ascetismo, bensì come pratica di
esercizi spirituali, esiste già nella tradizione filosofica dell'antichità. È
dunque a quest'ultima che occorre infine risalire, per spiegare l'origine e il
significato di questo concetto di esercizio spirituale che è sempre vivo, come
testimonia G. Friedmann, nella coscienza contemporanea. Il presente studio non
vorrebbe solo ricordare l'esistenza di esercizi spirituali nell'antichità
greco-latina, vorrebbe soprattutto precisare l'intera portata e importanza di
tale fenomeno, e mostrare le conseguenze che ne derivano per la comprensione del
pensiero antico e della filosofia stessa.
1. Imparare
a vivere
È nelle scuole di filosofia
ellenistiche e romane che è più facile osservare il fenomeno. Per esempio gli
stoici lo dichiarano esplicitamente: per loro la filosofia è un «esercizio». Ai
loro occhi la filosofia non consiste nell'insegnamento di una teoria astratta, e
meno ancora in un'esegesi di testi, ma in un'arte di vivere, in un atteggiamento
concreto, in uno stile di vita determinato, che impegna tutta l'esistenza.
L'atto filosofico non si situa solo nell'ordine della conoscenza, ma nell'ordine
del «Sé» e dell'essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci
rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia
l'essere di colui che la compie. Lo fa passare dallo stato di una vita
inautentica, oscurata dall'incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni,
allo stato di una vita autentica, dove l'uomo raggiunge la coscienza di sé, la
visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori.
Per tutte le scuole
filosofiche, la principale causa di sofferenza, di disordine, di incoscienza,
per l'uomo, è costituita dalle passioni: desideri disordinati, timori esagerati.
Il dominio della cura, delle preoccupazioni, gli impedisce di vivere veramente.
La filosofia appare dunque in primo luogo come una terapia delle passioni
(«Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni», scrive G. Friedmann). Ogni
scuola ha il metodo terapeutico suo proprio, ma tutte collegano questa terapia a
una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere dell'individuo.
Gli esercizi spirituali avranno precisamente lo scopo di realizzare tale
trasformazione.
Prendiamo in primo
luogo l'esempio degli stoici. Secondo loro, tutta l'infelicità dell'uomo deriva
dal fatto che cerchino di conseguire o conservare beni che rischiano di non
ottenere o di perdere, e che cerchino di evitare mali che spesso sono
inevitabili. La filosofia educherà dunque l'uomo affinché non cerchi di
conseguire che il bene che può ottenere, e affinché non cerchi di evitare che il
male che può evitare.
Questo bene che si può
sempre ottenere, questo male che si può sempre evitare, devono, per essere tali,
dipendere unicamente dalla libertà dell'uomo: sono dunque il bene morale e il
male morale. Essi soltanto dipendono da noi, tutto il resto non dipende da noi.
Dunque il resto, ciò che non dipende da noi, corrisponde alla concatenazione
necessaria delle cause e degli effetti che sfugge alla nostra libertà. Ci deve
essere indifferente, nel senso che non dobbiamo introdurvi differenza alcuna, ma
accettarlo tutto intero in quanto è voluto dal destino. È il dominio della
natura. Si tratta dunque di un totale rovesciamento della maniera abituale di
vedere le cose. Si passa da una visione «umana» della realtà, visione per cui i
valori dipendono dalle passioni, a una visione «naturale» delle cose che colloca
ogni evento nella prospettiva della natura universale.
Questo cambiamento di
visione è difficile. È precisamente lí che devono intervenire gli esercizi
spirituali, al fine di operare a poco a poco la trasformazione interiore che è
indispensabile. Non possediamo nessun trattato sistematico che codifichi un
insegnamento e una tecnica degli esercizi spirituali. Tuttavia le allusioni
all'una o all'altra di queste attività interiori sono molto frequenti negli
scritti dell'epoca ellenistica e romana. Se ne deve trarre la conclusione che
tali esercizi erano ben noti, che bastava alludervi, perché appartenevano alla
vita quotidiana delle scuole filosofiche, e dunque facevano parte di un
insegnamento orale tradizionale.
Grazie a Filone di Alessandria, possediamo nondimeno due elenchi di esercizi.
Non coincidono perfettamente, ma hanno il merito di offrirci un panorama
abbastanza completo di una terapia filosofica di ispirazione stoico-platonica.
Una di queste liste elenca: la ricerca (ζητησις),
l'esame approfondito (σκεψις),
la lettura, l'ascolto, l'attenzione (πρσοχη),
il dominio di sé (εγρατεια),
l'indifferenza alle cose indifferenti. L'altra nomina successivamente: le
letture, le meditazioni (μελεται),
le terapie delle passioni, i ricordi di ciò che è bene, il dominio di sé (εγρατεια),
il compimento dei doveri. Con l'aiuto di questi elenchi, potremo fare una breve
descrizione degli esercizi spirituali stoici, studiando successivamente i gruppi
seguenti: anzitutto l'attenzione, poi le meditazioni e i «ricordi di ciò che è
bene», poi quegli esercizi più intellettuali che sono la lettura, l'ascolto, la
ricerca, l'esame approfondito, infine quegli esercizi più attivi che sono il
dominio di sé, il compimento dei doveri, l'indifferenza alle cose indifferenti.
L'attenzione (πρσοχη)
è l'atteggiamento spirituale fondamentale dello stoico. Sta in una vigilanza e
una presenza di spirito continue, una coscienza di sé sempre desta, una costante
tensione dello spirito. Grazie ad essa il filosofo sa e vuole pienamente ciò che
fa in ogni istante. Grazie a questa vigilanza dello spirito, la regola di vita
fondamentale, ossia la distinzione fra ciò che dipende da noi e quello che non
dipende da noi, è sempre «sottomano» (προχειρον).
È essenziale allo stoicismo (come d'altronde all'epicureismo) l'istanza di
fornire ai suoi adepti un principio fondamentale, estremamente semplice e
chiaro, formulabile in poche parole, precisamente affinché tale principio possa
restare facilmente presente alla mente ed essere applicato con la sicurezza e la
costanza di un riflesso: «Tu non devi separarti da tali principi né quando dormi
né quando ti alzi né quando mangi o bevi o ti intrattieni con gli uomini».
Questa stessa vigilanza mentale permette di applicare la regola fondamentale
alle situazioni particolari della vita, e di fare sempre «a proposito» ciò che
si fa. Si può anche definire tale vigilanza come la concentrazione sul momento
presente: «In tutte le cose e in ogni istante, dipende da te compiacerti
devotamente di ciò che accade presentemente, comportarti con giustizia con gli
uomini presenti ed esaminare con metodo la rappresentazione presente, per non
ammettere nel pensiero nulla che sia inammissibile». Questa attenzione al
momento presente è in qualche modo il segreto degli esercizi spirituali. Libera
dalla passione che è sempre provocata dal passato o dal futuro che non dipendono
da noi; facilita la vigilanza concentrandola sul minuscolo momento presente,
sempre padroneggiabile, sempre sopportabile, nella sua esiguità; infine apre la
nostra coscienza alla coscienza cosmica rendendoci attenti al valore infinito di
ogni istante, facendoci accettare ogni momento dell'esistenza nella prospettiva
della legge universale del κοσμος.
L'attenzione (πρσοχη)
permette di rispondere immediatamente agli eventi come a domande che ci fossero
bruscamente poste. A tale scopo occorre che i principi fondamentali siano sempre
«sottomano» (προχειρονv).
Si tratta di impregnarsi della regola di vita (κανων)
applicandola col pensiero alle diverse circostanze della vita, così come si
assimila, mediante esercizi, una regola di grammatica o di aritmetica,
applicandola a casi particolari. Ma qui non si tratta di un semplice sapere, si
tratta di una trasformazione della personalità. L'immaginazione e l'affettività
devono essere associate all'esercizio del pensiero. Tutti i mezzi psicagogici
della retorica, tutti i metodi di amplificazione devono essere qui mobilitati.
Si tratta di formulare a se stessi la regola di vita nella maniera più viva, più
concreta, occorre «mettersi davanti agli occhi» gli eventi della vita, visti
alla luce della regola fondamentale. Tale è l'esercizio di memorizzazione (μνημη)
e di meditazione (μελετη)
della regola di vita.
Questo esercizio di
meditazione permetterà di essere pronti nel momento in cui sorgerà una
circostanza inattesa, e forse drammatica. Ci si rappresenteranno in anticipo le
difficoltà della vita (sarà la «praemeditatio malorum»): la povertà, la
sofferenza, la morte; le si guarderanno in faccia, ricordando come non siano dei
mali, poiché non dipendono da noi; si fisseranno nella propria memoria le
massime icastiche che, giunto il momento, ci aiuteranno ad accettare quegli
eventi che fanno parte del corso della natura. Si avranno dunque «sottomano»
tali massime e sentenze. Saranno formule o argomentazioni persuasive (επιλογισμοι)
che si potranno dire a se stessi nelle circostanze difficili, per arrestare un
moto di timore o di collera o di tristezza. Al mattino, si esaminerà in anticipo
ciò che si deve fare nel corso della giornata, e si fisseranno in anticipo i
principi che dirigeranno e ispireranno le azioni. Alla sera il soggetto si
esaminerà nuovamente, per rendersi conto delle colpe o dei progressi compiuti.
Si esamineranno anche i propri sogni.
Come si può vedere,
l'esercizio della meditazione si sforza di padroneggiare il discorso interno,
per renderlo coerente, per ordinarlo a partire da quel principio semplice e
universale che è la distinzione fra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende
da noi, fra la libertà e la natura. Con il dialogo con se stesso o con altri,
anche scrivendo, colui che vuole progredire si sforza di «condurre con ordine i
suoi pensieri» e di approdare così a una trasformazione totale della sua
rappresentazione del mondo, della sua atmosfera interiore, ma anche del suo
comportamento esterno. Tali metodi rivelano una grande conoscenza del potere
terapeutico della parola.
Questo esercizio di
meditazione e di memorizzazione chiede di essere alimentato. È qui che
incontriamo gli esercizi più propriamente intellettuali elencati da Filone: la
lettura, l'ascolto, la ricerca, l'esame approfondito. La meditazione si nutrirà
in un modo ancora abbastanza semplice della lettura delle sentenze dei poeti e
dei filosofi o degli apoftegmi. Ma la lettura potrà anche essere la spiegazione
di testi propriamente filosofici, di opere redatte dai maestri della scuola. E
potrà essere fatta o ascoltata nell'ambito dell'insegnamento filosofico
impartito da un professore. Grazie a questo insegnamento, tutto l'edificio
speculativo che sostiene e giustifica la regola fondamentale, tutte le ricerche
fisiche e logiche, di cui essa è il riassunto, potranno essere studiati con
precisione. La «ricerca» e l'«esame approfondito» saranno allora l'applicazione
concreta di tale insegnamento. Per esempio ci si abituerà a definire gli oggetti
e gli eventi in una prospettiva «fisica», dunque a vederli così come sono
situati nel tutto cosmico. O ancora li si divideranno per riconoscere gli
elementi a cui si riducono.
Vengono infine gli
esercizi pratici destinati a creare abitudini. Alcuni sono ancora molto
«interiori», ancora vicinissimi agli esercizi di pensiero, mentali di cui
abbiamo parlato: tale è, per esempio, l'indifferenza alle cose indifferenti, che
non è che l'applicazione della regola di vita fondamentale. Altri presuppongono
comportamenti pratici: la padronanza di sé, il compimento dei doveri della vita
sociale. Ritroviamo qui i temi di G. Friedmann: «Sforzarsi di spogliarsi delle
proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio
nome... Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l'odio. Amare tutti gli uomini
liberi». Troviamo, in Plutarco, un gran numero di trattati che si riferiscono a
tali esercizi: De
cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore prolis, De
garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De
invidia et odio. Anche Seneca ha composto trattati dello stesso genere: De
ira, De beneficiis, De tranquillitate animi, De otio. Un principio molto
semplice è sempre raccomandato in questo, genere di esercizi: cominciare a
esercitarsi nelle cose più facili, per acquisire a poco a poco un'abitudine
stabile e solida.
Per gli stoici filosofare è dunque esercitarsi a «vivere», ossia a vivere
coscientemente e liberamente: coscientemente, superando i limiti
dell'individualità per riconoscersi parte di un κοσμοςc
animato dalla ragione; liberamente, rinunciando a desiderare ciò che non dipende
da noi e che ci sfugge, per non tenere che a ciò che da noi dipende: l'azione
retta conforme alla ragione.
Si può ben capire che
una filosofia come lo stoicismo, che esige vigilanza, energia, tensione
dell'anima, consista essenzialmente di esercizi spirituali. Ma forse sorprenderà
constatare che l'epicureismo, considerato abitualmente come una filosofia del
piacere, fa posto non meno dello stoicismo a pratiche precise che non sono altro
che esercizi spirituali. Il fatto è che per Epicuro, come per gli stoici, la
filosofia è una terapia: «La nostra sola occupazione deve essere la nostra
guarigione». Ma questa volta la guarigione consisterà nel liberare l'anima dalle
preoccupazioni della vita, per condurla alla semplice gioia di esistere.
L'infelicità degli uomini deriva dal fatto che temano cose che non devono essere
temute e che desiderino cose che non è necessario desiderare e che sfuggono
loro. così la loro vita si consuma nel turbamento dei timori ingiustificati e
dei desideri insoddisfatti. Sono dunque privati di quello che è l'unico piacere
autentico, del piacere di essere. È perciò che la fisica epicurea libererà dalla
paura mostrando che gli dei non agiscono affatto sul corso del mondo, e che la
morte, essendo una disgregazione totale, non fa parte della vita. L'etica
epicurea libererà dai desideri insaziabili, distinguendo tra desideri naturali e
necessari, desideri naturali e non necessari, e desideri né naturali né
necessari. La soddisfazione dei primi, la rinuncia agli ultimi ed eventualmente
ai secondi sarà sufficiente per assicurare l'assenza di turbamento e per fare
comparire il benessere, la soddisfazione di esistere: «Grida la carne: non aver
fame non aver sete non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle,
anche con Zeus può gareggiare in felicità». Donde quel sentimento di
gratitudine, quasi inatteso, che illumina quella che potremmo chiamare la pietà
epicurea verso le cose: «sia reso grazie alla beata natura che fece le cose
necessarie facilmente procacciabili, quelle difficilmente procacciabili non
necessarie».
Per approdare alla
guarigione dell'anima saranno dunque necessari esercizi spirituali. Come gli
stoici, gli epicurei assimileranno, mediteranno, «giorno e notte», brevi
sentenze o riassunti che permetteranno di avere «sottomano» i dogmi
fondamentali. Per esempio il famoso τετραφαρμακον,
il rimedio quadruplice: «Gli dei non sono da temersi, la morte è senza rischio,
il bene facile da acquistarsi, il male facile da sopportarsi». L'abbondanza di
raccolte di sentenze epicuree corrisponde a questa esigenza dell'esercizio
spirituale della meditazione. Ma – come nel caso degli stoici – lo studio dei
grandi trattati dogmatici dei maestri della scuola sarà anche un esercizio
destinato ad alimentare la meditazione, a meglio impregnare l'anima
dell'intuizione fondamentale. Lo studio della fisica è così un esercizio
spirituale particolarmente importante: «... si deve credere che della conoscenza
dei fenomeni celesti... l'unico scopo è la tranquillità [= αταραξια]
e la sicura fiducia, così come anche per le altre cose». La contemplazione del
mondo fisico, l'immaginazione dell'infinito, elemento capitale della fisica
epicurea, provocano un cambiamento totale della maniera di vedere le cose
(l'universo chiuso si dilata all'infinito) e un piacere spirituale di qualità
unica: «Le mura del mondo si aprono, vedo nel vuoto dell'universo prodursi le
cose... Allora a questo spettacolo s'impossessa di me una sorta di piacere
divino e un brivido, in quanto la natura, per il tuo potere – (ossia grazie ad
Epicuro) – scoprendosi con tanta evidenza, è così liberata dai suoi veli in ogni
sua parte».
Ma la meditazione,
semplice o dotta, non è l'unico esercizio spirituale epicureo. Diversamente
dalla tesi degli stoici, per guarire l'anima non bisogna esercitarla a tendersi,
ma, al contrario, esercitarla a distendersi. Anziché rappresentarci i mali in
anticipo, per prepararci a subirli, dobbiamo, al contrario, staccare la nostra
mente dalla visione delle cose dolorose, e fissare lo sguardo sui piaceri.
Occorre fare rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del
presente, riconoscendo quanto siano grandi e gradevoli tali piaceri del
presente. Si tratta di un esercizio spirituale ben determinato: non più la
vigilanza continua dello stoico, che si sforza di essere sempre pronto a
salvaguardare, ogni istante, la sua libertà morale, ma la scelta deliberata,
sempre rinnovata, della distensione e della serenità, e una gratitudine profonda
verso la natura e la vita che, se sappiamo trovarli, ci offrono incessantemente
il piacere e la gioia. Analogamente, l'esercizio spirituale che consiste nello
sforzo di vivere nel momento presente è molto diverso negli stoici e negli
epicurei. Per i primi è tensione dello spirito, veglia costante della coscienza
morale; per i secondi è, ancora una volta, invito alla distensione e alla
serenità: la cura, la preoccupazione volta al futuro, che ci lacera, ci nasconde
il valore incomparabile del semplice fatto di esistere: «Si nasce una volta, due
volte non è concesso, ed è necessario non essere più in eterno; tu, pur non
essendo padrone del tuo domani procrastini la gioia, ma la vita trascorre
nell'indugiare e ciascuno di noi muore senza aver mai goduto della pace». È il
famoso verso di Orazio: «carpe diem». «Mentre noi parliamo, è fuggito il tempo
invidioso: cogli l'oggi, senza àlcuna fiducia nel futuro!». Infine per gli
epicurei proprio il piacere è esercizio spirituale: piacere intellettuale della
contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, infine
piacere dell'amicizia. L'amicizia, nella comunità epicurea, ha anch'essa i suoi
esercizi spirituali che si compiono in un'atmosfera lieta e distesa: la
confessione pubblica delle proprie colpe, la correzione fraterna, legate
all'esame di coscienza. Ma soprattutto l'amicizia stessa è in certo qual modo
l'esercizio spirituale per eccellenza: «Ciascuno doveva tendere a creare
l'atmosfera dove si espandevano i cuori. Si trattava anzitutto di essere felici,
e l'affetto reciproco, la fiducia con cui si poggiava l'uno sull'altro
contribuivano più di ogni altra cosa alla felicità»
2. Imparare
a dialogare
Probabilmente la pratica degli
esercizi spirituali si radica in tradizioni che risalgono a tempi immemorabili.
Ma è la figura di Socrate a farla emergere nella coscienza occidentale, poiché
questa figura è stata e rimane il richiamo che desta la coscienza morale. E
notevole il fatto che questo richiamo risuoni in una certa forma di dialogo. Nel
dialogo «socratico», la vera questione che è in gioco non è ciò
di cui si parla, ma colui
che parla: «Quando ci si avvicina molto a Socrate e ci si è addentrati nel
dialogo con lui, anche se dapprima si è iniziato a parlare con lui di
tutt'altro, di necessità egli ci trascina incessantemente in un discorso che
presenta ogni specie di giri, di deviazioni, di tortuosità, finché non sí giunga
a dovere rendere conto di sé, sia quanto al modo in cui si vive attualmente che
a quello in cui si è vissuta la propria esistenza passata. Quando si è arrivati
a questo punto, Socrate non vi lascerà prima di avere sottoposto tutto ciò alla
prova del suo controllo, ben bene e bene a fondo. ... Io non vedo nessun male
nel fatto che mi si ricordi che ho agito o che agisco in una maniera che non è
buona. Colui che non lo evita sarà necessariamente più prudente per il resto
della vita». Nel dialogo «socratico» l'interlocutore di Socrate non impara
nulla, e Socrate non ha la pretesa di insegnargli qualcosa; d'altronde continua
a ripetere, a chi vuole sentire, che la sola cosa che sappia è di non sapere
nulla. Ma, come un tafano instancabile, Socrate assillai suoi interlocutori con
domande che li mettono in questione, che li obbligano a fare attenzione a se
stessi, a preoccuparsi di sé: «O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei
ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per scienza e potenza,
non ti vergogni tu di darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più
puoi, e della fama e degli onori; mentre del tuo pensiero (φρονεσις),
della tua verità (αληθεια),
della tua anima (ψυχη),
che si tratterebbe di migliorare, tu non ti dai affatto pensiero né cura». La
missione di Socrate consiste nell'invitare i suoi contemporanei a esaminare la
loro coscienza, a preoccuparsi dei loro progressi interiori: «Non mi curo
affatto di ciò di cui si cura la maggioranza delle persone, questioni di denaro,
amministrazione dei beni, comandi militari, successi oratori in pubblico,
magistrature, congiure, fazioni politiche. Mi sono impegnato, non in questo
senso... ma in quello per cui, a ognuno di voi in particolare, arrecherò il
massimo beneficio cercando di persuaderlo a
preoccuparsi meno di ciò che ha che di ciò che è, per diventare eccellente
e ragionevole tanto quanto è possibile». L'Alcibiade del Convito di
Platone esprime così l'effetto esercitato su di lui dal dialogo con Socrate:
«Socrate mi costringe a confessare a me stesso che, mentre sono così carente per
tanti punti, persisto a non curarmi di me stesso... più volte ha fatto sì che mi
trovassi in uno stato tale da non ritenere possibile vivere comportandomi come
mi comporto».
Il dialogo socratico appare dunque come un esercizio spirituale praticato in
comune che invita all'esercizio spirituale interiore, ossia all'esame di
coscienza, all'attenzione a sé, insomma al famoso «Conosci te stesso». Se è
difficile individuare il significato originario di questa formula, non resta
meno vero che essa invita a un rapporto di sé con sé che costituisce il
fondamento di ogni esercizio spirituale. Conoscere se stesso significa o
conoscersi come non sapiente (vale a dire non come σοφος,
ma come un φιλο-σοφος che
in quanto tale cammina verso la sapienza, o conoscersi nel proprio essere
essenziale (ossia separare ciò che non è noi da ciò che è noi stessi), oppure
conoscersi nel proprio stato morale autentico (vale a dire esaminare la propria
coscienza).
Maestro del dialogo con
altri, Socrate – nel ritratto che ne tracciano Platone e Aristofane – pare
essere anche un maestro del dialogo con sé, dunque un maestro nella pratica
degli esercizi spirituali. Ci è presentato come capace di una straordinaria
concentrazione mentale. Arriva in ritardo al convito di Agatone, perché,
«applicando in qualche modo la sua mente a se stesso, era rimasto indietro». E
Alcibiade racconta che, alla spedizione di Potidea, Socrate rimase in piedi un
giorno e una notte, «concentrato nei suoi pensieri». Nelle Nuvole,
anche Aristofane pare alludere a queste pratiche socratiche: «Medita adesso, e
concentrati profondamente; con tutti i mezzi, avvolgiti su te stesso
concentrandoti. Se cadi in qualche difficoltà, corri svelto in un altro punto...
Non ricondurre sempre il tuo pensiero a te stesso, ma lascia che la tua mente
prenda il volo nell'aria, come uno scarabeo che un filo trattiene per una
zampa».
Questa pratica del
dialogo con se stesso che è la meditazione sembra fosse in onore tra i discepoli
di Socrate. Quando si chiese ad Antistene quale profitto avesse tratto dalla
filosofia, rispose: «Quello che consiste nel poter conversare con me stesso».
Questa intima connessione fra il dialogo con altri e il dialogo con sé ha un
significato profondo. Solo colui che è capace di un vero incontro con altri è
capace di un incontro autentico con se stesso, e l'inverso è ugualmente vero. Il
dialogo non è davvero dialogo se non in presenza di altri e di sé. Da questo
punto di vista, ogni esercizio spirituale è dialogico, nella misura in cui è
esercizio di presenza autentico, a sé e agli altri.
È impossibile
determinare la frontiera tra il dialogo «socratico» e il dialogo «platonico». Ma
il dialogo platonico resta sempre «socratico» nella sua ispirazione, poiché è un
esercizio intellettuale e, in definitiva, spirituale. Questa caratteristica del
dialogo platonico deve essere sottolineata.
I dialoghi platonici
sono esercizi-modelli. Modelli, poiché non stenografano dei dialoghi reali, sono
invece composizioni letterarie che immaginano un dialogo ideale. Esercizi,
precisamente perché sono dialoghi: abbiamo già intravvisto, a proposito di
Socrate, il carattere dialogico di ogni esercizio spirituale. Un dialogo è un
itinerario del pensiero la cui via è tracciata dall'accordo, costantemente
mantenuto, fra una persona che interroga e una che risponde. Contrapponendo il
suo metodo a quello dell'eristica, Platone sottolinea energicamente questo
punto: «Quando due amici, come tu ed io, hanno voglia di discutere, occorre
farlo in una maniera meno aspra e più dialettica. E mi pare che "più dialettica"
significhi che non solo si danno risposte vere, ma che si fonda la propria
risposta su ciò che l'interlocutore riconosce di sapere egli stesso». La
dimensione dell'interlocutore è dunque essenziale. Impedisce al dialogo di
essere un'esposizione teorica e dogmatica, e lo costringe a essere un esercizio
concreto e pratico, precisamente perché non si tratta di esporre una dottrina,
ma di condurre un interlocutore a un determinato atteggiamento mentale: è una
lotta, amichevole ma reale. E ciò che accade in ogni esercizio spirituale -
dobbiamo osservare: occorre fare cambiare a se stessi il punto di vista,
l'atteggiamento, la convinzione, dunque dialogare con se stessi, dunque lottare
con se stessi. È perciò che i metodi del dialogo platonico possiedono, in questa
prospettiva; un interesse fondamentale: «Checché sia stato detto in proposito,
il pensiero platonico non assomiglia affatto alla colomba leggera a cui non
costa nulla lasciare il suolo per librarsi nello spazio puro dell'utopia... Ogni
istante la colomba deve dibattersi contro l'anima di chi risponde, che è piena
di piombo. Ogni elevazione è conquistata». Per vincere in questa lotta, non
basta esporre la verità, non basta neanche dimostrarla, occorre persuadere,
dunque utilizzare la psicagogia, l'arte di sedurre le anime; e, inoltre, non è
sufficiente la retorica, che cerca di persuadere per così dire di lontano, con
un discorso continuo; è necessaria anche e soprattutto la dialettica, che esige
ogni momento l'accordo esplicito dell'interlocutore. La dialettica deve dunque
scegliere abilmente una via indiretta, o, meglio, una serie di vie
apparentemente divergenti, eppure convergenti, per portare l'interlocutore a
scoprire le contraddizioni della propria posizione o ad ammettere una
conclusione imprevista. I circuiti, i giri, i détours,
le suddivisioni senza fine, le digressioni, le sottigliezze se non i cavilli,
che disorientano il lettore moderno dei Dialoghi,
sono destinati a fare percorrere un certo cammino all'interlocutore e al lettore
antichi. Grazie ad essi, «a stento, ogni elemento (nomi, definizioni, immagini
visive e percezioni) viene sfregato con gli altri», «ci si dedica a lungo ai
problemi», «si vive con essi», finché non scaturisca la luce. Dunque ci si
esercita pazientemente: «La misura di discussioni come queste è la vita intera,
per le persone assennate». Ciò che conta non è la soluzione di un problema
particolare, è il cammino percorso per raggiungerla, cammino dove
l'interlocutore, il discepolo, il lettore, formano il loro pensiero, lo rendono
più atto a scoprire da solo la verità («il dialogo vuole formare piuttosto che
informare»: «– Se ci si interrogasse sulle scuole dove s'impara a leggere,
diremmo che quando uno vi è chiamato a rispondere di quali lettere sia composto
un nome qualsiasi, gli si fa fare questa ricerca in vista di quel solo problema,
o perché diventi più capace di risolvere tutti i possibili problemi di
grammatica? – Tutti i problemi possibili, evidentemente. – E a che scopo d'altra
parte noi ora conduciamo la ricerca sull'uomo politico? Forse ce la siamo
proposta proprio per interesse allo stesso uomo politico, piuttosto che per
diventare migliori dialettici in tutti gli argomenti possibili? – Anche qui è
chiaro, per diventare migliori dialettici in tutti gli argomenti possibili». Il
tema del dialogo dunque conta meno del metodo che vi è applicato, la soluzione
del problema vale meno del cammino percorso in comune per risolverlo. Non si
tratta di trovare la soluzione per primi e più in fretta, ma di esercitarsi
nella maniera più efficace possibile nell'applicazione concreta di un metodo:
«Quanto alla soluzione del problema posto, trovarla nel modo più facile e più
rapido possibile non deve essere che una preoccupazione secondaria e non lo
scopo principale, se prestiamo fede alla ragione che ci prescrive di apprezzare
e di considerare principale valore piuttosto il metodo che insegna a suddividere
secondo le specie, e, anche quando un discorso fosse molto lungo, di svilupparlo
decisamente, se deve rendere l'ascoltatore più capace di trovare quello che
cerca».
Esercizio dialettico,
il dialogo platonico corrisponde esattamente a un esercizio spirituale, per due
motivi. In primo luogo, porta l'interlocutore (e il lettore) alla conversione,
discretamente ma realmente. Infatti il dialogo non è possibile che se
l'interlocutore vuole veramente dialogare, ossia se vuole realmente trovare la
verità, se vuole, con tutta la sua anima, il bene, se accetta di sottomettersi
alle esigenze razionali del logos. Il suo atto di fede deve corrispondere a
quello di Socrate: «E perché ho fede nella verità che sono deciso a cercare con
te che cosa sia la virtú». Lo sforzo dialettico di fatto è una salita comune
verso la verità e verso il bene «che ogni anima desidera». D'altra parte, agli
occhi di Platone ogni esercizio dialettico, precisamente perché è sottomissione
alle esigenze del logos, esercizio del pensiero puro, allontana l'anima dal
sensibile e le permette di convertirsi alla ricerca del bene. E un itinerario
dello spirito verso il divino.
3. Imparare
a morire
C'è un misterioso legame fra
il linguaggio e la morte. Era uno dei temi preferiti del pensiero del compianto
Brice Parain: «Il linguaggio non si sviluppa che sulla morte degli individui».
Il fatto è che il logos rappresenta un'esigenza di razionalità universale
(presuppone un mondo di norme immutabili) che si contrappone al perpetuo
divenire e ai mutevoli appetiti della vita corporea individuale. In questo
conflitto, colui che resta fedele al logos rischia di perdere la vita. Fu la
storia di Socrate. Socrate è morto per la sua fedeltà al logos.
La morte di Socrate è
l'avvenimento radicale che fonda il platonismo. E infatti l'essenza del
platonismo non sta forse nell'affermazione che la ragione ultima degli esseri è
il Bene? Come dice un neoplatonico del secolo « Se tutti gli esseri non sono
esseri che per la bontà e se partecipano del Bene, è necessario che il primo
principio sia un Bene che trascende l'essere. Ecco una prova eminente: le anime
di valore disprezzano
l'essere a causa del Bene, quando affrontano spontaneamente il pericolo per
la loro patria, per coloro che amano o per la virtù». Socrate si è esposto alla
morte per amore della virtù. Ha preferito morire, piuttosto che rinunciare alle
esigenze della sua coscienza'; ha dunque preferito il Bene all'essere, ha
preferito la coscienza e il pensiero alla vita del suo corpo. Questa scelta è
precisamente la scelta filosofica fondamentale, e si può dunque dire che la
filosofia è esercizio e tirocinio della morte, se è vero che subordina la
volontà di vivere del corpo alle esigenze superiori del pensiero. Dice il
Socrate del Fedone:
«E dunque vero che coloro i quali filosofano dirittamente si esercitano a
morire, e che la morte è per loro cosa meno paurosa che per chiunque altro degli
uomini». La morte di cui si tratta qui è una separazione spirituale dell'anima e
del corpo: «... adoperarsi in ogni modo di tenere separata l'anima dal corpo, e
abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento
corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente,
come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione
dal corpo come da catene». Tale è l'esercizio spirituale platonico. Ma bisogna
comprenderlo bene, e non separarlo, specialmente, dalla morte filosofica di
Socrate la cui presenza domina tutto il Fedone.
La separazione di anima e corpo di cui si tratta qui – quale che sia stata la
sua preistoria – non ha assolutamente più nulla a che fare con uno stato di
trance o di catalessia, in cui il corpo perderebbe coscienza e grazie a cui
l'anima sarebbe in uno stato di veggenza soprannaturale. Tutti gli sviluppi del Fedone che
precedono e che seguono il nostro passo mostrano come si tratti, per l'anima, di
liberarsi, di spogliarsi dalle passioni legate ai sensi corporei, per acquistare
l'indipendenza del pensiero. Di fatto ci rappresenteremo meglio questo esercizio
spirituale se lo intenderemo come uno sforzo per liberarsi dal punto di
vista.parziale e passionale, legato al corpo e ai sensi, e per elevarsi al punto
di vista universale e normativo del pensiero, per sottomettersi alle esigenze
del logos e alla norma del bene. Esercitarsi a morire significa esercitarsi a
morire alla propria individualità, alle proprie passioni, per vedere le cose
nella prospettiva dell'universalità e dell'oggettività. Evidentemente un
esercizio siffatto presuppone una concentrazione del pensiero in se stesso, uno
sforzo di meditazione, un dialogo interiore. Platone vi allude nella Repubblica,
ancora una volta a proposito della tirannia delle passioni individuali. Questa
tirannia del desiderio si rivela in modo particolarissimo nel sogno, dice: «La
parte ferina e selvaggia del nostro essere... non esita a tentare,
nell'immaginazione, di unirsi alla propria madre o a qualunque altro essere,
uomo, dio, bestia; non c'è assassinio di cui non si macchi, né alimento da cui
si astenga; insomma, non c'è follia né spudoratezza che si vieti». Per liberarsi
da questa tirannia, si ricorrerà a un esercizio spirituale dello stesso tipo di
quello che è stato descritto nel Fedone:
«Non cedere al sonno che dopo avere destata la parte razionale del nostro essere
e averla nutrita con bei pensieri e belle ricerche, concentrandoci su noi
stessi, dopo avere anche calmata la parte appetitiva del nostro essere... e
ammansita la parte irascibile; dopo avere dunque placate queste due ultime e
stimolata la prima, in cui ha sede il pensiero, è allora che l'anima meglio
raggiunge la verità».
Ci sia consentita una
breve digressione. Presentare la filosofia come un «esercizio della morte» era
una decisione estremamente importante. L'interlocutore di Socrate nel Fedone lo
fa notare immediatamente: ciò si presta abbastanza alla derisione, e i profani
avranno ragione di trattare i filosofi da «moribondi» che, se sono messi a
morte, hanno meritato la loro sorte. Nondimeno, per chi prenda sul serio la
filosofia, questa formula platonica è di una verità profondissima; d'altronde ha
avuto un'eco immensa nella filosofia occidentale; l'hanno ripresa persino
avversari del platonismo come Epicuro e Heidegger. Di fronte a questa formula,
sembrano ben vuote tutte le chiacchiere filosofiche, del passato e di oggi. «Né
il sole né la morte si possono guardare fissamente». Vi si avventurano solo i
filosofi; sotto le loro rappresentazioni diverse della morte, si ritrova
un'unica virtù: la lucidità. Per Platone, il fatto di essere strappato alla vita
sensibile non può spaventare chi abbia già assaggiato l'immortalità del
pensiero. Per l'epicureo, il pensiero della morte è coscienza della finitezza
dell'esistenza, e quest'ultima rende ogni istante infinitamente prezioso; ogni
momento della vita sorge carico di un valore incommensurabile: «Supponi che ogni
giorno che brilla sia per te l'ultimo; sarà allora con gratitudine che riceverai
ogni ora insperata». Lo stoico ritroverà, in questo tirocinio della morte, il
tirocinio della libertà. Come dice Montaigne, copiando Seneca, in uno dei suoi
saggi più celebri (Che
filosofare è imparare a morire): «Chi ha imparato a morire, ha disimparato
a servire». Il pensiero della morte trasforma il tono e il livello della vita
interiore: «Che la morte ti sia davanti agli occhi ogni giorno, - dice Epitteto,
- e non avrai mai nessun pensiero basso né alcun desiderio eccessivo». Questo
tema filosofico si ricollega a quello del valore infinito del momento presente
che occorre vivere come se fosse insieme il primo e l'ultimo. Ancora per
Heidegger, la filosofia è «esercizio della morte»: l'autenticità dell'esistenza
sta nella lucida anticipazione della morte. A ciascuno la scelta fra la lucidità
e il divertimento.
Per Platone,
l'esercizio della morte è un esercizio spirituale che consiste nel cambiare di
prospettiva, nel passare da una visione delle cose dominata dalle passioni
individuali a una rappresentazione del mondo governata dall'universalità e
dall'oggettività del pensiero. È una conversione (μεταστροφη)
che si realizza con la totalità dell'anima. In questa prospettiva del pensiero
puro, le cose «umane, troppo umane», appaiono ben piccole. E un tema
fondamentale degli esercizi spirituali platonici. Consentirà di conservare la
serenità nella sventura: «La legge razionale dice che nulla è più bello che
conservare la maggior calma possibile nella sventura e non rivoltarsi, poiché
non si sa che cosa vi sia di bene e di male in simili accidenti, e poi non si
guadagna nulla a irritarsi, insegna che nessuna delle cose umane merita che le
si attribuisca grande importanza, e che il dolore ostacola ciò che in siffatte
circostanze dovrebbe venire al più presto in nostro soccorso. - A che cosa ti
riferisci?, chiese. - Alla riflessione sull'accaduto, risposi. Qui come nel
gioco dei dadi, contro i colpi del caso occorre ristabilire la propria posizione
con i mezzi che la ragione dimostra essere i migliori... Bisogna abituare sempre
l'anima a medicare e a raddrizzare con la massima prontezza ciò che è malato e
caduto, e a eliminare i piagnistei con l'applicazione del rimedio». Si potrebbe
dire che questo esercizio spirituale è già stoico, poiché vi vediamo l'impiego
di principi e di massime destinati ad «abituare l'anima» e a liberarla dalle
passioni. Tra queste massime, svolge un ruolo importante quella che afferma la
piccolezza delle cose umane. Ma non è precisamente altro che la conseguenza del
movimento, descritto nel Fedone,
per cui l'anima si eleva al livello del pensiero puro, ossia dall'individualità
all'universalità. Nel testo che citeremo ora, sono legati molto chiaramente
insieme l'idea della piccolezza delle cose umane, il disprezzo della morte e la
visione universale che è propria del pensiero puro: «- C'è poi da esaminare un
altro punto, quando devi distinguere le nature filosofiche da quelle che non lo
sono. - Quale? - Che l'anima non celi alcuna bassezza, poiché la piccineria è
incompatibile con un'anima che deve incessantemente tendere ad abbracciare l'insieme
e l'universalità del divino e dell'umano... - Ora ritieni che l'anima a cui
appartengono l'elevatezza del pensiero e la contemplazione
della totalità del tempo e dell'essere faccia gran caso della vita
umana?... - Quindi un uomo siffatto non riterrà che la morte sia una cosa
temibile». Dunque qui l'«esercizio della morte» è legato alla contemplazione
della totalità, all'elevazione del pensiero, che passa dalla soggettività
individuale e passionale all'oggettività della prospettiva universale, ossia
all'esercizio del pensiero puro. Questa caratteristica del filosofo riceve qui
per la prima volta un nome che conserverà in tutta la tradizione antica: la
grandezza d'animo. La grandezza d'animo è il frutto dell'universalità del
pensiero. Tutto il lavoro speculativo e contemplativo del filosofo diventa così
esercizio spirituale nella misura in cui, elevando il pensiero fino alla
prospettiva del tutto, lo libera dalle illusioni dell'individualità («Uscire
dalla durata... eternarsi superandosi», dice G. Friedmann).
In questa prospettiva,
la fisica stessa diventa un esercizio spirituale che – precisiamo – può situarsi
a tre livelli. In primo luogo la fisica può essere un'attività contemplativa che
ha il proprio fine in se stessa e procura all'anima, liberandola dalle
preoccupazioni quotidiane, gioia e serenità. E lo spirito della fisica
aristotelica: «La natura riserva a chi studia le sue produzioni piaceri
meravigliosi, purché sia capace di risalire alle cause e sia veramente
filosofo». In questa contemplazione della natura, l'epicureo Lucrezio trovava
una «voluttà divina», come abbiamo visto. Per lo stoico Epitteto, il senso della
nostra esistenza risiede in questa contemplazione: siamo stati messi al mondo
per contemplare le opere divine, e non bisogna morire senza avere visto tali
meraviglie ed essere vissuti in armonia con la natura. Evidentemente la
precisione scientifica di una siffatta contemplazione della natura varia molto
da una filosofia all'altra; la fisica aristotelica è lontana dal sentimento
della natura che si trova per esempio in Filone d'Alessandria e in Plutarco. Ma
è interessante notare come gli ultimi due autori parlino con entusiasmo della
loro fisica immaginativa. Dice Filone: «Tutti coloro che... si esercitano nella
saggezza... contemplano la natura e tutto ciò che si trova in essa, esplorano
attentamente la terra, il mare, l'aria, il cielo e tutte le nature che vi si
trovano, accompagnano col pensiero la luna, il sole, le evoluzioni degli altri
astri erranti o fissi, e, se i loro corpi restano sulla terra, danno ali alle
loro anime affinché, elevandosi nell'etere, osservino le potenze che vi si
trovano, come si addice a coloro che sono divenuti realmente cittadini del
mondo... così, colmi di perfetta eccellenza, abituati a non tenere più conto dei
mali del corpo e dei mali esterni... è ovvio che per gli uomini siffatti, che
trovano il piacere nella virtù, tutta la vita sia una festa». Le ultime parole
sono un'allusione a un aforisma di Diogene il Cinico che è citato da Plutarco:
«Un uomo dabbene non celebra forse una festa ogni giorno?» «E una festa
splendida, – continua Plutarco, – se siamo virtuosi. Il mondo è il più sacro e
il più divino di tutti i templi. L'uomo vi è introdotto dalla nascita per essere
lo spettatore non già di statue artificiali e inanimate, ma di quelle immagini
sensibili delle essenze intelligibili... che sono il sole, la luna, le stelle, i
fiumi la cui acqua scorre sempre nuova e la terra che fa crescere l'alimento
delle piante e degli animali. Una vita che sia iniziazione a questi misteri e
rivelazione perfetta deve essere colma di lode e di gioia».
Ma questo esercizio
spirituale della fisica può anche assumere la forma di un «sorvolo»
immaginativo, che fa attribuire scarsa importanza alle cose umane. Si trova
questo tema in Marco Aurelio: «Supponi di trovarti improvvisamente a un'eccelsa
altezza, e di contemplare di lassù le cose umane e la loro diversità; quanto le
disprezzeresti quando vedessi in un solo colpo d'occhio l'immenso spazio
popolato degli esseri dell'aria e dell'etere! ». Questo tema si trova in Seneca:
«L'anima raggiunge la pienezza della felicità quando, dopo avere calpestato
tutto ciò che è male, raggiunge l'eccelsa altezza e penetra fin nelle pieghe più
riposte della natura. È allora, quando vaga tra gli astri, che si compiace di
ridere delle pavimentazioni dei ricchi... Ma tutto questo lusso dei ricchi,
l'anima non può disprezzarlo prima di avere fatto il giro del mondo, di avere
gettato dall'alto del cielo uno sguardo sdegnoso sulla stretta terra, ed essersi
detto: È dunque quello il punto che tanti popoli si dividono col ferro e col
fuoco? Quanto sono ridicole le frontiere che gli uomini stabiliscono tra di
essi!».
Si riconoscerà un terzo
grado di questo esercizio spirituale nella visione della totalità,
nell'elevazione del pensiero al livello del pensiero universale; qui siamo più
vicini al tema platonico che abbiamo assunto come punto di partenza: «Non
limitarti più, - scrive Marco Aurelio, - a co-respirare l'aria che ti circonda,
ma d'ora in poi co-pensa col pensiero che ingloba tutte le cose. Poiché la forza
del pensiero non è meno diffusa ovunque, non s'insinua meno in ogni essere
capace di lasciarla penetrare, che l'aria in colui che è capace di respirarla...
Un immenso campo libero si schiuderà davanti a te, poiché tu col pensiero
abbracci la totalità dell'universo, percorri l'eternità della durata». E
evidentemente a questo livello che si può dire che si muore alla propria
individualità per accedere insieme all'interiorità della coscienza e
all'universalità del pensiero del tutto: «Tu eri già il tutto, - scrive Plotino,
- ma, poiché qualche cosa ti si è aggiunta in più del tutto, tu sei diventato
minore del tutto per questa aggiunta stessa. Tale aggiunta non aveva nulla di
positivo (infatti che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è tutto?), era
interamente negativa. Chi diventa qualcuno non è più il tutto, gli aggiunge una
negazione. E ciò dura finché non si scarti tale negazione. Dunque tu ingrandisci
rimuovendo tutto ciò che è altro dal tutto: se lo rimuovi, il tutto ti sarà
presente... Non ha bisogno di venire per essere presente. Se non è presente, è
perché tu ti sei allontanato da lui. Allontanarsi, non significa lasciarlo per
andare altrove, poiché è li; ma è voltargli le spalle, quando è presente».
Con Plotino torniamo al
platonismo. La tradizione platonica è stata fedele agli esercizi spirituali di
Platone. Si può solo precisare che, nel neoplatonismo, il concetto di progresso
spirituale svolge un ruolo molto più esplicito, rispetto allo stesso Platone. Le
tappe del progresso spirituale corrispondono a gradi di virtù la cui gerarchia è
descritta in più testi neoplatonici e costituisce segnatamente lo schema della Vita
di Proclo scritta da Marino di Neapoli. L'editore degli scritti di Plotino,
Porfirio, ha classificato sistematicamente le opere del suo maestro secondo le
tappe di tale progresso spirituale: purificazione dell'anima col distacco dal
corpo, poi conoscenza e superamento del mondo sensibile, infine conversione
verso l'Intelletto e l'Uno.
La realizzazione di tale progresso spirituale esige dunque esercizi. Porfirio
riassume abbastanza bene la tradizione neoplatonica dicendo che ci si deve
dedicare a due esercizi (μελεται):
da un lato si deve allontanare il pensiero da tutto ciò che è mortale e carnale,
d'altro lato ci si deve volgere verso l'attività dell'Intelletto. Nel
neoplatonismo, il primo esercizio comprende aspetti fortemente ascetici nel
senso moderno del termine, e in particolare un regime vegetariano. Nello stesso
contesto, Porfirio insiste fortemente sull'importanza degli esercizi spirituali:
la contemplazione (θεωρια)
che arreca la felicità non consiste in un'accumulazione di discorsi e di
insegnamenti astratti, neanche se vertono sugli esseri veri e autentici, ma
occorre aggiungere uno sforzo affinché tali insegnamenti diventino in noi
«natura e vita».
L'importanza degli
esercizi spirituali nella filosofia di Plotino è capitale. Forse il migliore
esempio si troverà nel modo in cui Plotino definisce l'essenza dell'anima e la
sua immortalità. Se si dubita dell'immaterialità e dell'immortalità dell'anima,
è perché si è abituati a vedere l'anima colma di desideri irrazionali, di
sentimenti violenti e di passioni. «Ma se si vuole conoscere l'essenza di una
cosa, occorre esaminarla considerandola allo stato puro, poiché ogni aggiunta a
una cosa è un ostacolo alla conoscenza di questa cosa. Esaminala dunque
togliendole ciò che non è essa stessa, o piuttosto togliti
le tue macchie ed esaminati, e avrai fede nella tua immortalità». «Se non
vedi ancora la tua propria bellezza, fai come lo scultore di una statua che deve
diventare bella: toglie questo, raschia quello, rende liscio un certo posto, ne
pulisce un altro, fino a fare apparire il bel volto nella statua. Allo stesso
modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è obliquo,
purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo brillante, e non cessare di
scolpire la tua propria statua finché non brilli in te la chiarezza divina della
virtù... Se sei diventato questo,... senza avere più, interiormente, qualcosa di
estraneo che sia mescolato a te,... se ti vedi divenuto tale,... guarda tendendo
il tuo sguardo. Poiché solo un occhio siffatto può contemplare la Bellezza».
Vediamo qui come la dimostrazione dell'immortalità dell'anima si muti in
esperienza. Solo colui che si libera e purifica dalle passioni - che nascondono
l'autentica realtà dell'anima - può comprendere come l'anima sia immateriale e
immortale. Qui la conoscenza è esercizio spirituale. Solo chi compie la propria
purificazione morale può comprendere. È ancora agli esercizi spirituali che
bisognerà ricorrere per conoscere non più l'anima, ma l'Intelletto, e
soprattutto l'Uno principio di tutte le cose. In quest'ultimo caso, Plotino
distingue nettamente fra l'«insegnamento» che parla, in maniera esteriore, del
suo oggetto, e il «cammino» che conduce realmente alla conoscenza concreta del
Bene: «Ci danno un insegnamento che lo concerne le analogie, le negazioni, la
conoscenza delle cose che derivano da lui; ci conducono a lui le purificazioni,
le virtù, i riordinamenti interiori, l'ascesa nel mondo intelligibile». Numerose
sono le pagine di Plotino che descrivono tali esercizi spirituali che non hanno
solo lo scopo di conoscere il Bene, ma anche quello di diventare identici con
lui, in un'esplosione totale dell'individualità. Si deve evitare di pensare a
una forma determinata, spogliare l'anima di ogni forma particolare, scartare
tutte le cose. Allora si compie, in un lampo fuggevole, la metamorfosi dell'Io:
«Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell'istante, non
se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è
diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l'Uno, come il
centro di un cerchio coincide con un altro centro».
4. Imparare
a leggere
Brevemente, troppo brevemente,
abbiamo descritto la ricchezza e la varietà della pratica degli esercizi
spirituali nell'antichità. Abbiamo potuto constatare come presentassero
apparentemente una certa diversità: gli uni non erano che pratiche destinate ad
acquistare buone abitudini morali (gli εθισμοι di
Plutarco per frenare la curiosità, la collera o la chiacchiera), altri esigevano
una forte concentrazione mentale (le meditazioni, specialmente nella tradizione
platonica), altri volgevano l'anima verso il cosmo (la contemplazione della
natura, comune a tutte queste scuole), infine altri, rari ed eccezionali,
approdavano a una trasfigurazione della personalità (le esperienze di Plotino).
Abbiamo potuto parimenti vedere come le tonalità affettive e i contenuti
concettuali di tali esercizi fossero molto diversi a seconda delle scuole:
mobilitazione dell'energia e consenso al destino per gli stoici, distensione e
distacco per gli epicurei, concentrazione mentale e rinuncia al sensibile per i
platonici.
Tuttavia, sotto questa
apparente diversità, c'è un'unità profonda, nei mezzi impiegati, e nel fine
cercato. I mezzi impiegati sono le tecniche dialettiche e retoriche di
persuasione, le prove di padroneggiamento del linguaggio interiore, la
concentrazione mentale. Il fine cercato in tali esercizi da tutte le scuole
filosofiche è il miglioramento, la realizzazione di sé. Tutte le scuole
concordano nell'ammettere che l'uomo, prima della conversione filosofica, si
trova in uno stato di inquietudine infelice, che è vittima della cura, delle
preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive veramente, che non è se
stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che l'uomo possa essere
liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare,
trasformarsi, raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono
precisamente destinati a questa educazione di sé, a questa παιδεια,
che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e alle
convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle
passioni), ma conforme alla natura dell'uomo, che non è altro che la ragione.
Tutte le scuole, ciascuna a suo modo, credono dunque nella libertà della
volontà, grazie a cui l'uomo ha la possibilità di modificare se stesso, di
migliorare, di realizzarsi. Alla base di questo c'è un parallelismo tra
esercizio fisico ed esercizio spirituale: come, con esercizi fisici ripetuti,
l'atleta dà al suo corpo una forma e una forza nuove, così, con gli esercizi
spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d'animo, trasforma la sua
atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine l'intero suo
essere. L'analogia poteva parere tanto più evidente in quanto proprio nel γιμνασιον,
ossia nel luogo dove si praticavano gli esercizi fisici, si tenevano anche le
lezioni di filosofia, ossia si praticava l'allenamento alla ginnastica
spirituale.
Un'espressione
plotiniana simboleggia bene questa finalità degli esercizi spirituali, questa
ricerca della realizzazione di sé: scolpire la propria statua. D'altronde spesso
è fraintesa, poiché si immagina facilmente che tale espressione corrisponda a
una specie di estetismo morale; significherebbe: assumere una certa posa,
scegliere un atteggiamento, costruire il proprio personaggio. Le cose non stanno
affatto così. Infatti per gli antichi la scultura è un'arte che «leva, toglie»,
contrariamente alla pittura che è un'arte che «aggiunge»: la statua preesiste
nel blocco di marmo, e basta togliere il superfluo per farla apparire. Questa
rappresentazione è comune a tutte le scuole filosofiche: l'uomo è infelice
perché è schiavo delle passioni, ossia perché desidera cose che gli possono
sfuggire, poiché gli sono esterne, estranee, superflue. La felicità consiste
dunque nell'indipendenza, nella libertà, nell'autonomia, vale a dire nel ritorno
all'essenziale, a ciò che è veramente «noi stessi» e a ciò che dipende da noi.
Ciò è evidente nel caso del platonismo, dove s'incontra la famosa immagine del
dio marino Glauco, dio che vive nelle profondità del mare: è irriconoscibile,
poiché è ricoperto di limo, di alghe, di conchiglie e di sassolini; così
l'anima: per essa il corpo è una specie di scorza spessa e grossolana che la
deforma completamente; la sua vera natura si mostrerebbe se uscisse dal mare
gettando lungi da sé tutto ciò che le è estraneo. L'esercizio spirituale del
tirocinio della morte, che consiste nel separarsi dal corpo, dai suoi desideri,
dalle sue passioni, purifica l'anima da tutte queste aggiunte superflue, e basta
praticarlo perché l'anima ritrovi la sua vera natura e si dedichi unicamente
all'esercizio del pensiero puro. Ciò è ugualmente vero nel caso dello stoicismo.
Grazie all'antitesi fra ciò che non dipende da noi e ciò che dipende da noi,
possiamo respingere tutto ciò che ci è estraneo per tornare al nostro Io
autentico: la libertà morale. Infine ciò è vero per l'epicureismo: scartando i
desideri non naturali e non necessari, si ritrova quel nucleo, quel nocciolo
originario di libertà e indipendenza che sarà definito dalla soddisfazione dei
desideri naturali e necessari. Ogni esercizio spirituale è dunque,
fondamentalmente, un ritorno dell'Io a se stesso, che lo libera dall'alienazione
dove lo avevano trascinato le preoccupazioni, le passioni, i desideri. L'Io così
liberato non è più la nostra individualità egoista e passionale, è la nostra
persona morale, aperta all'universalità e all'oggettività, partecipe della
natura o del pensiero universali.
Grazie a questi
esercizi, si dovrebbe accedere alla sapienza, ossia a uno stato di liberazione
totale dalle passioni, di lucidità perfetta, di conoscenza di sé e del mondo.
Questo ideale di perfezione umana serve di fatto, in Platone, in Aristotele,
negli epicurei e negli stoici, a definire lo stato proprio della perfezione
divina, dunque una condizione inaccessibile all'uomo. La sapienza è veramente un
ideale a cui si tende senza sperare di raggiungerlo, tranne forse che
nell'epicureismo. L'unico stato a cui l'uomo possa normalmente accedere è la
filo-sofia, ossia l'amore della sapienza, il progresso verso la sapienza. Gli
esercizi spirituali dovranno dunque essere sempre ripresi, in uno sforzo sempre
rinnovato.
Il filosofo vive così
in uno stato intermedio: non è sapiente, ma non è neanche non sapiente. È dunque
costantemente diviso fra la vita non filosofica e la vita filosofica, tra la
sfera dell'abituale e del quotidiano e la sfera della coscienza e della
lucidità. Nella misura stessa in cui è pratica di esercizi spirituali, la vita
filosofica strappa dalla vita quotidiana: è una conversione, un cambiamento
totale di visione, di stile di vita, di comportamento. Nel caso dei cinici,
campioni dell'ασκησις,
questo impegno era persino una rottura totale col mondo profano, analoga alla
professione monacale nel cristianesimo; si traduceva in una maniera di vivere e
persino di vestirsi che era del tutto estranea alla maggioranza degli uomini.
Proprio per questo talvolta si diceva che il cinismo non fosse una filosofia in
senso proprio, ma una condizione di vita (ενστασις)
. Ma, in realtà, in maniera più moderata, ogni scuola filosofica impegnava i
suoi discepoli a condurre un nuovo tipo di vita. La pratica degli esercizi
spirituali implicava un rovesciamento totale dei valori riconosciuti come
tradizionali; si rinunciava ai falsi valori, alle ricchezze, agli onori, ai
piaceri, per volgersi verso i veri valori – la virtù, la contemplazione, la vita
semplice, la semplice felicità di esistere. Questa opposizione radicale spiegava
evidentemente la reazione dei non-filosofi: andava dallo scherno – di cui
ritroviamo le tracce negli autori comici – all'ostilità dichiarata, che poté
arrivare al punto di provocare la morte di Socrate.
Dobbiamo ben immaginare
con quanta profondità e ampiezza l'individuo potesse essere sconvolto dal fatto
di essere strappato alle sue abitudini, ai suoi pregiudizi sociali, dal
cambiamento completo della sua maniera di vivere, dalla metamorfosi radicale
della sua maniera di vedere il mondo, dalla nuova prospettiva cosmica e «fisica»
che poteva sembrare fantastica e insensata al buonsenso quotidiano e grossolano.
Era impossibile rimanere stabilmente a tali altezze. Questa conversione doveva
essere incessantemente riconquistata. È probabilmente a causa di tali difficoltà
che il filosofo Sallustio, di cui ci parla la Vita
di Isidoro scritta da Damascio, dichiarava che filosofare era impossibile
per gli uomini. Probabilmente voleva dire che i filosofi non erano capaci di
restare veramente filosofi in ogni istante della loro vita, ma che, pur
conservando tale etichetta, ricadevano nelle abitudini della vita quotidiana.
D'altronde gli scettici rifiutavano esplicitamente di vivere filosoficamente,
deliberatamente sceglievano di «vivere come tutti» (ma dopo una svolta
filosofica abbastanza intensa perché sia difficile supporre che la loro «vita
quotidiana» sia stata «quotidiana» così come avevano l'aria di pretendere).
La vera filosofia è dunque esercizio spirituale, nell'antichità. Le teorie
filosofiche sono messe esplicitamente al servizio della pratica spirituale, come
accade nello stoicismo e nell'epicureismo, o sono fatte oggetto di esercizi
spirituali, ossia di una pratica della vita contemplativa che a sua volta non è
infine null'altro che un esercizio spirituale. Non è dunque possibile capire le
teorie filosofiche dell'antichità senza tenere conto di questa prospettiva
concreta che determina il loro significato autentico. Siamo così indotti a
leggere le opere dei filosofi dell'antichità prestando maggiore attenzione
all'atteggiamento esistenziale che fonda l'edificio dogmatico. Che siano
dialoghi, come le opere di Platone, che siano scritte in funzione di lezioni,
come quelle di Aristotele, che siano trattati, come le opere di Plotino,
commenti, come quelle di Proclo, le opere dei filosofi non possono essere
interpretate senza che si tenga conto della situazione concreta in cui sono
nate: emanano da una scuola filosofica, nel senso più concreto del termine, da
una scuola in cui un maestro forma discepoli e si sforza di portarli a
trasformare e realizzare se stessi. L'opera scritta riflette dunque
preoccupazioni pedagogiche, psicagogiche, metodologiche. In fondo, sebbene ogni
scritto sia un monologo, l'opera filosofica è sempre implicitamente un dialogo;
vi è sempre presente la dimensione dell'interlocutore eventuale. È ciò che
spiega le incoerenze e le contraddizioni che gli storici moderni scoprono con
stupore nelle opere dei filosofi antichi. Infatti in queste opere filosofiche il
pensiero non può esprimersi secondo la necessità pura e assoluta di un ordine
sistematico, ma deve tenere conto del livello dell'interlocutore, del tempo del logos concreto
in cui si esprime. Ciò che condiziona il pensiero è l'economia propria del logos scritto;
è esso che è un sistema vivente che, come dice Platone, «deve avere un corpo
proprio, cosicché non manchi né di testa, né di piedi, ma abbia le sue parti di
mezzo e i suoi estremi, scritti in modo da essere in armonia fra loro e con il
tutto». Ogni logos è
un «sistema», ma l'insieme dei λογοι scritti
da un autore non forma un sistema. Ciò è evidente nel caso dei dialoghi di
Platone. Ma è ugualmente vero per le lezioni di Aristotele: sono precisamente
lezioni; e l'errore di molti interpreti di Aristotele è stato quello di
dimenticare che le sue opere erano state scritte in funzione delle sue lezioni,
e di immaginare che si trattasse di manuali odi trattati sistematici, destinati
a presentare l'esposizione completa di una dottrina sistematica; si sono allora
stupiti delle incoerenze e persino delle contraddizioni che incontravano
passando da uno scritto all'altro. Ma, come ha bene mostrato I. Düring, i
diversi λογοι di
Aristotele corrispondono alle situazioni concrete create dalle particolari
dispute scolastiche. Ogni corso di lezioni corrisponde a condizioni diverse, a
una problematica determinata; ha la sua unità interna, ma il suo contenuto
dottrinale non corrisponde esattamente a quello di un altro corso. Del resto
Aristotele non pensa affatto a proporre un sistema completo della realtà, vuole
insegnare ai suoi allievi a impiegare metodi corretti nella logica, nella
scienza della natura, nella morale. I. Düring descrive in un modo eccellente il
metodo aristotelico: «Ciò che caratterizza la maniera aristotelica è il fatto
che stia sempre discutendo un problema. Un risultato importante è quasi sempre
una risposta a una domanda posta in una maniera ben determinata, e non vale che
come risposta a tale domanda precisa. Veramente interessante, in Aristotele, è
il suo modo di porre i problemi, e non già le sue risposte. Il suo metodo di
ricerca consiste nell'avvicinarsi a un problema o a una serie di problemi,
considerandoli sempre in una nuova angolazione. La sua formula per indicare
questo metodo è: "Assumendo ora un altro punto di partenza...". Assumendo così
punti di partenza molto diversi, affronta procedimenti di pensiero a loro volta
molto differenti, e giunge infine a risposte che sono evidentemente tra loro
incompatibili, come avviene per esempio nel caso delle sue ricerche
sull'anima... Se si riflette, si riconosce, in tutti i casi, come la risposta
derivi esattamente dalla maniera in cui è stato posto il problema. Questo tipo
di incoerenze può essere inteso come il risultato naturale del metodo
impiegato». In questo metodo aristotelico dei «punti di partenza diversi»
possiamo riconoscere il metodo che Aristofane attribuiva a Socrate; e, come
abbiamo visto, a questo metodo tutta l'antichità è stata fedele. È per questo
stesso motivo che, mutatis
mutandis, queste righe di I. Düring di fatto si possono applicare a quasi
tutti i filosofi dell'antichità. Poiché questo metodo che non consiste
nell'esporre un sistema, ma nel dare risposte precise a domande precise e
limitate, è il retaggio, permanente in tutta l'antichità, del metodo dialettico,
ossia dell'esercizio dialettico. Per tornare ad Aristotele, c'è una verità
profonda nel fatto che egli stesso chiamasse μεθοδοι i
suoi corsi. D'altronde lo spirito di Aristotele corrisponde, da questo punto di
vista, allo spirito dell'Accademia platonica, che era anzitutto una scuola che
formava, in vista di un eventuale ruolo politico, e un istituto di ricerche
condotte in uno spirito di libera discussione. Se passiamo ora agli scritti di
Plotino, apprendiamo da Porfirio come attingesse l'argomento dai problemi che si
presentavano nel suo insegnamento'. Risposte a domande precise, situati in una
problematica ben determinata, i diversi λογοι di
Plotino si adattano ai bisogni dei suoi discepoli, e cercano di produrre in loro
un certo effetto psicagogico. Non dobbiamo immaginare che siano i capitoli
successivi di una vasta esposizione sistematica del pensiero di Plotino. È il
metodo spirituale di Plotino che si ritrova in ciascuno di essi, ma le
incoerenze e le contraddizioni particolari non mancano, quando si confrontano i
contenuti dottrinali dei diversi trattati. Allorché si affrontano i commenti di
Platone o di Aristotele composti dai neoplatonici, si ha dapprima l'impressione
che la loro redazione sia guidata unicamente da preoccupazioni dottrinali ed
esegetiche. Ma ad un esame approfondito risulta che il metodo dell'esegesi e il
suo contenuto dottrinale sono, in ogni commento, in funzione del livello
spirituale degli ascoltatori a cui il commento stesso si rivolge. Il fatto è che
esiste un corso dell'insegnamento filosofico, fondato sul progresso spirituale.
Non si leggono gli stessi testi ai principianti, ai progredienti e ai perfetti,
e anche le nozioni che compaiono nei commenti sono in funzione delle capacità
spirituali degli ascoltatori. Il contenuto dottrinale può dunque variare
notevolmente da un commento all'altro, sebbene siano entrambi redatti dallo
stesso autore. Ciò non significa che sia cambiata la dottrina dello stesso
commentatore, significa che i bisogni dei discepoli erano diversi. Quando si
esortano degli esordienti (è il genere letterario della parenesi), è possibile,
per provocare un certo effetto nell'anima del proprio interlocutore, impiegare
gli argomenti di una scuola avversa; uno stoico dirà, per esempio: persino se il
piacere è il bene dell'anima (come vogliono gli epicurei), occorre purificarsi
dalle passioni. Marco Aurelio esorterà se stesso in una maniera analoga: se il
mondo non è che un aggregato di atomi, come vogliono gli epicurei, la morte non
deve essere temuta. D'altronde non bisogna mai dimenticare che più dimostrazioni
filosofiche traggono la loro evidenza meno da ragioni astratte che da
un'esperienza che è un esercizio spirituale. Abbiamo visto come fosse questo il
caso della dimostrazione plotiniana dell'immortalità dell'anima: che l'anima
pratichi la virtù, e capirà di essere immortale. Si ritrova un esempio analogo
in uno scrittore cristiano. Il De
Trinitate di Agostino presenta una serie di immagini psicologiche della
Trinità che non formano un sistema coerente, e che, per questo motivo, pongono
molti problemi ai commentatori. Ma in realtà Agostino non vuole presentare una
teoria sistematica delle analogie trinitarie. Vuole fare sperimentare all'anima,
con un ritorno su se stessa, il fatto di essere l'immagine della Trinità:
«Queste trinità, – dice egli stesso, – si producono in noi e sono in noi, quando
noi ricordiamo, quando guardiamo, quando vogliamo tali cose». È infine nel
triplice atto del ricordo di Dio, della conoscenza di Dio, dell'amore di Dio,
che l'anima scopre di essere immagine della Trinità.
Tutti gli esempi
precedenti ci permettono di intravvedere il cambiamento di prospettiva che
apporta, nell'interpretazione e nella lettura delle opere filosofiche
dell'antichità, la preoccupazione di considerare tali opere nella prospettiva
della pratica degli esercizi spirituali. La filosofia appare allora – nel suo
aspetto originario – non più come una costruzione teorica, ma come un metodo
inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno
sforzo di trasformare l'uomo. In genere gli storici contemporanei della
filosofia hanno scarsamente la tendenza a prestare attenzione a questo aspetto,
nondimeno essenziale. Ciò accade precisamente perché – conforme a una concezione
ereditata dal Medioevo e dai tempi moderni – ritengono che la filosofia sia un
procedimento puramente teorico e astratto. Ricordiamo brevemente come sia nata
questa rappresentazione. Sembra proprio che sia il risultato dell'assorbimento
della φιλοσοφια da
parte del cristianesimo. Nei primi secoli il cristianesimo ha presentato se
stesso come una filosofia, nella misura stessa in cui assimilava la pratica
tradizionale degli esercizi spirituali. E ciò che accade specialmente in
Clemente di Alessandria, in Origene, in Agostino, nel monachesimo. Ma, con la
scolastica del Medioevo, theologia e philosophia si
sono chiaramente distinte. La teologia ha preso coscienza dell'autonomia
posseduta in quanto scienza suprema, mentre la filosofia, svuotata degli
esercizi spirituali che facevano ormai parte della mistica e della morale
cristiane, è stata ridotta al rango di un'«ancilla theologiae» che fornisce a
quest'ultima un materiale concettuale, dunque puramente teorico. Quando,
nell'epoca moderna, la filosofia ha riconquistato la propria autonomia, ha
nondimeno conservato molti tratti ereditati dalla concezione medievale, e
specialmente il suo carattere puramente teorico, che è persino evoluto nel senso
di una sistematizzazione sempre più spinta. E soltanto con Nietzsche, Bergson e
l'esistenzialismo che la filosofia ridiventa consapevolmente una maniera di
vivere e di vedere il mondo, un atteggiamento concreto. Ma gli storici
contemporanei del pensiero antico, per parte loro, in genere sono rimasti
prigionieri della vecchia concezione, puramente teorica, della filosofia, e le
tendenze strutturalistiche attuali non li incoraggiano a correggere tale
concezione: l'esercizio spirituale introduce un aspetto vissuto e soggettivo che
non concorda con i loro modelli di spiegazione.
Siamo così ritornati
all'epoca contemporanea e al nostro punto di partenza, alle righe di G.
Friedmann citate all'inizio del nostro studio. A coloro che, come G. Friedmann,
si pongono la domanda «Come praticare esercizi spirituali nel secolo XX?», ho
voluto ricordare l'esistenza di una tradizione occidentale molto ricca e molto
varia. Evidentemente non si tratta di imitare meccanicamente schemi
stereotipati: Socrate e Platone non invitavano forse i loro discepoli a trovare
da soli le soluzioni di cui abbisognavano? Ma non si può ignorare questa
esperienza millenaria. Tra l'altro, lo stoicismo e l'epicureismo sembrano
proprio corrispondere a due poli opposti ma inseparabili della nostra vita
interiore, la tensione e la distensione, il dovere e la serenità, la coscienza
morale e la gioia di esistere. Vauvenargues ha detto: «Un libro davvero nuovo e
davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità». Mi auguro,
in questo senso, di essere stato «davvero nuovo e davvero originale», cercando
di fare amare vecchie verità. Vecchie verità... poiché ci sono verità di cui le
generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano
difficili da capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno
persino l'apparenza della banalità; ma, precisamente, per comprenderne il senso
occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l'esperienza: ogni epoca deve
riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie
verità». Noi passiamo la nostra vita a leggere, ossia a fare esegesi, e persino
esegesi di esegesi («Venite ad ascoltarmi mentre leggo i miei commenti... Vi
farò l'esegesi di Crisippo come nessun altro, renderò interamente conto di tutto
il suo testo... Se necessario, aggiungerò persino il punto di vista di Antipatro
e di Archedemo. Ecco dunque perché i giovani abbandonano la loro patria e i loro
genitori, per venire a sentirti spiegare parole, piccole minuscole parole»),
passiamo la nostra vita a «leggere», ma non sappiamo più leggere, ossia
fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi,
lasciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell'originalità,
meditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino. E un esercizio
spirituale, uno dei più difficili. «La gente, - diceva Goethe, - non sa quanto
tempo e quanto sforzo costi imparare a leggere. Mi ci sono occorsi ottant'anni,
e non sono neanche in grado di dire se ci sia riuscito».
|