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Card. A.M. Ranjith Per
una teologia dell'adorazione eucaristica
ROMA, sabato, 25 giugno 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'intervento che il
Cardinale Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo di Colombo (Sri Lanka), ha tenuto
al Convegno "Adoratio2011"
(Roma, 20 - 23 giugno 2011).
“Quando siamo davanti al SS. Mo Sacramento, invece di guardarci attorno,
chiudiamo gli occhi e la bocca;apriamo il cuore; il nostro buon Dio aprirà il
suo; noi andremo a Lui.Egli verrà a noi, l’uno chiede, l’altro riceve; sarà come
un respiro che passa dall’uno all’altro”, queste erano le parole con le quali il
curato d’Ars,San Giovanni Maria Vianney, cercava di spiegare l’adorazione (Il
piccolo Catechismo del Curato d’Ars, Tan Books & Publishers, Inc. Rockford,
Illinois, 1951, p.42).
1. Adorazione è stare dinanzi a Dio onnipotente in un atteggiamento di silenzio,
potente espressione di fede: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1
Sam.3,10). E’ davvero inspiegabile in termini umani.
Papa Benedetto XVI ha spiegato il significato di adorazione come una proskynesis,
“il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura,
la cui norma accettiamo di seguire”, e come ad – oratio “contatto bocca a bocca,
bacio, abbraccio e quindi in fondo amore” (Omelia del 21 agosto
2005 a Marienfeld, Colonia). E’ tale processo di presenza davanti a Dio che ci
trasforma. San Paolo,parlando di coloro che si volgono verso il Signore come
fece Mosè, dichiara: “quando ci volgeremo verso il Signore, il velo sarà tolto…
e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del
Signore, veniamo trasformati (meta morfoumetha) in quella medesima immagine, di
gloria in gloria” (2 Cor.3,16.18). E’ interessante notare che il verbo usato qui
è lo stesso usato per spiegare la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor (metemorfothè).
La presenza dell’adorante dinanzi a Dio lo trasforma. Ciò è mirabilmente
espresso in quelle parole del libro dell’Esodo: “quando Mosè scese dal monte
Sinai con le due tavole della Testimonianza nelle mani, non sapeva che la pelle
del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Yahweh. Ma
Aronne e tutti gli israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante,
ebbero timore di avvicinarsi a lui” (Es. 34,29-30). E’ come quando qualcuno si
mette a fissare intensamente un tramonto; dopo un po’ di tempo,anche il suo
volto assume un colorito dorato.
Il vescovo Fulton J. Sheen nota, nello spiegare tale esperienza, che quando
guardiamo all’Eucaristia in un atteggiamento di adorazione, di profonda
riverenza e amore “accade qualcosa in noi di molto simile a quanto accadde ai
discepoli di Emmaus. Il pomeriggio della domenica di Pasqua, quando il Signore
si fece
loro incontro, domandò perché fossero così tristi. Trascorse alcune ore alla Sua
presenza e ascoltando di nuovo il segreto della spiritualità – “il Figlio
dell’Uomo deve soffrire per entrare nella Sua gloria” – finito il tempo di stare
con Lui, i loro cuori ardevano” (Un tesoro nell’argilla, Autobiografia).
L’adorazione eucaristica è quindi un incontro profondamente personale e, in
qualche misura, comunitario con il Signore.
L’atteggiamento innato di riverenza non è dato da alcun senso di remissività, ma
da un atteggiamento di fede profonda e dal grande desiderio di dialogo, o
meglio, un atteggiamento di presenza e ascolto tra l’“Io”e il grande “Tu” – la
ricerca della comunione.
E’ come quando Mosè guardava il roveto ardente. Il roveto continuava a bruciare,
ma non si distruggeva. La nostra presenza davanti al Signore eucaristico non
diminuisce la Sua gloria, ma parla a noi e noi dialoghiamo con Lui. E in tutto
questo, veniamo trasformati. Non è Lui che cambia, ma noi. Eppure, lungo la
storia della Chiesa, questa grande fede nella Presenza di Gesù in persona nella
Santissima Eucaristia, ha avuto anche dei detrattori, soprattutto quelli che
criticavano la pratica ecclesiale dell’adorazione eucaristica.
OBIEZIONI ALL’ADORAZIONE
Le forme più antiche di obiezione all’adorazione eucaristica, sorsero nel
contesto di una constatazione della non presenza fisica e reale del Cristo nelle
specie consacrate del pane e del vino. Fu Berengario (999 –1088), l’arcidiacono
di Angers in Francia, che sorprendentemente sosteneva questa posizione
all’inizio del
Medio Evo che, ipso facto, avrebbe reso superflua l’adorazione eucaristica. Ma
fu papa Gregorio VII, il capo della Chiesa allora regnante, che ordinò a
Berengario di firmare una ritrattazione a motivo della fede costante della
Chiesa, un documento che divenne il primo pronunciamento definitivo sulla fede
eucaristica
della Chiesa. Dichiarava: “Credo con il cuore e professo apertamente che il pane
e il vino offerti sull’altare,mediante la preghiera e le parole del Redentore,
sono cambiati sostanzialmente nella vera e propria vivificante carne e sangue di
Gesù Cristo, nostro Signore, e che dopo la consacrazione, sono il vero corpo di
Cristo nato dalla Vergine e appeso alla croce in immolazione per la salvezza del
mondo, così come il sangue di Cristo uscito dal Suo fianco, non solo come segno
e in ragione della potenza del sacramento, ma nella verità e realtà della loro
sostanza e in ciò che è proprio alla loro natura” (Mansi, Collectio amplissima
Conciliorum, XX 524D).
Oltre a tale convinzione di fede, la Chiesa diede impulso a una intensificazione
del culto eucaristico sotto forma di processioni eucaristiche, atti di
adorazione, visite a Cristo nella pisside, ecc. Queste tradizioni iniziate
allora sono diventate espressioni di fede eucaristica. In seguito, presero corpo
altre iniziative, quale
l’istituzione della solennità del Corpus Domini da parte di papa Urbano IV. I
miracoli eucaristici contribuirono alla crescita di tale fervore e rafforzò la
fede della Chiesa sulle specie consacrate del pane e del vino, che sono
realmente e integralmente il corpo e il sangue di Cristo, fede creduta
fermamente dagli
apostoli e sempre professata come dottrina fondamentale della Chiesa. In
effetti, è quanto il Signore stesso aveva affermato e voluto per la Sua Chiesa.
“Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” (cfr. Lc 22,19- 20) e “fate
questo in memoria di me” (Lc 22,19), furono le parole determinanti del Signore
che anche san
Paolo riprende quando presenta l’Eucaristia (1 Cor 4, 23-27).
La fede eucaristica della Chiesa fu definitivamente definita e affermata dal
Concilio di Trento, sullo sfondo della rivoluzione luterana. Esso affermava che
“nel divino sacramento della santa Eucaristia, dopo la consacrazione del pane e
del vino, il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è contenuto
veramente, realmente e sostanzialmente sotto l’apparenza di quelle cose
sensibili” (c. 719) e ancora “poiché il Cristo, nostro Redentore, ha detto che
ciò che offriva sotto la specie del pane (Mt 26,26ss.; Mc 14,22ss; Lc 29,19ss e
1 Cor 11, 24ss) era veramente il suo corpo, nella Chiesa di Dio vi fu sempre la
convinzione, e questo santo Concilio lo dichiara ora di nuovo, che con la
consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza
del pane nella sostanza del corpo del Cristo, nostro Signore, e di tutta la
sostanza del vino nella sostanza del Suo sangue. Questa conversione quindi, in
modo conveniente e appropriato è chiamata dalla santa Chiesa cattolica
transustanziazione” (c. 722). Inoltre, confutò l’errore propagato soprattutto
dalla riforma protestante, secondo cui la transustanziazione fosse impossibile.
Zwingli preferì interpretare la consacrazione nel senso di transignificazione:
non “questo è il mio corpo”, ma “questo è come il mio corpo”. Egli contesta che
non può essere “è”, poiché se così fosse, noi mangeremmo letteralmente la carne
e il Signore sarebbe lacerato dai nostri denti. E dato che ciò non avviene, la
transustanziazione non può essere vera” (cfr. Sulla cena del Signore ‘1526’ in
Corpus Reformatorum: Huldreich Zwingli Saemtliche Werke, vol 91 ‘Lipsia, Hensius
1927’, 796.2 – 800.5). Per questo il Concilio di Trento decretò che “se qualcuno
negherà che nel santissimo sacramento dell’Eucaristia è contenuto veramente,
realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo,
con l’anima e la divinità, e quindi il Cristo tutto intero, ma dirà che esso vi
è solo come in un simbolo o una figura, o solo con la sua potenza: sia anatema”
(canone 728).
La Chiesa pertanto ha fermamente conservato la verità che il pane e il vino
consacrati, sono nella loro sostanza, veramente e integralmente il corpo e il
sangue di Cristo. Un dogma che è stato continuamente riaffermato dai Concili che
seguirono e dai supremi Pontefici. Come papa Pio XII, il quale dichiarò che “per
mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo,
come si ha realmente presente il Suo corpo, così si ha il Suo sangue” (Mediator
Dei, 70). Lo stesso è stato ribadito da papa Paolo VI (Mysterium Fidei, 46), da
papa Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia, 15, e da papa Benedetto XVI
(Sacramentum Caritatis 10, 11 e 66).
Papa Paolo VI, da parte sua, era seriamente preoccupato riguardo a una certa
tendenza nella Chiesa,successiva al Concilio Vaticano II, di attenuazione di
fede sulla sostanza dell’Eucaristia, in particolare sulla transustanziazione e
sulla presenza permanente. Egli dichiarò: “ben sappiamo che… ci sono alcuni che
circa
le Messe private, il dogma della transustanziazione e il culto eucaristico,
divulgano certe opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi non poca
confusione..” (Mysterium Fidei 10). E continua il papa: “non possiamo approvare
le opinioni che essi esprimono e sentiamo il dovere di avvisarvi del grave
pericolo
di quelle opinioni per la retta fede” (ibid 14). Il papa, durante la cui vita si
svolse la maggior parte del Concilio Vaticano II, affermava: “la costante
istruzione impartita dalla Chiesa ai catecumeni, il senso del popolo cristiano,
la dottrina definita dal Concilio di Trento e le stesse parole con cui Cristo
istituì la SS.ma
Eucaristia ci obbligano a professare che ‘l’Eucaristia è la carne del nostro
Salvatore Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati e che il Padre per sua
benignità ha risuscitato’ (S. Ignazio di Antiochia, Epistola ai smirnesi 7,1; PG
5,714). Alle parole del martire sant’Ignazio, Ci piace aggiungere le parole di
Teodoro di Mopsuestia, in questa materia testimone attendibile della fede della
Chiesa: ‘Il Signore, egli scrive, non disse: questo è il simbolo del mio corpo e
questo è il simbolo del mio sangue, ma: questo è il mio corpo e il mio sangue,
insegnandoci a non considerare la natura della cosa presentata, ma a credere che
essa con l’azione di grazia si è tramutata in carne e sangue’” (Mysterium fidei
44). In effetti, l’intera enciclica di Paolo VI è una solida difesa della retta
fede della Chiesa sulla SS.ma Eucaristia. Inoltre, nella solenne professione di
fede del 30 giugno 1968, egli affermò che “ogni spiegazione teologica che tenti
di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede
cattolica, deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente
dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la
consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del
Signore Gesù ad essere realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del
pane e del vino” (25, AAS60 (1968) 442-443). Di conseguenza, il Papa sollecita i
vescovi “affinché questa fede… rigettando nettamente ogni opinione erronea e
perniciosa, voi custodiate pura e integra nel popolo” e “promoviate il culto
eucaristico, a cui
devono convergere finalmente tutte le altre forme di pietà” (Mysterium fidei
65).
Risulta chiaro dunque che le obiezioni all’adorazione eucaristica basate su una
contestazione o una falsa interpretazione della fede e dottrina ecclesiali, sono
disapprovate e fermamente respinte.
2. Il Santo Padre, papa Benedetto XVI, nella Esortazione apostolica
post-sinodale “Sacramentum Caritatis”,parla di un’opinione che si era diffusa
“mentre la riforma liturgica conciliare muoveva i primi passi”,secondo cui
“l’intrinseco rapporto tra la santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento
non fu
abbastanza chiaramente percepito”. Dichiara il papa, “un’obiezione allora
diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico
non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma Card. A.M. Ranjith Per una
teologia dell'adorazione eucaristica per essere mangiato” (Sacr. Car. 66). Una
situazione scaturita probabilmente da qualche influsso della teologia
protestante, dal momento che tracce di tale errore riflettono quanto avvenuto
durante la riforma protestante. Quasi tutti i riformatori contraddicevano la
dottrina tridentina sulla presenza permanente e transustanziata di Cristo nel
pane e vino consacrati, riducendolo a un mero fatto simbolico, affermando
peraltro che l’Eucaristia era solo una cena conviviale, ma non un sacrificio
riattualizzato, per cui veniva meno l’adorazione. Benché Lutero, Zwingli,
Melantone e Giovanni Calvino avessero prospettive particolari tra loro a volte
contraddittorie, in genere la loro interpretazione dell’Eucaristia era in
contrasto con la teologia cattolica del tempo. Lutero sosteneva che la presenza
reale si limitava alla ricezione della Santa Comunione (in usu, non extra).
Infatti i luterani credono nella presenza reale solo tra la consacrazione e la
Santa Comunione. Posizione che fu fermamente condannata dal Concilio di Trento,
che decretò che “se qualcuno dirà che, una volta terminata la consacrazione, nel
mirabile sacramento ell’Eucaristia non vi sono il corpo e il sangue del Signore
nostro Gesù Cristo, ma che vi sono solo durante l’uso, mentre lo si riceve, ma
né prima né dopo; e che nelle ostie o particole consacrate, che si conservano o
avanzano dopo la comunione, non rimane il vero corpo del Signore: sia anatema”
(canone 731). Per la Chiesa cattolica dunque la presenza di Cristo nelle specie
consacrate dell’Eucaristia, non è limitata solo al momento dellaComunione, ma
permane. In altre parole, non è fatta solo per essere “mangiata”, ma anche per
essere adorata.
Papa Benedetto XVI sottolinea proprio questo aspetto quando dichiara che
“ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso
colui che riceviamo” (Sacramentum Caritatis, 66).
Effettivamente, l’Eucaristia non è semplicemente l’anticipazione gioiosa del
banchetto celeste che avverrà alla parusia, ma è pure il Sacrificio del Calvario
e suo memoriale. Non è solo una festa per la nostra fame ma anche per i nostri
occhi, poiché fissiamo stupiti l’autodonazione di amore per la nostra salvezza.
Ma Lutero non la vede così.
Per lui, non esiste alcun legame ontologico tra quanto avvenne sul Calvario e
quanto avviene sull’altare, perquesto la teologia luterana non dà adeguato
valore all’aspetto sacrificale della Santa Messa. Ponesoprattutto l’accento
sull’aspetto conviviale della Cena. E’ forse questa la ragione per cui Lutero
non diede
molta importanza alla teologia del sacerdozio, specialmente nella sua dimensione
sacrificale, come è esposto nella lettera agli Ebrei. Al contrario, per la
teologia cattolica, ogni volta che si celebra l’Eucaristia, si rinnova il
sacrificio di Cristo sul Calvario, così come ha dichiarato papa Pio XII:
“L’augusto sacrificio dell’altare non è una pura e semplice commemorazione della
passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale,
immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla
croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima” (Mediator Dei,
68). Nell’Eucaristia, il nostro sguardo si eleva con profonda fede, umile
venerazione e adorazione dinanzi all’augusta persona di Gesù sulla croce.
Infatti, il vangelo di san Giovanni (19,37) presenta la crocifissione quale
compimento della profezia di Zaccaria: “guarderanno a colui che hanno trafitto”
(Zac 12,10). E’ il sacrificio verso il quale
guardò e sperimentò la fede il centurione, quando riconobbe in Gesù il
Salvatore: “davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).
L’Eucaristia, con la forza di quanto ripresenta – la più radicale e potente
espressione dell’amore di Dio nell’auto-offerta di Gesù, il Figlio di Dio –
esige da noi che rivolgiamo il nostro sguardo su di Lui e che proclamiamo la
nostra fede in Lui. Questa è la base della fede di Sant’Agostino che con grande
chiarezza
annuncia che peccheremmo se, prima di riceverlo, non lo adorassimo. Questo
mirabile sacrificio di Cristo, il suo auto-spezzarsi per divenire nostro cibo
divino, deve essere guardato con grande stupore e profonda fede.
Infatti Gesù predisse che, al momento della sua morte salvifica, dovevamo
guardare verso di Lui per riconoscere la Sua divinità – “quando avrete innalzato
il Figlio dell’Uomo, allora saprete che Io Sono” (Mc.15,39). E’ lo stesso verbo
usato dal Signore per spiegare “l’innalzamento” qui con “l’innalzamento”
delserpente di bronzo nel deserto fatto da Mosè per salvare il popolo d’Israele
a cui fa riferimento Gv 3,14. E’ interessante notare che in entrambe le
occasioni, Gesù si riferisce al riconoscimento della Sua persona nella fede
(“perché chiunque crede in Lui” – Gv 3,15) e (“conoscerete che Io Sono” Gv
8,28).
E’ guardando al sacrificio di Cristo che viene confermata la fede e si è
salvati. Ad ogni Eucaristia in cui l’unico sacrificio di Cristo sul Calvario è
ripresentato, nasce la fede e lo adoriamo come Figlio di Dio. E’ un pregustare
la nostra salvezza – un pregustare il paradiso. Per questo, un’Eucaristia senza
sguardo adorante su Cristo, sarebbe più povera. Diversamente, se i nostri cuori
non si innalzano allo stupore della salvezza sulla croce, l’Eucaristia stessa si
ridurrebbe a una formalità in più, a uno schiamazzo rumoroso, a una vuota
esperienza senza fede e senza gusto. La tendenza, pertanto, a rendere la Messa
più moderna e colorita è,
come minimo, di cattivo gusto. Se quando lo riceviamo, non lo adoriamo, non
sapremmo nemmeno chi è Colui che viene a farci Suoi. Sarebbe un modo di ricevere
l’Eucaristia senza senso. Proprio questo il papa sottolinea quando dice
“soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e
vera”(Sacramentum Caritatis, 66).
In questo senso, assicurare una celebrazione devota e contemplata
dell’Eucaristia non sarebbe più una questione di scelta, ma di necessità. In
questo, personalmente preferirei l’atmosfera devota e orante della Messa
tridentina dove la partecipazione dell’assemblea è più sommessa, pacata e
raccolta, il che è
rispettoso del grande mistero che avviene sull’altare.
Forse è arrivato il tempo di pensare di inquadrare bene che cosa significhi
“partecipazione attiva”. Papa Benedetto XVI ha infatti dedicato un capitolo
intero su questo tema nella Sacramentum Caritatis. Dichiara il Papa: “conviene
mettere in chiaro che con tale parola “partecipazione”, non si intende fare
riferimento ad
una semplice attività esterna durante la celebrazione. In realtà, l’attiva
partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più
sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene
celebrato e del suo rapporto con l’esistenza quotidiana” (Sacramentum Caritatis,
52).Questa è adorazione, e considerando in tal modo tutti questi elementi,
possiamo affermare che l’Eucaristia non è soltanto per mangiare ma anche per
adorare.
3. Un’altra obiezione che si era diffusa largamente in certi ambienti, è che
l’adorazione non sia conforme allo spirito delle celebrazione eucaristica, o che
sia soltanto un’attività pietistica senza nesso con la SS.ma Eucaristia. Tale
asserzione che la Chiesa aveva già condannato in passato (can. Trid. 734/724),
sembrò riemergere con forza nella riforma liturgica post conciliare, soprattutto
sullo sfondo di una riduzione della Santa Messa a semplice banchetto conviviale,
a prezzo della dimensione sacrificale.
In effetti, è avvenuto che pratiche quali la Benedizione col Santissimo
Sacramento, l’Ora Santa, l’adorazione perpetua fossero giudicate come contrarie
allo spirito del Concilio. Già il Concilio di Trento aveva denunciato quelli che
rifiutano la tradizione secolare di devozione o culto eucaristico: “Se qualcuno
dirà che nel santo sacramento dell’Eucaristia il Cristo, unigenito Figlio di
Dio, non deve essere adorato con culto di latria, anche esterno; e perciò non
deve neppure essere venerato con una particolare solennità; né deve essere
portato solennemente in processione, secondo il lodevole e universale rito e
consuetudine della santa Chiesa; o che non deve essere esposto pubblicamente
all’adorazione del popolo; e che coloro che l’adorano sono degli idolatri: sia
anatema” (canone 734).
Questo canone è conforme al relativo insegnamento di quello stesso Concilio che
“l’uso di conservare la santa Eucaristia in un tabernacolo è così antico che era
noto anche ai tempi del Concilio di Nicea. Che poi la stessa santa Eucaristia
sia portata agli infermi e a questo scopo sia conservata con cura nelle chiese,
oltre a
essere un fatto sommamente giusto e ragionevole, è anche comandato da molti
concili e rientra nell’antichissima consuetudine della Chiesa cattolica. Questo
santo sinodo stabilisce perciò che bisogna assolutamente conservare questo uso
salutare e necessario” (canone 724).
A questo proposito, è bene ribadire che la pratica di conservare il SS.mo
Sacramento per portarlo agli infermi o agli eremiti, è veramente antica. Era un
corollario naturale all’antica fede della Chiesa sulla presenza permanente e
personale di Cristo nelle specie consacrate dell’Eucaristia. E’ questa fede che
ha
condotto gradualmente la Chiesa a introdurre il culto formale all’Eucaristia al
di fuori della Messa e a quelle pratiche devozionali, quali processioni, atti di
adorazione, visite al Signore nella pisside, finestre dalle celle dei monaci da
cui potevano osservare e adorare Cristo nel tabernacolo ed infine alla festività
del Corpus Domini, l’Ora Santa, la Benedizione col SS.mo Sacramento, le
confraternite di adoratori e i congressi eucaristici. Si è trattato di un
processo in continuo sviluppo.
La considerazione importante era che, poiché Cristo è presente nelle specie
eucaristiche non soltanto durante la celebrazione della Santa Messa ma anche
dopo, Egli deve essere adorato e glorificato. Le specie eucaristiche, una volta
consacrate, rimangono divine e perciò adorabili – è la presenza visibile di
Cristo in
mezzo a noi. Una pratica, certamente, che fu ridicolizzata dai riformatori e
chiamata idolatria. Giovanni Calvino, ad esempio, che non considerava il pane e
il vino vero corpo e sangue di Cristo ma solo un segno o simbolo, riteneva
l’adorazione eucaristica praticata dai cattolici, una idolatria. Il loro uso
delle sacre specie era quindi limitato solo al rito della comunione e gli avanzi
venivano scartati. La stessa posizione più o meno avevano Lutero, Zwingli e
Melantone. La Chiesa cattolica è chiara su questo, poiché le devozioni
eucaristiche non sono che una conseguenza naturale della sua fede nella presenza
permanente e
immutabile di Cristo nelle specie eucaristiche. E’ in questa luce che bisogna
comprendere la tradizione bimillenaria della Chiesa – l’Eucaristia esiste per
l’adorazione così come per la comunione.
Paolo VI ha dichiarato: “la Chiesa Cattolica professa questo culto latreutico al
Sacramento eucaristico non solo durante la Messa, ma anche fuori della sua
celebrazione, conservando con la massima diligenza le ostie consacrate,
presentandole alla solenne venerazione dei fedeli cristiani, portandole in
processione con gaudio della folla cristiana” (Mysterium Fidei, 57).
Alcuni purtroppo affermano che il Concilio Vaticano II non ha dato tanta
importanza alle devozioni eucaristiche, per cui non merita grande attenzione. In
effetti, potrebbe essere questa un’analisi corretta,dato che il documento
conciliare sulla sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, sia nella
presentazione
generale, sia nella esposizione sulla SS.ma Eucaristia (cap. II) e degli altri
sacramenti e sacramentali, non fa menzione delle devozioni al SS.mo Sacramento.
Fa accenno alle devozioni popolari in un breve passaggio
(n. 13), ma nulla sulle devozioni eucaristiche. Ciò è in forte contrasto con
l’esposizione sul tema che si hanno nei decreti del Concilio di Trento e
nell’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII. Se sia stata una dimenticanza voluta o
accidentale, è una questione aperta. Molto probabilmente, quelle devozioni
venivano date per scontate come un dato di fatto e perciò non trattate in modo
esplicito. Tuttavia, si sarebbe dovuto fare qualche menzione, data l’importanza
dei pronunciamenti del Concilio per il futuro e l’importanza data a queste
devozioni lungo i secoli. Tale omissione fu la probabile ragione della succitata
pretesa che l’Eucaristia non è per l’adorazione ma per essere mangiata, e che il
Concilio non ha dato molta importanza a quell’aspetto di culto liturgico.
Anche questo può aver spinto Papa Paolo VI a lamentarsi nell’enciclica sulla
Santa Eucaristia del 3 settembre 1965, Mysterium Fidei che “non mancano… motivi
di grave sollecitudine pastorale e di ansietà,dei quali la coscienza del Nostro
dovere Apostolico non ci permette di tacere. Ben sappiamo infatti che tra
quelli che parlano e scrivono di questo Sacrosanto Mistero ci sono alcuni che
circa le Messe private, il dogma della transustanziazione e il culto
eucaristico, divulgano certe opinioni che turbano l’animo dei fedeli ingerendovi
non poca confusione intorno alle verità di fede” (MF 9-10). Il Papa prosegue poi
spiegando che cosa intende per “opinioni” e tra queste nomina “l’opinione
secondo la quale nelle Ostie consacrate e rimaste dopo la celebrazione del
sacrificio della Messa, Nostro Signore Gesù Cristo non sarebbe più presente”
(Mysterium Fidei, 11). L’errore menzionato dimostra una diminuzione del ruolo
della fede eucaristica della Chiesa e della sua pratica di adorazione.
Il Papa continua affermando il valore dell’adorazione eucaristica in modo esteso
nell’enciclica. Egli dichiara “la Chiesa Cattolica professa questo culto
latreutico al Sacramento Eucaristico non solo durante la Messa ma anche fuori
della sua celebrazione, conservando con la massima diligenza le ostie
consacrate,
presentandole alla solenne venerazione dei fedeli cristiani, portandole in
processione con gaudio della folla cristiana” (Mysterium Fidei, 57). Spiega poi
con grande dettaglio e citazioni dei Padri della Chiesa, vari elementi di
devozione eucaristica (no. 56-65) e il dovere di conservarli. Esorta i Vescovi
“affinché questa
fede, che non tende ad altro che a custodire una perfetta fedeltà alla parola di
Cristo e degli Apostoli,rigettando nettamente ogni opinione erronea e
perniciosa, voi custodiate pura ed integra nel popolo affidato alla vostra cura
e vigilanza e promoviate il culto eucaristico a cui devono convergere finalmente
tutte le altre forme di pietà” (Mysterium Fidei, 65).
E così, alla luce di una quasi totale assenza di menzione sull’adorazione e
devozioni eucaristiche nella costituzione conciliare sulla sacra liturgia
“Sacrosanctum Concilium”, e alla tendenza riemergente in alcuni ambienti di
ridimensionare o rigettare tale fede, questa enciclica di Paolo VI pubblicata
ancor prima della conclusione formale del Concilio (8 dicembre 1965), può essere
considerata una risposta adeguata a quegli elementi protestantizzanti in seno
alla Chiesa e una dovuta correzione certamente, per cui dobbiamo essere grati a
Papa Paolo VI. Riguardo all’opinione secondo cui non vi sarebbe continuità tra
la celebrazione della santa Eucaristia e le relative devozioni, è la stessa
Mysterium Fidei che dà la risposta, dichiarando: “la Chiesa professa questo
culto latreutico al SS.mo Sacramento non solo durante la Messa ma anche al di
fuori di essa” (Mysterium Fidei, 57). Anche Papa Giovanni Paolo II ha spiegato
il nesso ontologico tra la celebrazione – ricezione e momenti di adorazione
dell’Eucaristia dichiarando che essa “è allo stesso tempo sacramento –
sacrificio,sacramento – comunione e sacramento – presenza” (Redemptor Hominis,
20). Sono legate insieme, non è possibile separarle. Infatti, non si può
celebrare l’Eucaristia senza essere consapevoli della grandiosità di quanto
avviene sull’altare e senza assumere un atteggiamento di timore e di venerazione
verso Dio che si offre ogni giorno sugli altari per la nostra salvezza.
Ciò che avviene realmente nella celebrazione dell’Eucaristia è che il sacerdote
celebrante, totalmente identificato con il Sommo Sacerdote, Cristo, la cui
celebrazione della festa pasquale nella Gerusalemme celeste, circondata dai cori
degli angeli continua senza fine, diventa l’“alter Christus” e permette alla
festa
della nostra redenzione di realizzarsi anche sui nostri altari. L’invisibile
sacrificio celeste di amore,dell’”agnello immolato”, scende in modo visibile sui
nostri altari – il divino diventa terreno. Papa Benedetto XVI lo spiega come
“veritatis splendor”; “Gesù Cristo ci mostra come la verità dell’amore sa
trasfigurare
anche l’oscuro mistero della morte nella luce irradiante della risurrezione. Qui
il fulgore della gloria di Dio supera ogni bellezza intramondana. La vera
bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero
pasquale”. (Sacramentum Caritatis, 35). Ciò non può che colmarci di stupore e di
adorante
venerazione.
Anche ricevere la Comunione richiede fede nella immensità di ciò che sta per
avverarsi – il Signore viene a me, o meglio, venendo da me, mi abbraccia e
desidera trasformarmi in se stesso. Non si tratta di un semplice atto meccanico
di ricevere un pezzo di pane – qualcosa che avviene in un istante. Ma è l’invito
a
essere in comunione con il Signore: invito all’amore. Il Papa spiega
l’adorazione con queste parole testuali: “La parola greca (per adorazione) è
proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di
Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire… la parola
latina per adorazione è ad–
oratio, contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La
sottomissione diventa unione,perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore.
Così sottomissione acquista un senso, perché non ciimpone cose estranee, ma ci
libera in funzione della più intima verità del nostro essere” (Omelia in
occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, Colonia, 21 agosto 2005).
L’adorazione quindi è sottomissione per amore ed intimità con il Signore. Ciò
significa che accogliere il Signore, l’atto che ci permette l’esperienza del Suo
amore al massimo livello, invitandoci a stare con Lui,non può aver luogo se non
in un clima di adorazione. E anche l’immolazione di Cristo alla consacrazione
del
pane e del vino, il culmine del Suo sacrificio per amor nostro, non può non
essere un momento che esige adorazione. Per cui si può dire che l’Eucaristia
richiede adorazione sia durante la celebrazione sia nel ricevere la Comunione.
Afferma Papa Benedetto: “la Comunione e l’adorazione non stanno fianco a fianco
o addirittura in contrasto tra loro, ma sono indivisibilmente uno… L’amore o
l’amicizia sempre portano con sé un impulso di riverenza, di adorazione.
Comunicare con Cristo perciò esige che fissiamo lo sguardo su di Lui, permettere
al Suo sguardo di fissarsi su di noi, ascoltarlo, imparare a conoscerlo” (God is
near us. Ignatius Press, San Francisco 2003, p. 97).
E’ in questa luce che dovremmo comprendere la famosa frase di Sant’Agostino:
“nemo autem illam Carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando”
– o “nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la
adorassimo” (Enarrationes in Psalmos 98,9, CCL XXXIX, 1385). Soltanto
l’adorazione infatti apre il nostro cuore verso un senso autentico di
partecipazione all’Eucaristia, poiché lo dilata all’esperienza del profondo
amore di Dio manifestato nell’Eucaristia e verso un’unione vera e profondamente
personale con Cristo al momento della Comunione (“Ecco: sto alla porta e busso.
Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con
lui ed egli con me” – Ap 3,20).
In questo senso, le parole del Papa sono chiare: “Ricevere l’Eucaristia
significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo.
Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in
anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (Sacramentum
Caritatis, 66). E’
l’adorazione quindi capace di rendere la celebrazione della Santa Eucaristia e
il ricevere il SS.mo Corpo e Sangue di Cristo, pieni di significato e
profondamente trasformanti. Altrimenti, si ridurrebbe a puro esercizio meccanico
o a cacofonia sociale; un evento dell’uomo e non di Dio, perché l’adorazione fa
dell’Eucaristia un’esperienza di grazia divina salvifica e di eternità. Non
solo, l’adorazione trova un suo naturale sbocco in tutte le altre devozioni
eucaristiche, dando ad esse significato e profondità. Il momento supremo
dell’adorazione è l’Eucaristia e fluisce in tutte le devozioni ad essa connesse.
L’una dà significato e profondità all’altra.E’ triste notare come in alcuni
luoghi le chiese e i santuari si sono trasformati in piazze da mercato o teatri
o sale da concerto. Mi è capitato di entrare un giorno in una cattedrale di
un’importante città europea dove vi era gente che aspettava la celebrazione di
una Messa nuziale: era come una grande piazza di mercato dove tutti erano
impegnati in animata conversazione. Non vi era certo alcun spirito di
raccoglimento o il minimo senso di riverenza adorante in preparazione
all’Eucaristia. Mi hanno raccontato di una Eucaristia in una chiesa parrocchiale
in Germania, dove rappresentavano un dramma teatrale con l’assemblea che
partecipava mediante preghiere e scenette, e il parroco faceva il presentatore.
Ho chiesto all’amico che mi raccontava la vicenda, che effetto gli aveva fatto,
e lui mi ha risposto con le parole “tanto rumore per nulla”.
Dovremmo chiederci se siamo seri sulla fede cattolica riguardo alla
transustanziazione e alla presenza permanente di Cristo nell’Eucaristia, se non
abbiamo annacquato l’insieme della nostra fede in nome di teorie insignificanti
e teologizzare pedante, che cerca continuamente compromessi con il secolarismo e
l’ateismo. In conclusione, voglio ribadire con forza che l’Eucaristia non
adorata è una contraddizione in sé, e adorazione senza Eucaristia è impossibile
– perché Eucaristia e adorazione sono come le due facce della stessa realtà.
Qualcuno lamenta che l’adorazione eucaristica è troppo privata, troppo personale
e perfino troppo silenziosa. Una critica che sembra basarsi su constatazioni
erronee: che l’adorazione sia solo privata per essenza e che il culto di Dio
debba sempre essere un esercizio comunitario. Ma entrambe le posizioni sono
insostenibili. L’adorazione ha anche una dimensione comunitaria, poiché, quando
adoriamo il Signore,entrando in comunione con Lui o lasciando che Egli ci
stringa a sé, noi diventiamo uniti gli uni gli altri in Lui.
Dichiara Papa Benedetto: “L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con
tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me;
posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o
diventeranno suoi” (Deus Caritas Est, 14). Pertanto, quando io adoro il Signore
in privato,
mi trovo costantemente in rapporto con gli altri e anch’essi Lo adorano con me.
E’ così che si crea lacomunione. La preghiera privata non necessariamente toglie
dalla comunità. Costruisce la comunità.
Inoltre, ogni volta che la Chiesa si impegna nel culto pubblico e in atti di
adorazione, è l’intero corpo dei chiesa presente in ogni suo singolo membro.
Anche Gesù ha adorato il Padre in privato così come in preghiera pubblica, come
differiva il tempio dalla sinagoga. Ne deriva che ogni atto di adorazione
privata o comunitaria ha un effetto salutare sia sulla comunità che
sull’individuo.
Il culto poi non necessariamente deve essere limitato solo a quello comunitario,
può benissimo essere personale. Come detto sopra, Gesù ha passato moltissimo
tempo in preghiera da solo. Ciò però non gli ha impedito di farsi vicino agli
altri. Anzi, Egli ha offerto la Sua vita per la redenzione degli altri,
altruismo al
massimo livello. Di conseguenza, l’adorazione non ci toglie e non ci deve
togliere dalla preghiera comunitaria o dai nostri doveri comunitari. Ci stringe
ancora di più gli uni gli altri nel Signore. Vi sono ancora altri che obiettano
all’adorazione eucaristica dicendo che c’è sotto una mentalità eccessiva da
“solo io e Gesù”. Come già detto sopra, l’adorazione, avvicinandoci maggiormente
a Gesù, ci
rende più sensibili verso il prossimo. Ciò emerge meglio nella vita di alcuni
dei più grandi santi o figure venerabili. Basta fare solo l’esempio della Beata
Madre Teresa di Calcutta che voleva che le sue suore rimanessero parecchie ore
in preghiera e adorazione davanti al SS.mo Sacramento ogni giorno, prima di
recarsi sulle strade ad assistere i malati e i morenti. Era proprio la
sensazione della presenza del Signore in mezzo a loro che le riempiva di energia
per il quotidiano lavoro. Dinanzi alle critiche rivolte a Madre Teresa sulle
troppe ore passate dalle suore in preghiera e adorazione, togliendo loro tempo
prezioso, ella rispose un giorno: “se le mie suore non passassero così tanto
tempo in preghiera, non potrebbero servire affatto i poveri e i malati”.
Come papa Benedetto ci assicura, l’adorazione “vuole rompere le barriere non
solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano
dagli altri” (Sacramentum Caritatis, 66). Nella “Deus Caritas est”, il Santo
Padre dichiara: “La pietà non indebolisce la lotta contro la povertà o
addirittura contro la miseria del prossimo. La Beata Teresa di Calcutta è un
esempio molto evidente del fatto che il tempo dedicato a Dio nella preghiera non
solo non nuoce all’efficacia e all’operosità dell’amore verso il prossimo,ma ne
è in realtà l’inesauribile sorgente” (Deus Caritas Est, 36).
La preghiera personale non va contro la preghiera comunitaria e neppure l’una
esclude l’altra, in realtà si nutrono a vicenda. La preghiera liturgica crea e
promuove il rapporto non soltanto tra Dio e la comunità,ma altresì tra Dio e me,
facendomi sensibile al bisogno di un costante contatto con il divino nella mia
vita.
Forse un equivoco in questo senso ha portato alcuni a credere che le devozioni
individuali non siano più necessarie, a seguito del grande rilievo dato al culto
liturgico e comunitario dopo il Vaticano II. Ma questo non è corretto. La
"Sacrosanctum Concilium” dichiara infatti: “La vita spirituale tuttavia non si
esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia. Il cristiano infatti, benché
chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare nella propria
stanza per pregare il Padre in segreto” (SC, 12). La preghiera liturgica,anzi, è
rafforzata e arricchita dalla preghiera personale. L’adorazione del SS.mo
Sacramento come personale devozione è dunque importante e aiuta a creare un
clima interiore in noi che si nutre di preghiera liturgica e intima
partecipazione.
Lasciate che concluda con le belle parole del Curato d’Ars, San Giovanni Maria
Vianney, vero apostolo di adorazione: “Oh, se avessimo gli occhi degli angeli
per vedere nostro Signore Gesù Cristo, che è qui presente su questo altare e ci
guarda, come Lo ameremmo! Mai vorremmo andarcene via da Lui.
Vorremmo restare sempre ai Suoi piedi; sarebbe pregustare il Cielo: tutto il
resto non avrebbe più gusto per noi” (Il Curato d’Ars,il piccolo catechismo del
Curato d’Ars, Tan Books and Publishers Inc. Rockford, Illinois 61105, 1951,
p.41).
Grazie.
Roma, 22 giugno 2011
Malcolm Card. Ranjith
Arcivescovo di Colombo
(traduzione dall'inglese di don Giorgio Rizzieri)
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