Marco Vozza, Jean-Luc Nancy e la filosofia del corpo

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Marco Vozza, Jean-Luc Nancy e la filosofia del corpo


 

NOTA DELL’EDITORE

Alcuni passi di questo testo sono ripresi da vari articoli, pubblicati negli ultimi dieci anni su “La Stampa”, “l’Unità”, “L’Indice”, e nella prefazione a J.-L. Nancy, Indizi sul corpo, Torino, Ananke, 2009.

TESTO INTEGRALE

1Penso che il tema portante della filosofia di Jean-Luc Nancy sia quello dell’esistenza come esposizione corporea: “Non c’è altra evidenza – chiara e distinta come vuole Descartes – che quella del corpo”. Se la peculiarità dell’esistenza è il non avere alcuna essenza, allora il corpo è l’essere dell’esistenza, il luogo del suo accadere, l’apertura, la spaziatura, l’articolazione, l’effrazione, l’iscrizione del senso; se l’esistenza appare come un’esposizione corporea, allora il pensiero avrà come oggetto il corpo e l’esperienza del toccare, l’istituzione del senso nell’estensione e vibrazione dei corpi, l’unica evidenza di un λόγος (lógos) sensibile, incarnato: a questo pensiero inscritto nella corporeità esposta al mondo corrisponde la nudità dell’esistenza priva di ancoraggi metafisici, orfana di fondazione e di trascendenza, costantemente disponibile nella sua precaria e vulnerabile ostensione, sensuale ex-peau-sition. Tramontato l’essere nella sua presenza permanente e impassibile a favore di una pluralità di presenze singolari, sovranamente essenti meramente esistenti, rimane soltanto – come si legge nella ouverture al pensiero che si sottrae o che si spoglia dei suoi secolari attributi – “la nudità del mondo senza origine né fine, che si espone interamente a se stessa”. Il corpo è la pelle rivolta all’esterno, al mondo cui si espone, quel mondo intessuto della contingenza dei corpi in cui è gettato ogni moi-dehors.

  • 1 J.-L. NancyHegel. L’inquietude du negatif, Paris, Hachette, 1997; trad. it. A. Moscati, Hegel. L’ (...)

2Nuda veritas, ma la nudità non coincide con la verità: piuttosto ne custodisce il mistero, ne è “insieme l’inquietudine, l’attesa, la cura e l’appello”. Una volta dissolta, se non demolita, la consistenza dell’ego e della sua arcana interiorità – come si dichiara nei saggi dedicati a Hegel – «la grandezza del pensiero è nella semplicità della decisione che si volge verso la nuda manifestazione»1. Non il mistero di una verità da rivelare, da portare alla luce della coscienza, ma la rivelazione stessa, a fior di pelle, nella sua immanenza inesauribile e debordante. Non vi è nulla da svelare: questo è la condizione di una “apertura propedeutica alla ricerca della verità” che finalmente si avvale del lume naturale.

3Denudarsi significa esporsi come immagine, trasferire ogni arcana profondità sulla superficie corporea perché «il mondo è composto proprio e soltanto di superfici su superfici» (M, it. 109): così come accade con la Betsabea di Rembrandt, la cui intimità è violata dal nostro sguardo mentre ella medita sul significato di una lettera dal contenuto per noi indecifrabile; il suo essere-in-sé consiste nel suo essere-fuori-di-sé, ex-statico, emblema della nudità che è la pura, seppur transitoria esposizione della superficie del senso, esibizione evanescente, effimera, abissale, nella quale si annida anche l’esperienza del dolore, il male che trasfigura la bellezza, l’affatica e l’appesantisce. Offrirsi nudi allo sguardo è rivelare la “mancanza dell’abito di un’essenza”, esibire la propria amabile fragilità di singolarità erranti e tremanti, che esistono in “un regime d’essere incerto”, rinunciando a ostentare qualsivoglia ornamento di senso pregresso e, al tempo stesso, mostrando la propria intimità nell’évanouissement di ogni interiorità. Pura ecceità di “un’esistenza senza ragioni né garanti” che anela, perturbata e alterata, a una attestazione che corrisponde a una testimonianza peritura, sospesa tra il godimento e la morte.

  • 2 F. Ferrari - J.L. Nancy, Nous sommes: la peau des images, Bruxelles, Gevaert, 2002; trad. it. La pe (...)

4Già Paul Valéry sosteneva che “la profondità dell’uomo è la sua pelle”: l’esperienza della nudità sembra rinviare a un sapere della superficie, a una cognizione dell’immanenza singolare, a un pensiero della carne dotato di un attributo relazionale o comunitario, derivante da una condizione di esistenza condivisa, quale si manifesta nella complicità della carezza, nell’atto del toccare che si trattiene dall’afferrare e non sfocia mai nell’appropriazione o nell’identificazione: «Esiste una nudità isolata? La nudità non è un essere, né una qualità, è sempre un rapporto, molteplici rapporti simultanei, con altri, con sé, con l’immagine, con l’assenza d’immagine»2. Non esiste alcuna nudità solitaria – ribadisce Nancy davanti alla fotografie di Jacques Damez –; il sé non ritorna mai a sé, piuttosto espone il corpo al fuori di sé, lascia affiorare la distesa di un’anima, la sua venuta in presenza che evoca il toccare e l’essere toccato. Ogni nudità lascia scorgere la morte alle proprie spalle, la minaccia che incombe come una nube opprimente.

5Se l’interiorità del soggetto nudo è superficie incarnata, offerta senza ritegno, singolarità della carne palpabile, psiche che si coglie inconsapevolmente estesa – come intuì Freud in un frammento che Nancy riporta in piena luce –, allora l’esposizione indifesa del corpo è anche la soglia dell’eros, un invito a guardare e a toccare, reciprocamente, a fior di pelle: l’estetica si volge all’erotica, invita al contatto carnale. Paradossale offerta di intimità che richiede il completo abbandono all’esistenza, mediante un’assoluta esteriorizzazione, attrazione del pudore verso l’oscenità (“la nudità oltre la nudità”, secondo Bataille): l’esposizione allo sguardo altrui, al desiderio d’altri, equivale a un’attestazione di esistenza – come aveva già compreso Sartre ne L’essere e il nulla, ripreso poi da Lacan. Il soggetto: quodlibet ens, essere qualunque che trema o freme, effimera traccia di singolarità, ma capace di incontro, di condivisione affettiva, di provare e offrire piacere, di generare amore, palpitante e inquieto slancio rivolto al con-essere, entro la finitezza, fin sulla soglia della morte. Con tutte le reciproche affezioni che queste relazioni comportano, all’interno di quel dominio dell’affectio che Spinoza vedeva generato dalla composizione dei corpi, reciprocamente modificati per effetto del loro incontro. Movimento di danza, stato di grazia, estasi del desiderio.

6Il rapporto tra corpo e anima rappresenta la mise en abyme o l’asse portante di un pensiero che prende congedo dalle metafore metafisiche di interiorità e profondità: nel fondamentale saggio del 1994, che appare come una decisiva nota a margine del De anima aristotelico, insieme alla successiva conferenza veneziana in cui – commentando una lettera di Descartes a Elisabeth – viene articolato il senso e il movimento di una relazione di coappartenenza, Nancy sostiene che l’anima non costituisce l’interno di un corpo ma al contrario l’organo senziente della sua esteriorizzazione, la forma cioè di qualcosa che è sempre au dehors, che si rapporta esclusivamente verso l’esterno, come l’intera esperienza. Qui, cioè altrove, un corpo accede a se stesso, a ciò che gli è più proprio, alla sua estensione esposta, offerta e aperta al di fuori, nella sua determinazione singolare, nella sua ecceità, nella sua inalienabile contingenza, spinozianamente necessaria. Il sentire del corpo, sempre esposto, è tale nel tocco che lambisce la pelle dell’altro, nell’esperienza dell’andar fuori, nel tono di chi si dispone all’avventura senza prevedere il ritorno presso di sé. Sentirsi scosso, affetto o alterato; provare commozione: sentire il corpo nell’extra partes e nel cum dell’existere, percepirlo in una comunione emotiva che non rinvia ad alcuna interiorità senziente ma a un costitutivo Mit-Da-Sein. La comunicazione tra anima e corpo – scrive Nancy – commuove l’estensione ed estende l’emozione, in una simultaneità che determina la totalità del mondo e produce un senso che coincide con l’esistenza stessa qui partage hors de soi.

7Tema centrale e cruciale, l’eredità cartesiana: già nell’opera Ego sum che risale al 1979, Nancy opera la decostruzione del cogito opponendo a un presunto dualismo tra anima e corpo la loro distinzione che li tiene sempre avvinti nel plesso unitario dell’unum quid, formando un’identità che necessariamente si articola nella distinzione tra una sostanza pensante e una estesa, formulando altresì un’ontologia dell’entre, di un soggetto exposto e attraversato da emozioni, toccato da altri soggetti egualmente esposti. Concepire l’ego, il soggetto di enunciazione, conoscenza ed esperienza, come “unito a tutto il corpo” costituisce la risorsa impensata del cogito cartesiano al di là delle letture di Nietzsche, Heidegger e Derrrida: si dischiude un nuovo scenario che rinvia all’apertura/contrazione di una bocca senza volto che dice io, determinando la dimora dell’uomo in quella spaziatura, nell’estensione incommensurabile del pensiero, così come la psiche in quella nota sorprendente e a lungo trascurata di Freud che allude alla sua estensione di cui non si sa (forse ancora) nulla. Così – conclude Nancy nel suo inesausto corpo a corpo con Descartes – «il soggetto sprofonda in questo abisso. Ma ego vi si annuncia: vi si esteriorizza, il che non significa che porti al di fuori la faccia visibile di un’interiorità invisibile» (ES 163; it. 155). Si osserva pertanto l’eclisse della metafora influente dell’interiorità, l’estroversione del soggetto nel mondo dell’estensione plurale dei corpi.

  • 3 Si veda, ancora recentemente, la conferenza: Je t’aime, un peu, beaucoup, passionnément, Montrouge, (...)
  • 4 Un capitolo a parte meriterebbe la presenza di Nietzsche nel pensiero di Nancy che non appare così(...)

8La questione del senso dell’essere, costantemente riformulata da Heidegger nella sua epigonale gigantomachia, si risolve nella sua secolarizzazione ontico-esistentiva esperita dalla molteplicità di coloro che, gettati nel mondo, non si avvalgono dell’ancoraggio confortante di un’essenza o di un fondamento. Non il riferimento a un Senso che sovrasta l’esistenza, o a un infinito che redime tale finitezza, o a una coscienza che signoreggia sul vissuto, ma un non senso che tutti ci accomuna fin dalla nascita e che la morte si incarica di sigillare. La singolarità d’essere è tutto il senso della nostra venuta al mondo, della nostra stupefacente apertura, passibile di incontri e di eventi che talvolta si condensano in configurazioni comunitarie: l’esperienza dell’amore, la sua libertà incondizionata che ci restituisce bagliori, schegge e cicatrici – a cui Nancy guarda con inesausta disponibilità3 – è il tentativo più rilevante e ricorrente, anche se forse illusorio, di condivisione del senso. Eccedenza del senso, infondata e inappropriabile, interna all’immanenza del giacere al mondo: «Ogni grande amore non vuole l’amore – vuole di più», dice lo Zarathustra nietzschiano4.

  • 5 J.-L. NancyLiberté de l’amour, in Essere e libertà, a cura di G. Riconda, Torino, Trauben, 2005, (...)

9La nostra condizione è quella di chi vive in “un mondo senza dèi di cui siamo eredi senza testamento”: di qui, dal ritrarsi di ogni presenza piena, deriva la nostra esposizione all’esistenza, scaturisce il niente che diventa il segno distintivo della nostra libertà, coinvolti in quell’evento singolar-plurale che reclama ma non pretende condivisione, provoca dilezione e reciproca alterazione, tensione e contatto affettivo, produce un assemblaggio d’amore che riunisce soltanto esseri distinti, eterogenei e non sfocia mai nell’unità o nella fusione. Dispiegata nel con-essere, la nostra identità singolare e contingente viene a coincidere con l’alterazione di sé che si manifesta ogni volta nel gesto d’amore, quasi un rinnovarsi della nostra venuta al mondo. Senza pretendere che si dia tra gli amanti nostalgia di incorporazione fusionale, in quanto – nella differenza che permane tra corpi estranei e stranieri – «amore significa unione di due che eludono le trappole dell’uno». Uno assente, sempre irreperibile, insussistente. L’esperienza dell’amore coincide con il movimento stesso dell’alterazione: «L’amore altera la libertà: esso le dà il desiderio dell’elezione e della dilezione dell’esistenza, di quella di un esistente – e sposta il suo niente, lo modifica volgendolo verso l’altro di un’esistenza singolare»5. Esponendosi al mondo e all’altro, quest’esistenza si altera e la voce della sua libertà assume la peculiare “intonazione dell’amore”.

10La questione del senso e dell’esperienza sensoriale ha, ancora una volta, un’imprescindibile origine nietzschiana: dopo la morte di Dio, la critica a tutti i valori ascetici e metafisici, dopo la decostruzione delle nostre certezze, è lecito domandarsi se l’esistenza abbia ancora un senso. Lo stesso Nietzsche aggiungeva che tale angoscioso quesito sarebbe stato compreso nella sua profondità soltanto un paio di secoli più tardi. Esercizio di una comprensione che accoglie il pensiero del noi o del singolare-plurale come suo attributo originario e dispone a «una nuova avventura del senso nell’assenza di senso», a un inaudito conferimento di senso «nel desiderio della nudità dell’essere».

  • 6 J. DerridaLe toucher, Jean-Luc Nancy, Paris, Galilée, 2000, p. 139: trad. it. A. Calzolari, Tocca (...)

11Compreso nella sua profondità, scrive Nietzsche di tale quesito: e se la risposta fosse invece disponibile nella/alla/sulla sua superficie? La provocazione è suggerita proprio da concetti-metafore quali la gaia scienza, la fedeltà alla terra, il mondo delle cose prossime, che convergono nell’elaborazione di quel sapere della superficie che costituisce il programma di ricerca proposto da Nietzsche. Su questa linea, sul percorso di un’eredità mai esplicitata dall’autore (che guarda preferibilmente allospazio lasciato libero da Heidegger), è possibile incontrare il pensiero di Nancy, il quale ha scritto ne Il senso del mondo: «In un certo senso, ma quale senso, il senso è il toccare. L’esser-qui, fianco a fianco, di tutti gliesser-ci». Secondo Derrida, Nancy è il più grande filosofo del toccare dai tempi di Aristotele nonché il culmine della interminabile storia dell’aptica, sviluppata in particolare dalla fenomenologia novecentesca, in cui l’esteriorità impura del toccare viene a contaminare la purezza dell’intuizione, la dimensione tattile che presiede alla costituzione della sfera eidetica, senza mai giungere a esautorare il primato del soggetto, a precludere la sua strategia di riappropriazione: «Da Platone a Bergson, da Berkeley a Maine de Biran a Husserl e al di là, non cessa di esercitarsi una stessa costrizione formale: c’è certamente l’egemonia ben nota di una eidetica, come figura o aspetto, dunque come forma visibile esposta allo sguardo incorporeo, ma questa supremazia stessa ubbidisce all’occhio solo nella misura in cui un intuizionismo aptico viene a completarla, a riempirla, ad appagare il movimento intenzionale di un desiderio, come desiderio di presenza»6.

12Buona parte della filosofia contemporanea sembra aver appreso la lezione congiunta di Spinoza e Nietzsche, identificando nel corpo l’unico ed esclusivo piano di immanenza: ma si può ancora parlare di un corpo indifferenziato, privo di attributi biopatici, quasi fossimo ignari della distinzione husserliana tra Körper e Leib e delle successive elaborazioni in termini di corpo vissuto e di carne? Di quale corpo parlava Nietzsche nella sua originaria decostruzione della metafisica? Di quale corpo parla ora Nancy? Un corpo nudo e potenzialmente gaudente/dolente, cioè un corpo infinitamente esposto senza difese all’oltraggio del mondo, al piacere come alla sofferenza, in termini spinoziani alla laetitia come alla tristitia.

  • 7 SpinozaEthica, III, propositio II, scholium; trad. it. Etica, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, (...)

13Abbiamo assistito, nel corso dei secoli, a un immane e sconsiderato sacrificio del corpo, perpetrato dalla tradizione giudaico-cristiana fino al cogito cartesiano (ma è proprio Nancy a decostruire tale dualismo), dall’idealismo trascendentale fino a buona parte delle più accreditate filosofie novecentesche: l’unica significativa eccezione (come rileverà lo stesso Nietzsche) è costituita da Spinoza, il quale – nella sua rigorosa opposizione a ogni forma di dualismo – invitava a esplorare il potere del corpo, ad analizzare le sue sorprendenti facoltà: «Ma diranno – scrive nel III Libro dell’Etica – che dalle sole leggi della natura, in quanto è considerata solo come corporea, non si possono dedurre le cause degli edifici, delle pitture, e di altre cose simili che sono fatte solo dall’arte umana, e che il Corpo umano, se non fosse determinato e guidato dalla Mente, non sarebbe capace di edificare un tempio. Ma io ho già mostrato che essi non sanno quali siano le possibilità del Corpo, né che cosa si possa dedurre dalla sola considerazione della sua natura, e che essi stessi sperimentano che, per le sole leggi della natura, accadono moltissime cose che non avrebbero mai creduto che possano accadere se non con la guida della Mente»7.

14La metafisica occidentale ha edificato la propria base fondazionale sul modello della profondità e dell’interiorità, a cui ha attribuito il carattere dell’autenticità, svalutando per converso ogni configurazione di superficie, screditando il dominio fenomenico e contingente della prossimità: ora il corpo, per definizione, è un’entità priva di attributi profondi e interiori; è pura esteriorità, nuda e vulnerabile esposizione dell’esistenza, effimera presenza sensibile inappropriabile dall’Io o dal Sé, apertura originaria e indifesa sul mondo, stupore e sgomento dello sguardo, ospitalità dell’assolutamente altro, depotenziamento e rinuncia di Ego a favore di Alter, possibilità dell’amore, locazione del desiderio e dell’abbandono, singolarità che tende alla condivisione, idioma dell’affetto.

  • 8 F. NietzscheGötzen-Dämmerung, in KGW, VI, III, p. 69; trad. it. Il crepuscolo degli idoli, a cura (...)
  • 9 F. NietzscheAlso sprach Zarathustra, in KGW, VI, I, edizione, pp. 34-36; trad. it. Così parlò Zar (...)

15Nietzsche è stato il primo a comprendere che l’intera storia della filosofia si configura come una scuola della denigrazione contro i presupposti della vita perpetrata soprattutto attraverso il sistematico disprezzo del corpo, della sua forza creativa, della sua mirabile facoltà di metamorfosi, ridotto dai metafisici ascetici a una «miserabile idée fixe dei sensi, affetto da tutti i possibili errori della logica»8. Il progetto nietzschiano di radicale oltrepassamento dell’orizzonte di pensiero metafisico comporta un ribaltamento della svalutazione platonico-cristiana del corpo: «Ai dispregiatori del corpo – scrive Nietzsche in un celebre passo dello Zarathustra – voglio dire una parola. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’. […] Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. […] Tramontare vuole il vostro Sé, e perciò siete diventati dispregiatori del corpo! Infatti non siete più capaci di creare al di sopra di voi stessi. E per questo ora vi incollerite contro la vita e la terra. Un’invidia inconsapevole è nello sguardo bieco del vostro disprezzo. Io non vado sulla vostra strada, dispregiatori del corpo! Voi non siete per me ponti verso il superuomo!»9.

16Nella consapevolezza che in tutti i giudizi di valore finora formulati si annida un fraintendimento del corpo, una mistificazione della fisiologia nella forma dell’autorispecchiamento dello spirito, la filosofia sperimentale di Nietzsche si sviluppa assumendo esplicitamente il filo conduttore del corpo, considerato il fenomeno più ricco, attraente quanto misterioso, espressione di molteplicità e complessità in cui risiede quella grande ragione ancora inesplorata di cui parla Zarathustra, rispetto alla quale la logica dell’intelletto appare come una piccola ragione che scaturisce dalla volontà di semplificare la pluralità dell’esperienza per salvaguardare la perspicuità unitaria della nostra coscienza.

  • 10 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, in KGW, V, II, p. 18; trad. it. La Gaia scienza, a cura d (...)

17Ma di quale corpo parla Nietzsche, a quale forza allude? Come si qualifica questo progetto di platonismo rovesciato, di sovversione del bimillenario paradigma metafisico? Se ci soffermiamo in particolare sulla prefazione alla seconda edizione della Gaia Scienza, troviamo che, accanto alla grande ragione costituita dal corpo, Nietzsche pone l’esperienza del grande doloreche libera lo spirito dalle catene morali e metafisiche, generando il «grande sospetto che fa di ogni U una X, una vera e propria X… Il grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che vuole tempo, in cui, per così dire, veniamo bruciati come con legna verde, costringe noi filosofi a discendere nelle nostre ultime profondità e a sbarazzarci d’ogni fiducia»10.

18La malattia diventa così per Nietzsche la condizione trascendentale (o meglio, il presupposto empirico-trascendentale di carattere patico) di ogni pensiero genealogico-decostruttivo, perché disgrega la compattezza monolitica dell’io, la sua rigida travatura concettuale, rivelando una pluralità di passioni e affezioni capaci di scardinare la totalità unitaria del soggetto. Il rapporto tra salute e malattia è centrale nell’economia del pensiero nietzschiano: egli diffida della malattia come espressione di vita declinante e assume il punto di vista di una salute di rango più elevato del mero sopravvivere, che ha sottomesso la malattia al proprio servizio, ne ha utilizzato l’energia decostruttiva per configurare nuove possibilità estetiche, cognitive e pragmatiche di vita, processo che dà luogo a quella che Nietzsche non esita a definire grande salute. L’esercizio della filosofia sembra collocarsi nella transizione fra il grande dolore e la grande salute, nel momento cioè della convalescenza, quando ci si affranca dalla tirannide del dolore e si prova l’ebbrezza di «nuove avventure, nuovi mari aperti, mete ancora concesse, ancora credute». Come presto si vedrà, il profilo del pensiero di Nancy – successivo all’esperienza e alla stesura de L’intruso – si staglia in questo stato valetudinario che procede dalla convalescenza.

  • 11 Per una considerazione più dettagliata relativa al rapporto tra salute e malattia, rimando al mio s (...)

19La ricorrente esperienza della malattia genera dunque, attraverso transitori e instabili stati di salute, altrettante filosofie, intese come configurazioni sperimentali del pensiero, e l’intera filosofia appare come convalescenza, cognizione biopatica, un’arte della trasfigurazione del dolore11. Potremmo concludere – con riferimento sia alla lezione nietzschiana sia agli sviluppi nancyani – che la ragione del corpo è tanto più grande quanto più sa comprendere ed elaborare il grande dolore, nella misura cioè in cui si manifesta come ragione tragica, capace di sopportare la lacerante contraddizione costituita dalla sofferenza senza tentarne consolatorie conciliazioni.

20Il rapporto ideato da Nietzsche tra grande ragione del corpo, grande doloredella malattia e grande salute della convalescenza rimane ancor oggi impensato, anche perché le filosofie novecentesche hanno per lo più disatteso a questo compito o, quando hanno analizzato il problema del corpo come nel caso della fenomenologia, lo hanno subordinato allo studio della percezione. Lo stesso Heidegger dichiara la propria incompetenza a trattare il tema del corpo, in Essere e tempo gli dedica non più di sei righe ed è davvero stupefacente rilevare come, all’interno del più ambizioso progetto di concepire un’analitica esistenziale, un’ermeneutica della fatticità, l’esperienza del corpo venga del tutto ignorata: come è possibile formulare nozioni come quella di gettatezza nel mondo (Geworfenheit) o, ancor più, introdurre l’esistenziale della situazione emotiva, la tonalità affettiva presupposta da ogni comprensione (Befindlichkeit) senza alludere minimamente alla dimensione corporea di questa passività esistenziale? Gli stessi grandi fenomenologi, da Husserl a Merleau-Ponty, che hanno analizzato la funzione corporea del toccare e della pelle, hanno mancato di radicalità teoretica per cui – scrive il filosofo francese – «tutto fa sempre ritorno all’interiorità».

21Un carattere del tutto singolare della figura di Nancy è costituito proprio dalla sua ostensione come corpo malato, l’aver cioè condotto radicalmente il proprio pensiero della finitezza fin dentro a una personale esperienza della malattia, a una riflessione su quel “disordine nell’intimità” provocato dall’insediarsi in noi della malattia, non quella metafisica ma quella concreta e inaggirabile che ci assedia con il suo linguaggio dei sintomi, come un inquilino troppo socievole (secondo l’immagine di Proust). Nancy sostiene che la nudità esposta non è tanto quella suggerita dai modelli estetici in voga ma quella che si rivela nella sofferenza, nella malattia, nella ferita, in cui ci si perde irrimediabilmente nella pura esteriorità dei corpi, nella loro inquietudine.

22La presenza dell’intruso (cuore trapiantato o cancro) tocca la natura stessa dell’esistenza, il costitutivo stato di passività del soggetto, il luogo dell’affettività come origine di ogni processo di desoggettivazione, come malattia riluttante al sapere filosofico. La decisione d’esistenza potrebbe annunciarsi così: ego patior, ego existo; l’affetto come patologiadell’esistenza, anima affettiva che trema, vibra e palpita. Pensiero tragico della finitezza ma, al contempo, sapere dell’esteriorità, un pensiero dell’estensione e dell’estraneità, dell’escrizione, un’ontologia del sensibile rivolta a “questo impalpabile reticolato di contiguità, di contatti tangenziali” che è il mondo: come per l’Eupalinos di Valéry, si tratta di cogliere “l’anima dell’estensione”.

23Ciò che resta dell’identità è ormai preda della condizione di affezione: “io sono perché sono malato”, ma quale “me stesso” prosegue la traiettoria della vita orientata verso la morte? Vivendo in un regime permanente di intrusioni, ora il cogito (se ancora conserva una ragion d’essere) risiede nella cognizione del dolore, ma si tratta già di un pensiero totalmente innervato nel corpo, nelle spine della carne sofferente (come in una tela di Grünewald). Ancora Valéry (già da noi richiamato per la profondità della pelle e l’anima dell’estensione) suggeriva di sostituire al cogito, ergo sumun più realistico: soffro, dunque sono. La malattia è l’esperienza che induce a prender dimora in quello che Rilke chiamava il doppio regno della coappartenenza di vita e morte: «Così – scrive Nancy – lo straniero molteplice che fa intrusione nella mia vita (la mia fragile vita che talvolta scivola nel malessere al limite di un abbandono soltanto stupito) non è altro che la morte, o piuttosto la vita/ la morte: una sospensione del continuum dell’essere, una scansione con cui ‘io’ non ha/ non ho gran che da fare» (I 25; it. 22). E ammonisce: «Isolare la morte dalla vita […] ecco ciò che non bisogna mai fare» (I 23; it. 20). Il paradosso del cum è che nella morte condividiamo un’estraneità incondivisibile, un’alterità incommensurabile e irriducibile.

24Il dolore è la temporanea interruzione del senso, che preannuncia la sospensione definitiva. Evenienza paradossale perché, al cospetto del dolore, si afferma ancor più intensamente l’esigenza del conferimento di senso (è il caso dell’arte) nell’istante in cui esso sembra ritrarsi per lasciar posto a un grido, un lamento o alla mera contrazione di un volto. Proprio perché libera e non salvaguardata da alcun fondamento, “ogni vita è sofferenza”, in attesa (en souffrance) di essere tumulata, ne subisce la pena ma gode al contempo della libertà che da essa scaturisce e che ci induce ad aprire un mondo nella partizione di aperture condivise. La presenza dell’intruso non è dunque un mero accidente dell’esperienza personale del filosofo alle prese con precarie condizioni di salute ma riveste un significato singolare-plurale, tocca dunque il tratto saliente dell’esistenza, la verità di ogni soggetto, il suo costitutivo stato di passività, di alterazione e di esposizione (al caso, alle occasioni, all’approccio, agli incontri oltre che alla malattia) che rende priva di significato anche l’identità ne varietur del soggetto.

NOTE

1 J.-L. NancyHegel. L’inquietude du negatif, Paris, Hachette, 1997; trad. it. A. Moscati, Hegel. L’inquietudine del negativo, Napoli, Cronopio, 1998, p. 54.

2 F. Ferrari - J.L. Nancy, Nous sommes: la peau des images, Bruxelles, Gevaert, 2002; trad. it. La pelle delle immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 31.

3 Si veda, ancora recentemente, la conferenza: Je t’aime, un peu, beaucoup, passionnément, Montrouge, Bayard, 2008.

4 Un capitolo a parte meriterebbe la presenza di Nietzsche nel pensiero di Nancy che non appare così centrale come quella di Descartes, Kant e soprattutto Heidegger anche se, a mio avviso, risulta onnipervasiva, se non decisiva. Nel numero 7 (2002) della rivista “Lignes”, collettaneo monografico sul pensatore tedesco, Nancy ammette che Nietzsche non gli dice nulla senza comunicargli anche un’esperienza, quella della morte di Dio in particolare, decretata la quale viene dissolta ogni lacerazione tra essere e apparire, ogni dualismo tra sensibile e intelligibile, eleggendo il corpo a filo conduttore della filosofia, così come l’esposizione all’esistenza interviene a sostituire ogni ricorso al principio di rappresentazione. Dunque, una Umwertung radicale in vista della formulazione di un pensiero finito, così come la decostruzione del cristianesimo, come esito nichilistico della metafisica e nuova apertura del mondo, costituisce un programma di ricerca che l’ultimo Nancy ha sviluppato, a partire da La dischiusura. Un’intonazione fortemente nietzschiana si avverte anche ne L’imperativo categorico che risale al 1983.

5 J.-L. NancyLiberté de l’amour, in Essere e libertà, a cura di G. Riconda, Torino, Trauben, 2005, p. 174; trad. it. B. Lamanna, in Lo sguardo di Eros, a cura di M. Vozza, Milano, Mimesis, 2003, p. 17.

6 J. DerridaLe toucher, Jean-Luc Nancy, Paris, Galilée, 2000, p. 139: trad. it. A. Calzolari, Toccare. Jean-Luc Nancy, Genova, Marietti, 2007, p. 156.

7 SpinozaEthica, III, propositio II, scholium; trad. it. Etica, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Milano, Tea, 1991, p. 193.

8 F. NietzscheGötzen-Dämmerung, in KGW, VI, III, p. 69; trad. it. Il crepuscolo degli idoli, a cura di G. Colli e M. Montinari, in Opere Complete, VI, III, p. 69.

9 F. NietzscheAlso sprach Zarathustra, in KGW, VI, I, edizione, pp. 34-36; trad. it. Così parlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari, in Opere Complete, VI, I, pp. 35-37.

10 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, in KGW, V, II, p. 18; trad. it. La Gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, in Opere Complete, V, II, p. 17.

11 Per una considerazione più dettagliata relativa al rapporto tra salute e malattia, rimando al mio studio: M. VozzaNietzsche e il mondo degli affetti, Torino, Ananke, 2006.

 

Da: http://books.openedition.org/res/673?lang=it

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