Igor Pelgreffi, Il corpo-teatro tra Nancy e Derrida

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Igor Pelgreffi, Il corpo-teatro tra Nancy e Derrida


 

Nel mio intervento tenterò di comparare le posizioni di Jean-Luc Nancy e Jacques Derrida sul tema della relazione fra il corpo e il teatro, intendendo quest’ultimo, in un senso molto generale, come spazio della rappresentazione del corpo (teatrale o cinematografica). Procederò da alcuni passi dei testi Corps théâtre1, di Nancy, e Tourner les mots. Au bord d’un film2 ed Échographies de la télévision3, di Derrida.

 

21. Corpo teatro è un breve scritto, pubblicato solo in italiano, che Nancy legge anche dal vivo, come il 24 giugno 2010 al Teatro Mercadante di Napoli. Non trascuriamo questa dimensione di performance dell’attore-autore Nancy, che si sovrascrive a quella più strettamente testuale.

3Nancy mette subito in chiaro quale sia il rapporto fra corpo e teatro, fra presenza e scena. Nella recitazione – sostiene – come pure nell’esistenza, e anche nella nostra vita singolare o comune «noi ci ritroviamo […] nell’ordine del corpo e del teatro. Il corpo è ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi di un corpo» (CT 18). Se vi è, dunque, una separazione fra corpo e teatro – ciò è, precisamente, «quanto accade ogni volta che vengo al mondo» (CT 18) – vi è anche rapporto. Ora, seguendo Nancy, il rapporto-interruzione fra corpo e teatro rinvia a quello fra presenza e scena, e si prolunga, mi pare, su un altro livello filosofico, cioè a dire nel partage fra chi si presenta e la rappresentazione. Ma, più che al corpo o al teatro, si deve pensare al margine irrappresentabile che li divide, cioè all’interruzione fra attività del corpo (actoractusagere hanno il medesimo etimo) e passività che riceve la presenza.

4Il nostro corpo è immerso nel mondo, ed «essere nel mondo non è uno spettacolo. Tutt’altro. È essere dentro, non di fronte» (CT 10). Tuttavia il corpo partecipa dell’esistere, e «l’esistenza vuole mettersi in scena» (CT 11). La scrittura di Nancy è attraversata da una forte tensione fra il concetto di dentro, di intreccio, di in-essere, da un lato, e il concetto di esistenza, di esposizione, dall’altro. Tale tensione ossimorica può essere denotata come tensione morfo-logica del corpo-teatro. Essa agisce tanto nel concetto quanto nella scrittura del concetto, come ciò che dà forma (morfhv, morphé) all’oggetto “corpo-teatro” e, insieme, al discorso (lovgo", lógos) sull’oggetto. Da una parte di questa tensione produttiva si addensa provvisoriamente il corpo, in quanto esso è «ciò che viene, si avvicina su una scena»; dall’altra si apre la scena, in quanto ciò che «dà luogo all’avvicinarsi di un corpo» (CT 18; it. 32).

5Che cos’è la scena? La condizione di possibilità del corpo. Che cos’è un corpo? Nancy dice: «un corpo è un’intensità» (CT 18; it. 32). La scena va, quindi, pensata come luogo «da cui si genera e si prende il tempo di una presentazione (di corpi)» (CT 25) e in cui accade il fondamentale movimento di ex-posizione e dis-posizione (cfr. CT 21-22) di ogni corpo. La scena è lo spazio-tempo trascendentale del corpo, in cui «il vuoto assume la consistenza di un punto di raccolta del senso» (CT 25). Quanto al corpo, esso «è già presentazione» (CT 33). Nancy precisa, infatti, che «non c’è una presenza neutra che possa essere intensificata qua e là. La presenza vuole l’intensità» (CT 32), e il corpo, come visto, è un’intensità.

6L’intreccio fra corpo e teatro è inaggirabile: se un corpo esiste, ciò accade sempre teatralmente. Questo complica le cose, poiché se nella caratterizzazione del corpo vi è una tensione all’ex-porsi e al venire al mondo, vi è anche, in quel venire che è un accadere, l’avanzare del corpo. Nancy non asserisce mai che un corpo è, ma soltanto che avanza sulla scena. A ciò corrisponde una riconfigurazione nella morfo-logia classica dell’ontologia del corpo, perché anche l’essere si offre come tensione: «l’esistenza stessa è l’essere […] non trattenuto in sé» e «che si dà a sentire non in una semplice percezione, ma come densità e come tensione» (CT 33). La conclusione cui perviene Nancy, è che «la rappresentazione nel senso teatrale del termine e nel senso – più antico dal punto di vista storico – della messa in presenza è il gioco intensivo della presenza. Il mio corpo è subito teatro perché la sua stessa presenza è duplice» (CT 32).

7Questi passaggi rivelano la complessità, e insieme la difficoltà, della posizione di Nancy sul corpo. In effetti, la semantica del corpo è quella dell’intensità, come pure del desiderio e della pulsione (CT 12). Qui il corpo è la presenza a-logica, puramente sensibile, che, in una certa misura, rinvia alla dimensione pretetica. Ma, al contempo, il corpo è già raddoppiamento e separazione da sé, e questo in virtù di un suo rapporto con il teatro che appare strutturale e non-mediato: «il mio corpo è subito teatro» (CT 32, corsivo mio). Corpo e teatro sono pensati a partire dalla loro relazione di separazione, come in una paradossale fenomenologia dell’interruzione (in cui la presenza è intenzionata a partire dallo spazio vuoto della scena). Ma l’interruzione si riproduce continuamente, e si trasmette anche “dentro” il corpo. La presenza del corpo, infatti, non è altro che il raddoppiamento. Prova ne è il fatto che Nancy distingue fra un corpo che è «fuori o davanti», un «lui», e un «io dentro o dietro (in effetti da nessuna parte)» (CT 32). Pertanto «ogni presenza si sdoppia per presentarsi, e il teatro è tanto antico e quasi altrettanto diffuso quanto il corpo parlante» (CT 32).

8L’interruzione appare come ciò che rende possibile, e insieme impossibile, il corpo e la rappresentazione. Tuttavia l’interruzione non è soltanto la forma logica (e morfo-logica) di un discorso filosofico sulla diade corpo-teatro: nel dire che «il mio corpo è subito teatro» (CT 32), Nancy dice anche che è “il mio” corpo, e non (o non solo) un corpo generico, a darsi subitonel raddoppiamento, cioè a essere corpo-teatro. Qui Nancy lascia trasparire una tensione esistenziale, che riguarda ciascuno di noi, nel perdersi e ritrovarsi a partire dall’interruzione, e che pervade totalmente queste pagine, come una “personale” sovrascrittura nella scrittura. Si potrebbe tentare, a questo punto, di permanere entro questa logica del teatro, piena di specchi e di messe in scena, e di svilupparla sino al suo punto limite, cioè quello in cui un attore coincide con il filosofo che parla dell’attore. Qui entra in scena Derrida.

  • 4 Cfr. J. DerridaPresenti a se stessi?, cit.
  • 5 Ibidem.

9Anche Derrida, come noto, ha un suo pensiero sulla performance, sulla presenza, sulla représentation nel teatro. Ma, in merito allo sdoppiamento della presenza dell’attore e nell’attore, esprime una sua posizione molto specifica che deriva dalla sua esperienza di attore in diversi film e documentari, in cui ha interpretato il ruolo di se stesso. In alcune pagine del libro Tourner les mots4, Derrida ha riflettuto sul gioco di specchi connaturato a quest’esperienza. Nella rappresentazione filmata convergono l’io, il mio ruolo, la mia rappresentazione. A questo Derrida sovrappone un doppio scarto, che consiste nel suo rivedere se stesso nella registrazione, e nel ricordo del fatto che, durante il film, si è sempre sentito étranger al film, cioè contemporaneamente nel film e altrove. Sul piano filosofico ne deriva una moltiplicazione dell’indecidibile, che scompagina la presenza a sé tanto dell’attore, quanto del filosofo che riflette, e si riflette. L’attore mi tradisce, dice Derrida, poiché anche se sono io, non può che mancarmi. Si tratta di un divorzio intra-soggettivo, «divorzio fra l’Attore e me, fra i personaggi che interpreto e me, fra i miei ruoli e me, fra le mie ‘parti’ e me»5.

  • 6 Ibidem.

10Sdoppiamento e interruzione sono qui assunte, elaborate, in qualche modo autoanalizzate. Ma dove accade quest’autoanalisi? C’è un autos di questa soggettività vivente che si ri-vede? No. In Derrida, prima di tutto si dà questa esperienza straniante, che, tuttavia, è anche una fenomenologia dell’autovisione, indecidibilmente interna ed esterna al soggetto visto/vedente, cioè passivo/attivo. L’interruzione, infatti, agisce ed è rappresentata, è lei stessa sulla scena: «il divorzio fra l’Attore e me, è davvero possibile che abbia fedelmente rappresentato, in verità, sino a un certo punto, e riprodotto il divorzio fra me e me, fra più di un me, fra me e i miei ruoli ‘nell’esistenza’, ‘altrove’ rispetto al film»6.

  • 7 Ibidem.

11Va precisato come Derrida parli di un divorzio, e dunque di un’interruzione, che «ha avuto inizio in ‘me’ ben prima del film. E si è moltiplicato, ha proliferato durante tutta la ‘mia-vita’»7.

12Anche qui, analogamente a quanto visto in Nancy, si ha una fenomenologia dell’interruzione-divorzio. Solo che lo statuto dell’oggetto “me”, eventualmente del “mio corpo”, qui resta sospeso, nell’ἐποχή (epoché) del virgolettato che apre a un’epoché filosofica: non saprò mai se il divorzio è di origine tecnica (lo specchio incorporato), oppure esistenziale (l’io esiste solo a partire dai suoi divorzi “interiori”), oppure ancora se sia solamente un effetto di quella generale struttura di separazione e registrazione che, per Derrida, è l’esperienza, compresa l’esperienza di me stesso.

 

132. Dunque per Derrida il corpo, compreso il “mio corpo”, è pensabile solo a partire dal raddoppiamento e dalla teatralità, entro gli spazi e i tempi di una messa in scena. In una formula: il corpo è già e solo corpo-teatro. Su questo punto, che è filosoficamente decisivo, l’analogia con la centralità del corpo-teatro vista in Nancy è solo parziale, mancando in Derrida il riferimento alla qualità intensiva e prelogica che Nancy, in diversi passaggi, assegna al corpo e alla sua presenza.

14Tuttavia Derrida, in alcune nuances di questi testi, sembra concedere qualche apertura a temi che, solitamente, restano esclusi nella prospettiva decostruttiva. Derrida, per esempio, si chiede se non sia possibile che proprio il film possa avere un rapporto con la verità, sebbene intesa in senso prospettivistico. Il film, in qualche modo, mi costruisce. Tramite la sua tecnica, il montaggio, l’apparato a-logico di musiche o immagini, cioè il suo carattere complessivo di dispositivo corpo-teatrale, forse mostra la “mia” verità. E come può mostrarla? Filmando. Il film filma, cioè gira e mostra i “miei” divorzi, esibendo il morfo-logico del “mio” corpo-teatro, cioè l’interruzione. Pertanto Derrida ammetterebbe una forma di verità, da cogliere nel “fra” dei divorzi, o, quantomeno, uno spazio virtuale per la verità, per un vedermi e un riconoscermi nella registrazione. Quindi il dispositivo visivo (naturalmente solo quello autoriflessivo, in cui io recito me stesso) proietta e oggettiva il movimento dei “miei” divorzi. È una verità che mi ri-guarda, e che permarrebbe invisibile allo sguardo interiore.

  • 8 Cfr. J. Derrida e B. StieglerEcografie della televisione, cit.
  • 9 Ivi, pp. 105-106.

15Del resto, dice Derrida in Échographies de la télévision8, tutti noi, in fondo, viviamo in un campo di grande artificialità, un po’ come su una scena teatrale o televisiva, entro una dimensione esistenziale in cui la tecnica di registrazione ci sposta da noi, e, a fortiori, dal nostro corpo. In questo senso, si può dire che il corpo è già corpo-teatro: corpo rinviato, registrato, impossibile da toccare. Tuttavia Derrida dice anche che, proprio dove il mio corpo va in scena, come quando io tengo una lezione, quando recito la mia parte – qualsiasi essa sia – davanti a una telecamera o nella vita, ecco che, invece, «ciò che accade, e che non è accidentale, è una vera trasformazione del corpo. […] Non è lo stesso corpo che si sposta e reagisce davanti a tutti questi apparecchi. A poco a poco un altro corpo s’inventa, si modifica, avanza verso la sua sottile mutazione»9.

  • 10 Ivi, p. 106.

16In queste pagine, in cui compare anche l’importante espressione «corpo proprio»10, prudentemente Derrida accorda una quota di autonomia al corpo, slegandolo dalla diade corpo-teatro. Il “mio” corpo reagisce e muta, a causa della pressione della situazione esistenziale-artificiale in cui mi trovo, sebbene ciò accada in modo sottile e impercettibile, cioè in un modo che mi sorprende.

 

173. Dunque fra le maglie della scrittura di questi testi sul teatro e nel teatro, sulla performance e nella performance, resta una traccia dell’elemento corporeo. Si tratta di un corpo non semplicemente presente, bensì di un corpo che muta, che resiste, che agisce sulla scena – con me e senza me – e di cui il film può mostrarmi una verità registrata. Ma ciò accade come se il corpo del filosofo Derrida, un’istanza solitamente spettrale nella sua filosofia, ritornasse – alla stregua di un revenant – ad assillare il paradigma decostruttivo. Il corpo del filosofo è il residuo enigmatico da cui il filosofo non riesce del tutto a separarsi, che pertanto lo sorprende, almeno in parte, e sorprende il gesto della decostruzione stessa.

18Questo accade perché il corpo del filosofo è qualche cosa che riguarda il filosofo e che, al contempo, il filosofo ri-guarda. Non è questione di dire cosa si perda o cosa si guadagni dall’integrazione, nell’atto del vedere se stessi, tanto dell’incorporazione dello specchio e quanto della registrazione, ma di concedere che, tramite quest’integrazione, qualcosa si possa alterare nei paradigmi filosofici – e nella morfologia – dell’autoriflessione.

  • 11 Le corps du philosophe, film di Marc Grün, Le Meilleur des mondes productions, France 3 Alsace, TV (...)

19Forse in questo senso, rivolgendomi idealmente agli specialisti del pensiero di Nancy, anche una lettura dell’esperienza di Nancy come attore di se stesso – penso, per esempio, al documentario-film Le corps du philosophe11 – potrebbe portare qualche contributo alla questione della sua interrogazione sul corpo e sulla presenza.

NOTE

1 Il testo Corps théâtre è inedito in francese. Esiste, invece, la sua versione italiana, contenuta in CT da cui saranno tratte le citazioni.

2 J. Derrida e S. FathyTourner les mots. Au bord d’un film, Paris, Galilée-Arte Éditions, 2000. Un estratto è apparso in traduzione italiana, da cui saranno tratte le citazioni, sulla rivista telematica “Kainos”; cfr. J. DerridaPresenti a se stessi?, trad. it. di I. Pelgreffi, “Kainos” 10 (2011), http://www.kainos-portale.com/index.php?option=com_content&view=article&id=152:presenti-a-se-stessi&catid=37:disvelamenti10&Itemid=86.

3 J. Derrida e B. StieglerÉchographies de la télévision, Paris, Galilée-INA, 1996; trad. it. L. Chiesa, Ecografie della televisione, Milano, Cortina, 1997, da cui saranno tratte le citazioni.

4 Cfr. J. DerridaPresenti a se stessi?, cit.

5 Ibidem.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Cfr. J. Derrida e B. StieglerEcografie della televisione, cit.

9 Ivi, pp. 105-106.

10 Ivi, p. 106.

11 Le corps du philosophe, film di Marc Grün, Le Meilleur des mondes productions, France 3 Alsace, TV 10 Angers, 2003.

 

Da: http://books.openedition.org/res/675

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