Giuliano Campo, Grotowski e lo spettatore

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Giuliano Campo, Grotowski e lo spettatore

 

ABSTRACT

This essay stems from a long-term theoretical and practical exploration that the author has been making on the principles of Grotowski's work over the past fifteen years, and focusses on the issue of reception. Among relevant matters connected with wider implications of the concept of reception, this study analyses in particular the research on space and relationship with the spectators that Grotowski and his company the Laboratoy Theatre (which included the architect Jerzy Gurawsky) undertook and developed throughout the different phases of their work in the different productions (1959-1969) seeking for the re-enactment of “Ritual Theatre”, until the radical change that came with the conception of Active Culture and the practice of the Paratheatre (1970-1978), where spectators were replaced by participants.

The essay then summerises the developments and the achievements of the next phases of Grotowski's work, the Theatre of Sources (1979-1982), and the Art as Vehicle (1986-1999), where his focus and experimentations moved from “horizontal” to “vertical” reception.

PRIMA PARTE

Jerzy Grotowski è stato spesso accusato di avere sviluppato nel tempo, e poi mantenuto fino alla fine, un atteggiamento elitario e chiuso, di essersi circondato solo di un gruppo ristretto di adepti e di essere stato pertanto autoreferenziale nelle sue ricerche, separato dal mondo che lo circondava. Questa accusa è falsa, si basa sulla incomprensione del percorso artistico e esistenziale del maestro polacco, che ha invece costantemente aderito al principio di efficacia delle proprie azioni, e si scontra con l'evidenza dei fatti, delle testimonianze e della gran quantità di documenti che ci sono rimasti.

Peter Brook ci ricorda che Grotowski era uno scienziato dello spirito, che portando avanti la strada aperta da Stanislavskij intendeva scoprire le leggi di funzionamento dell'organismo e delle sue energie, e per farlo voleva verificare cosa accade quando si entra a contatto con le energie primarie dell'esistenza, con le fonti stesse dell'essere umano. Per farlo fu capace di mettere su una forza spirituale, nella forma del laboratorio, proprio al centro del mondo cosiddetto comunista, ostile a questo tipo di ricerca. Realizzò, con i suoi compagni del Teatr Laboratorium, quella vita spirituale che si può raggiungere solo attraverso il lavoro, e, come spiega Eugenio Barba, utilizzò il teatro come una sorta di yoga. Lo stesso fratello di Grotowski, che era uno scienziato, spiega che per lui il teatro era un oggetto di esperimenti per conoscere l'uomo e la vita, un luogo dove in breve tempo (1) era possibile cominciare a esplorare e conoscere gli archetipi, i miti, e che lo trattava come l'entomologo tratta una farfalla o lo zoologo una scimmia.

Sappiamo che la questione della ricezione esterna del suo lavoro è stata da sempre una sorta di ossessione per Grotowski. È noto a tutti i suoi collaboratori, traduttori e editori come egli curasse e riguardasse con estrema attenzione i suoi testi destinati alla pubblicazione, e li correggesse, e ne impedisse la diffusione di versioni alternative non totalmente approvate da lui, parola per parola. Questo avveniva in tutte le lingue e in qualsiasi tipo di pubblicazione che lo riguardasse, non soltanto cartacea (2). Ecco che la scelta stessa dei luoghi, delle lingue e dei tipi di pubblicazione dei suoi materiali era il risultato di precise strategie di comunicazione di Grotowski, e niente era lasciato al caso o affidato ad altri, ma gestito in maniera diretta al fine di ottenere il risultato migliore e il più preciso, dato il contesto specifico.

Questo fatto ci fornisce lo spunto per una prima considerazione sul termine, di per sè generico, di “ricezione”. Nell'accezione della considerazione che un certo autore riceve in una determinata area geografica e culturale, possiamo ben dire che Grotowski sia stato molto efficace, nei limiti del possibile, data la complessità e radicalità delle sue scelte, nel creare un impatto forte e duraturo in una gran quantità di paesi del mondo, che a tutt'oggi pare aumentare invece che decrescere, come ci si aspetterebbe, a oltre quattordici anni dalla sua morte (3).

Voglio però qui ora riflettere su un altro livello della ricezione, che è quella che Grotowski chiamava “orizzontale”, e cioe' il livello del rapporto tra due esseri umani, e quindi tra performance e spettatore. Anche qui, al contrario di una vulgata paradossale, che vuole un Grotowski che immerso nei suoi assilli mistici ignora lo spettatore, vediamo come invece la relazione tra attore e spettatore sia, tra le varie relazioni che si possono analizzare nell'ambito del fenomeno teatrale, quella più studiata dal maestro polacco, e di come essa sia il perno di tutta la sua opera e la sua riflessione sull'arte e sul teatro, e di come proprio l'attenzione su di essa l'abbia portato infine fuori dal teatro stesso.

Ancora Brook ci ricorda come Grotowski ritenesse la presenza degli spettatori un pericolo e un compromesso necessario, e che per questo cominciò via via a ridurne il numero, da quaranta a trenta, e infine a uno solo. Comunque, sempre, intendendo lo spettatore al singolare, rivolgendosi sempre ad un particolare individuo e mai a un generico pubblico o “audience”, termine che non era mai usato dalla compagnia. Ludwik Flaszen, il primo fondatore della compagnia e collaboratore storico di Grotowski, spiega com'egli cercasse l'impossibile: la sua riforma del teatro doveva stravolgerne tutti gli elementi, a cominciare dalla recitazione e dall'insegnamento, un insegnamento che non insegna, di tipo socratico, del tipo che è impossibile trovare nelle scuole d'arte drammatica. Era un regista che non dirigeva, voleva un teatro che non fosse teatro, un attore che non fosse un attore, per uno spettatore che non fosse uno spettatore. Lo storico studioso polacco di Grotowski, Zbigniew Osinski, aggiunge che ogni spettacolo grotowskiano sembrava la realizzazione della fine del teatro, e la riproposizione della domanda “come andare oltre?”. La ricerca non era orientata verso soluzioni costruttiviste ma verso la conoscenza della biologia del performer e dello spettatore, nel cui incontro si produceva una “magia molto sensuale”, fatta del respiro e del sudore dell'attore. Gli spazi erano tutti sviluppati durante le prove, utilizzando livelli, piani differenti, e al posto delle luci c'erano i corpi degli attori a illuminare le scene. Gli attori del Teatr Laboratorium ricordano l'ossessione di Grotowski per la ricerca della verità dell'espressione, l'orrore per l'attore che fa finta, l'analisi continua della composizione della vita, dell'uso dei segni manifestati col corpo come un alfabeto volto a rivelarne la realtà intima, il suo uso insistito della frase “non ci credo”, laddove il regista, come primo spettatore, metteva l'attore di fronte alla propria verità di essere umano, a domandarsi “dove ho mentito?”. Cercavano il corpo-vita e il corpo-memoria, la “matrice-uomo”, la radice originaria dell'uomo che avvampa e prende vita di fronte a un altro uomo (4).

Per comprendere pienamente come Grotowski abbia affrontato la questione dello spettatore, ci possiamo rifare al suo articolo “Teatro e rituale”, o “Alla ricerca del rito nel teatro”, che è una trascrizione di una conferenza che tenne nel 1968 a Parigi (5). Qui Grotowski descrive l'itinerario della sua ricerca nel teatro come la storia di un fallimento. Il fallimento nasce da un'illusione, o tentazione, condivisa da molti uomini di teatro (6), di ritrovare nel teatro il mito, il rituale, al quale partecipino due parti, gli attori-corifei e gli spettatori-partecipanti, la cui reazione “immediata, aperta e liberata” permetta loro di condividere in maniera diretta e viva una “reciprocità peculiare”. Dopo alcuni tentativi iniziali di composizioni spaziali che Grotowski considera poco precisi, egli ricorda come si sia messo in un cammino “alla conquista dello spazio” grazie all'incontro con l'architetto Jerzy Gurawski, nel 1960, con il quale collaborerà per cinque anni (quindi dallo spettacolo Sakuntala fino al Principe Costante ). Attraverso le sperimentazioni sull'organizzazione dello spazio teatrale, sempre diverso per ogni spettacolo, e la liquidazione del palcoscenico e platea come spazi separati, il Teatr Laboratorium compì una rivoluzione che fa ancora oggi scuola. Gurawski spiega che ciò che fecero fu il superamento del semicerchio nel quale gli spettatori erano stati fino ad allora confinati, per allargare lo spazio teatrale a ciò che è oltre la stessa geografia spaziale della scena e del pubblico, verso il “cerchio segreto”; crearono il “teatro dello spazio”, e questo spazio è lo “spazio dell'intuizione”.

Il riferimento storico, e l'ispirazione, era lo spazio dei Misteri medioevali. Veniva anche superata la classica modalità meta-teatrale; ora lo spettatore, pur se dal punto di vista formale era integralmente rispettato nel suo statuto, veniva gettato interamente nell'azione, spronato dall'attore a ricostituire la primitiva unita' rituale. I metodi erano assai ingegnosi, e coinvolgevano tutti i livelli delle performance, dalle scenografie alle tecniche vocali e fisiche degli attori, ai costumi e alle elaborate costruzioni drammaturgiche dello spazio e delle relazioni tra i personaggi degli spettacoli, tra cui gli spettatori erano compresi (7). Sono chiari gli esempi de Gli Avi, da Adam Mickiewicz, nel quale gli spettatori potevano osservare le reazioni non solo degli attori ma anche degli altri spettatori, in Kordian , da Slowacki , nel quale gli spettatori sono trattati come malati in un ospedale psichiatrico, e provocati in una maniera che li rendesse partecipi di un'azione comune, di uno stato alterato teso ai valori più alti dell'uomo, a condividere la malattia di nobiltà d'animo del protagonista; e del Faust da Marlowe, nel quale agli spettatori, come ospiti invitati a cena nel refettorio di un convento, viene imposto il ruolo di confessori. Tra il primo e il secondo, c'è la decisiva esperienza diAkropolis , il grande spettacolo tratto da Wyspianski che rese la compagnia celebre nel mondo. Poi, ci sara' il trionfo del Principe Costante , tratto da Calderon, la cui storia di martirio e l'origine spagnola ispirò il disegno di una sorta di corrida di legno. Qui gli spettatori erano posti al di sopra, e intorno, la struttura all'interno della quale gli attori agivano, e si trovavano nella situazione degli studenti di medicina in una sala operatoria, o, come ha detto Osinski, alla stregua di visitatori di uno zoo. Gli spettatori non potevano che rimanere esterrefatti, orripilati da questa sensazione dell'accadimento di un evento reale e terribile sotto i loro occhi. La presentazione di questo spettacolo all'Odeon di Parigi nel 1966 e la successive pubblicazione del libro “Per un Teatro Povero” nel 1968, nel quale sono riprodotti alcuni studi di Gurawski sullo spazio, renderanno famosi gli esperimenti del Teatr Laboratorium sulla relazione tra attore e spettatore e comune la pratica di romperne le convenzioni classiche. D'altronde il concetto stesso di “teatro povero” è legato alla rivelazione della natura autentica, originaria del teatro come relazione essenziale tra due soggetti, l'attore e lo spettatore.

Nel corso degli esperimenti svolti sullo spettatore, nel tentativo di realizzare questa ideale primitiva unità rituale, nel periodo che va da Cain a Kordian (1960-1962) Grotowski e i suoi collaboratori si erano accorti che le reazioni agli stimoli si ripetevano, erano simili e potevano tutti rientrare nelle due categorie della partecipazione isterica o, al contrario, del distacco, pur accondiscendente, di tipo cerebrale. In altre parole, e pur nella diversità dei modelli proposti, in questo nuovo teatro si ritrovavano tutti i difetti del vecchio teatro dei cliché , degli stereotipi, della spontaneità banale, che Grotowski, sulla scia di Stanislavskij, era intenzionato ad abbattere. Allo spettatore erano lasciati solo cinque o sei tipi di reazioni, sempre le stesse; che c'era allora di veramente autentico in esse? Nulla. Gli spettacoli erano andati bene, erano belli, apprezzati, ma la ricerca vera e propria, verso il rituale, si era arenata. Non si trattava evidentemente di resuscitare un teatro religioso, fuori dal tempo, ma era necessario produrre uno scarto rispetto ai tentativi precedenti di ritualizzazione del teatro, maturare uno spostamento dell'attenzione, un cambiamento radicale nell'approccio degli attori alla performance, in particolare per ciò che riguardava la configurazione dello spazio, nelle relazioni tra i performers e gli spettatori.

La ragione, la radice del problema viene spiegata da Grotowski con una metafora inventata da Ludwik Flaszen. L'imitazione del mito, oggi, è inefficace. L'uomo di oggi è simile alla torre di Babele, poiché è svanito un sistema uniforme di valori, di credenze. In assenza di una fede esclusiva, di un sistema unico di segni mitici, è inutile rifarsi a un modello di immagini primarie, poiché non sarebbe condiviso. Il segreto, il mistero, è oramai individuale, non collettivo come prima, ed è solo affrontando l'individuo, il singolo, ma nella sua interezza, oltre il ruolo di spettatore o di testimone, che può essere rintracciato e rivelato all'individuo stesso. Il paradosso è che l'unico modo che si ha per avvicinarsi al teatro rituale è quello di abbandonarlo e andare oltre. Abbandonare il teatro rituale significa dimenticarsi dello spettatore e agire sull'individuo, che nelle mani del regista e' l'attore. Quando il regista si dimentica di sè (è un altro paradosso del teatro) comincia a esistere, e esiste al momento che entra nelle stanze intime e nascoste dell'attore, della sua arte, della sua creazione. Rinunciare alla centralità dello spettatore significa allora concentrarsi sull'arte dell'attore come creatore, e in ultima istanza, come essere umano.

Tra i tentativi migliori che Grotowski ricorda di quel periodo c'è il lavoro su Sakuntala , un testo classico indiano che proprio Grotowski, per primo in Europa, aveva già proposto alla radio polacca alla fine degli anni '50. La scelta del testo costituiva già di per sè una sfida. Il Teatr Laboratorium selezionava per la scena sempre testi di tradizione le cui note potessero in qualche modo risuonare nei propri membri, e se questi erano scelti in genere tra i classici del romanticismo polacco, dove al centro v'è sempre un eroe alla ricerca del suo destino, in questo caso si proponeva una ricerca completamente diversa, distante, straniante, forzatamente disgiunta dalle convenzioni del teatro europeo. D'altronde Grotowski stava mostrando un'attitudine alla radicalità che per un verso era radicata nella tradizione romantica polacca, dell'eroe martire, e per un altro verso imbevuta di una cultura lontana ma altrettanto personale e radicale, quella induista. Ora si andava alla ricerca di una recitazione rituale, non necessariamente religiosa, avendo in mente tra l'altro l'esempio di teatro laico di tanti teatri di tradizione dell'estremo oriente, e in particolare quello dell'Opera di Pechino e delle varie altre forme cinesi. In Sakuntala essi cercarono di creare un sistema di segni, gestuali e vocali (attraverso una complessa elaborazione che nasceva da inediti esercizi vocali (8) che attraverso l'ironia (il trucco degli attori inventato da bambini delle elementari, per esempio), sottraesse all'invenzione degli stereotipi la loro caduta nei cliché, e riportasse l'arte al suo significato etimologico di artificio. Questo sistema di segni evidentemente non poteva funzionare una volta per tutte, come accadeva nei teatri di tradizione viventi, ma singolarmente, e solo per quello spettacolo, per quegli spettatori. Il risultato, divertente e interessante, certamente originale per l'epoca, non sembrava imboccare la via giusta per la creazione del teatro rituale. Nondimeno, fece comprendere a Grotowski e alla compagnia che la catena delle composizioni attoriali doveva partire dalle reazioni umane organiche, e essere strutturata successivamente.

SECONDA PARTE

È con Akropolis che il tentativo di realizzare quell'atto magico di unione dei due ensemble, gli attori e gli spettatori, raggiunge il suo apice, e questo grazie a una scoperta fondamentale: per ottenere una partecipazione autentica, bisognava presentare un'alterità, creare una frattura, un abisso tra i due gruppi. Per farlo, bisognava allontanarsi dall'illusione di creare un teatro rituale. Da un punto di vista drammaturgico, costringeva al sentimento della crudeltà estrema della sincerità della vicenda che appariva di fronte, e in mezzo, agli spettatori di Akropolis , quella dei morti del campo di concentramento di Auschwitz, che in realtà distava pochi chilometri dalla cittadina di Opole, sede del teatro della compagnia. Questo portava immediatamente i testimoni di quell'evento a sentire la risonanza di quel qualcosa di alto che è stato profanato; lì il sacro cadeva e l'esperienza diventa teatrale, laica. Ora, così, l'oggetto del mistero, nella sua natura di archetipo che nasce dall'inconscio collettivo, si poteva manifestare, si rivelava.

La compartecipazione emotiva totale, poi, esplodeva grazie a una coincidenza paradossale, la chiarezza della distanza dei ruoli, dello statuto costitutivo dei due diversi gruppi, con la vicinanza spaziale degli stessi.

Ricorda Flaszen che tutti gli esperimenti svolti sullo spazio scenico non erano motivati dall'intenzione di concepire nuove soluzioni architettoniche, ma di trovare il centro, il nucleo del teatro. In Akropolis fu la decisione di attuare una separazione radicale dei due mondi, quello degli attori e quello degli spettatori, a rinnovare la conoscenza di un antico e perduto sapere teatrale, quello per cui quanto è più vicina l'azione, tanto essa è più distante psicologicamente agli astanti. Ecco la soluzione tecnica che segue la rivelazione concettuale quindi, la scoperta: per ottenere la comunione primitiva bisogna realizzare una distanza abissale emotiva, unita alla vicinanza fisica; gli spettatori devono essere mischiati con gli attori. Ecco il risultato più riuscito della dialettica di apoteosi e derisione sull'asse del rituale, dove l'ironia, con il suo lato tragico, istruisce di nuovo il mito, riproduce l'archetipo, il pensiero primitivo attraverso una rappresentazione collettiva, il teatro. ( 9 )

Il tentativo di un rituale laico è così, senza che venisse questa volta cercato, compiuto, in una maniera che è efficace, che propone un modello che permette di astenersi dall'esperire quelle reazioni usuali che si possono osservare nei cerimoniali costruiti – anche nel teatro corrente, che Grotowski intendeva superare – per inebetire i partecipanti, o per suscitare i bassi istinti della folla.

Poiché questo accade quando si vuol resuscitare il rituale a teatro; alla ricerca della spontaneità originaria si fa appello alla spontaneità disordinata, e ciò che si ottiene è il caos totale, la mancanza di significati e di linguaggio. Qualora invece si cerchi il rituale nel senso del mito, si ottiene solo un vuoto spettacolo “ecumenico”, una congerie sterile di illusioni, simboli e frammenti di varie religioni, dalle quali l'uomo contemporaneo si è allontanato.

Questa volta però, in Akropolis , la compagnia era riuscita a superare tutti i tentativi precedenti e a loro contemporanei di questo tipo. Il caos era certamente evitato grazie al rigore formale dell'opera e al solco creato tra i perfomers e i testimoni, e le reazioni degli spettatori non erano più programmabili e ripetibili, erano invece sempre diverse nelle varie presentazioni dello spettacolo, e diverse per ciascuno. Ognuno era spinto a compiere un confronto con il mito, che qui mostrava il suo concreto significato di immagine sintetica delle esperienze cruciali delle generazioni passate, e non semplice rappresentazione di icone appartenenti a culture antiche, quant'anche originarie, o lontane.

Eppure, non ostante i progressi raggiunti, ci dice Grotowski, il meccanismo non funzionava come si era desiderato.

A questo punto il fallimento sembrava irrimediabile, perché gli esperimenti erano stati condotti con il massimo della precisione e dell'impegno. Se agli inizi dell'avventura con il Teatr Laboratorium, gli attori avevano ampi spazi di improvvisazione e di creazione sia nelle prove che sulla scena, ora, in Akropolis , tutto è stabilito, costruito, studiato nei minimi dettagli, perfino la parte vocale, che non è cantata, è stata realizzata con l'ausilio di un musicista. Non c'è un singolo gesto che non nasca da una profonda autopenetrazione dell'attore, non c'è un movimento sulla scena che non sia stato elaborato sulla base di uno studio della reazione del singolo spettatore, posto in quel determinato spazio per quella specifica ragione.

Grotowski nota come la dialettica di apoteosi e derisione non funzionasse con il dovuto rigore in entrambe le sue polarità per ogni spettatore; in alcuni funzionava nel senso dell'apoteosi, in altri della derisione. A fronte di molti che reagivano a questa dialettica con una “notevole spontaneità, non ostentata, ma autentica, profonda… che per loro… funzionava in pieno”, per molti altri non funzionava. Anche quando era efficace, le reazioni si ottenevano su piani diversi; direttamente l'apoteosi, nel corso della esperienza spettatoriale immediata, e successivamente la derisione, con lo strumento del pensiero, dell'analisi della struttura dello spettacolo. Dal punto di vista sperimentale, il meccanismo mancava di omogeneità, non produceva l'interezza delle reazioni che ci si potevano aspettare, e in fin dei conti non poteva essere utilizzato come un vero e proprio modello. Il tentativo di realizzare il teatro rituale, laico, non religioso, nell'ambito del quale il mito o archetipo si riproduceva nel senso della riapparizione nel testimone di un legame con immagini appartenenti alle generazioni precedenti, rischiava di lasciare il posto alla semplice imitazione, stilizzazione del mito, delle immagini mitiche conosciute, realizzate artisticamente ma passivamente. Lo stallo era oggettivo, il motivo era l'uso improprio dello strumento, il teatro, usato per raggiungere lo scopo, extra-teatrale, di riconciliare l'essere umano con se stesso, per permettergli di raggiungere quel nascondiglio segreto delle aspirazioni e credenze autentiche che abita ciascuno di noi.

Ma è proprio questo punto, ancora, l'analisi delle reazioni degli spettatori, che induce a nuove svolte, a nuove rivoluzioni, esistenziali e estetiche.

Grotowski ripercorre la storia del teatro, definendola come un duello tra due istanze, quella realistica, di imitazione della vita, e quella della creazione di un'illusione. La sua ricerca si era orientata a tentare la riunificazione, la coincidenza delle due, proponendo una modalità che provocasse una duplice reazione contemporanea allo spettacolo del performer e dello spettatore – sempre intesi singolarmente – nella quale l'aspetto della totalità organica conteneva l'istanza naturalistica, la necessitaà di toccare la vita reale. Il risultato che si cercava era l'atto, hic et nunc , dello svelamento di se stessi, comparabile a un atto di confessione, di denudamento, di rivelamento, di riscoperta sul solo terreno della propria vita. L'attore quindi, a prescindere dall'artificio usato, manifestava la propria esperienza, e le fonti non potevano che essere trovate negli impulsi che nascevano dal profondo del corpo, e riproposti, senza recitare, nel tempo presente. Per ottenere questo risultato paradossale, questa coincidenza illogica di struttura e atto reale, è necessaria una lunga e attenta preparazione, una costruzione attenta di una partitura, fisica e vocale (dove la parte vocale altro non è che uno degli aspetti del lavoro attraverso il corpo) che non eviti le contraddizioni ma le affronti con la consapevolezza che solo esse possono portare a conoscere l'essenza della realtà. D'altronde il rituale primitivo, che per un europeo non è che espressione di spontaneità, è in verità preciso, si configura in liturgie, che sono distillati di esperienze collettive, e pur nelle variazioni si oppongono al caos, perché manifestano quella certa linea delle azioni umane che è il risultato della coincidenza paradossale di un comportamento sia preparato a priori che spontaneo.

Grotowski si ricollega qui al lavoro di Stanislavskij sulle azioni fisiche, alla scoperta che il corpo non solo contiene la memoria, ma è esso stesso memoria della propria esistenza, sia sensoriale che emotiva. Il processo indicato da Stanislavskij è proprio questo, parte dalla rivelazione di morfemi provenienti dal mondo affettivo, di impulsi che provengono dall'interno del corpo e che si manifestano all'esterno come gesti, punti finali di un metodo di disvelamento di una intima natura umana. Il passaggio dalla vita quotidiana all'opera, non procede in maniera casuale, e le emozioni non possono essere stabilite una volta per tutte e riproposte. Per raggiungere l'agognato stadio oggettivo dell'arte – che coincide con il rituale condiviso – è necessario passare dalla partitura di impulsi vivi al sistema di segni. Bisogna passare dalla “fase 1”, che si risolve nel “credo” in un dato comportamento, perché è il risultato della ricerca di impulsi vivi, alla “fase 2”, nella quale si può affermare: “capisco”, poiché questo esiste non soltanto per te, primo testimone o regista, ma anche per gli altri, per qualsiasi spettatore o testimone.

Ora, questo può accadere qualche volta, nella vita e per caso, nell'arte. La difficoltà risiede nel produrre lo stesso risultato a comando, rinnovare questo atto di confessione nel tempo presente.

È qui che il teatro, la sua tecnica, può ricollegarsi al rituale, da cui trae origine. La ricerca dell'origine del teatro, l'utopia del raggiungimento dell'origine, si produce come manifestazione dell'interezza dell'uomo, la realizzazione dell'uomo totale, l'”atto totale” dell'attore. L'attore qui supera lo stato di incompletezza dell'uomo, o quantomeno dell'uomo contemporaneo, superando la divisione tra pensiero e sentimento, tra corpo e anima, tra conscio e inconscio, tra sesso e cervello, tra ponderazione e istinto, tra idea e azione. Lo fa, in questa fase, usando come strumento privilegiato il testo, la collisione con il testo, ciò che permette la coicidenza dell'individuale con il collettivo, di produrre il sentimento di un “brivido legato alla specie”. Si dirige verso l'integrità originaria, laddove risiedono le fonti di energia.

Ma le fonti dell'essere umano sono condivise, e ì risiede anche l'altro da se stesso, è il luogo nel quale agisce su di noi “la voce dell'abisso, come la voce dei morti”, che costringe all'atto, al “cristallo della sfida”. Nell'azione totale l'attore si rinnova come essere umano, il singolo, l'individuale, incontra un nuovo essere, le fonti, il collettivo, e ne crea un altro, lo spettacolo, che nasce solo di fronte a un altro essere umano, lo spettatore. È qui, nello spettatore, che il soggettivo, il personale, la partitura, si unisce all'oggettivo, al collettivo, all'atto; è per lo spettatore, è di fronte, dentro e intorno a lui, che da questa irradiazione di termini opposti, da questa coincidenza di molteplici livelli, appare il nuovo teatro. Non si tratta più di una visione astratta, ne abbiamo degli esempi negli ultimi spettacoli della compagnia: Il Principe Costante , la versione rinnovata di Akropolis , e Apocalypsis cum figuris .

È su questa scoperta delle possibilità del nuovo teatro che Grotowski si sofferma per una considerazione definitiva del suo lavoro di ricerca come regista del Teatr Laboratorium: la concezione del teatro rituale laico, il rituale nel teatro, doveva essere abbandonata, ciò che rimaneva era il rinnovamento del rituale teatrale in sè e per sè, “non religioso, ma umano: attraverso l'atto, non attraverso la fede”. La domanda su cosa sia realmente essenziale era stata posta, e la risposta era in parte arrivata: l'essenziale era l'attore, ma non in quanto artista, ma come essere umano.

Era necessario allora oltrepassare quella incompletezza nella quale l'uomo va a cacciarsi da solo, che è l'arte, la recitazione.

La ricerca dell'origine del teatro aveva raggiunto il suo limite, oltre il quale non rimaneva che fuoriuscire dal teatro, e quindi chiudere con la ricerca sullo spettatore, eliminare lo spettatore in quanto tale, per ritrovarlo come essere umano, come l'attore che non recita più, e sul suo stesso livello.

È quello che Grotowski fece entrando nella fase successiva della sua ricerca, il Parateatro. Fu una rivoluzione.

Dalla conferenza “Teatro e rituale”, che è del 1968, all'inizio delle attività parateatrali, annunciate con la conferenza intitolata “Holiday”, del 1970 ( 10) , passano due anni, i primi abbozzi di uno spettacolo, Apocalypsis cum figuris , al cui approdo si stava giungendo attraverso varie crisi e molte fasi intermedie e preparatorie, e un viaggio, in India.

Racconta Stefania Gardecka, segretaria storica di Grotowski, che di ritorno dall'India Grotowski era atteso in Iran, dove la compagnia doveva presentare i suoi spettacoli al festival di Shiraz. Lei andò a prenderlo all'aereoporto, e lo riconobbe con difficoltà. Grotowski sembrava un altro. L'uomo che conosceva pesava centoventi chili, vestiva sempre di nero, in giacca e cravatta, sbarbato, aveva tutti i caratteri tipici dell'intellettuale dell'epoca. All'aereoporto si presentò una specie di hippy, vestito di jeans, magrissimo e con la barba e i capelli lunghi. La rivoluzione del suo percorso creativo e intellettuale andava di pari passo con la trasformazione, anche evidente, di se stesso.

In India Grotowski aveva svolto dei percorsi liberi, misteriosi e entusiasmanti, aveva incontrato uomini in una maniera diversa da come siamo abituati a fare in Europa, senza scudi, senza mentire. Aveva preparato la strada per incontrare, oltre la vita terrena, il suo Maestro, Ramana Maharshi. ( 11) Aveva concepito e sperimentato la possibilità di entrare in contatto con l'altro che funzionasse in una modalita' di effettiva uguaglianza, diretta, in un contesto nel quale vi fosse una condivisione totale dello spazio e un mutuo scambio. La cultura passiva, nella quale un artista, l'attore, agiva, e uno spettatore non specializzato, semplicemente guardava, doveva essere sostituita, superata, da una cultura attiva, per la quale questa separazione doveva scomparire e essere sostituita dalla presenza attiva di tutti i partecipanti a un dato evento o progetto.

Dal sistema di ricezione costruito dagli attori armati di tecnica, dalla ricerca teatrale, si doveva passare, per usare le parole di Flaszen, alla “ricerca segreta di un certo tipo di energia”, alla ricerca per l'esistenza vera, per avere, come dice la storica attrice, e altra fondatrice del gruppo, Rena Mirecka, “esperienza di una parte di te che non conosci”, che si poteva ottenere solo se disarmati, poiché essa appartiene a un altro tipo di cultura, non teatrale.

Così, le ripetizioni di Apocalypsis cum figuris , che si ripeteranno per più di un decennio, in molte parti del mondo, verranno utilizzate soprattutto per entrare in contatto con i possibili partecipanti alle sessioni parateatrali. Si trattava di uno spettacolo potente, che gli attori della compagnia per la verità non hanno mai amato particolarmente, ma che impressionava enormemente gli spettatori. Lo spazio questa volta era totalmente vuoto, soltanto simbolico, e non era evidente la separazione tra attori e spettatori. Se era normale che alla fine degli spettacoli precedenti del Teatr Laboratorium gli spettatori rimanessero nello spazio in silenzio per qualche minuto, turbati, invece che prodursi nel consueto applauso liberatorio, questa volta andavano molto oltre; gli veniva offerto del pane, rimanevano lì un'ora, un'ora e mezza, o tutta la notte: alcuni venivano invitati a rimanere anche per tre giorni, rimanevano a dormire in quello spazio, soprattutto quando veniva presentato nella sede di Wroclaw, comprendendo che quell'evento gli avrebbe potuto cambiare la vita.

È in quel periodo d'altronde che Zygmunt Molik comincia a elaborare il suo metodo per la voce e il corpo, a tenere delle sessioni aperte a partecipanti con lo scopo di “liberarne” la voce, usando la “voce come veicolo”.

La traiettoria esistenziale e artistica di Grotowski, la sua ricerca, non finirà lì. Grotowski vuole sperimentare un altro tipo di ricezione, questa volta interna, non più orizzontale, ma verticale. Crea un gruppo internazionale e viaggia alla ricerca delle fonti ( 12) , delle tecniche originarie dell'essere umano, assiste a molti rituali, che spesso inducevano allo stato di possessione, e si appassiona in particolare, ma non solo, al Voodoo haitiano e all'abilità dei performer che non sono attori, ma sacerdoti, guide, maestri nel modificare e elevare gli stati di coscienza degli astanti, testimoni o partecipanti agli eventi rituali.

Dopo l'esilio negli Stati Uniti si trasferisce in Italia, e a Pontedera chiude il cerchio delle sue esplorazioni, eliminando una volta per tutte lo spettatore, utilizzando (facendo utilizzare) il corpo e la voce esclusivamente come chiave per conoscere se stessi, per superare tutte le forme dell'umano attraverso la precisione e la spontaneità, per raggiungere, come dice ancora Peter Brook, quel “qualcosa senza forma e più essenziale” a cui si arriva senza lo spettatore.

È il momento della ricerca sull'”Arte come Veicolo”, sulla ricezione “verticale”, che pur rimanendo, per necessità funzionale alla sua efficacia, conosciuta e sperimentata da pochi, ha segnato un solco così profondo lungo la strada della storia dell'arte che tutt'ora i suoi principi vengono seguiti in mezzo mondo dalle nuove generazioni di cercatori e di teatranti.

 

Questo articolo riflette i contenuti della conferenza tenuta dall'autore il 6 settembre 2012 presso l'Università di Salvador de Bahia nel contesto del festival FILTE Bahia.

 

 

NOTE  

1 Chi ha vissuto vicino a Grotowski ricorda come gli fosse stata predetta sin dall'infanzia una morte precoce per causa di una malattia cronica, e di come tutto il suo percorso esistenziale fosse determinato dall'urgenza di risolvere nel minor tempo possibile, attraverso un lavoro eccessivo, le questioni che lo assillavano.

2 Per esempio, dice George Banu che anche la versione francese del testo di Thomas Richards “Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche” fu rivisto da Grotowski parola per parola, il che fa anche riflettere sull'attribuzione autoriale dell'opera, effettivamente risultato di una collaborazione, testimonianza di un ideale passaggio di consegne, di operazione di trasmissione da maestro a allievo. Un altro esempio è il film di Ermanno Olmi su Apocalypsis cum Figuris , la cui circolazione è stata bloccata da Grotowski – anche dopo la morte, come volontà testamentaria – perché riteneva che non riuscisse in alcun modo a restituire lo spirito della performance. Ancora più significativo è il sostanziale permesso accordato di far circolare nella forma di “materiale grigio”, non autorizzato dall'autore, fotocopie di un manoscritto delle fondamentali trascrizioni di Luisa Tinti del ciclo delle sue lezioni romane del 1983 intitolate “Tecniche Originarie dell'Attore”, la cui pubblicazione è ancora oggi interdetta – e con qualche ragione – dagli eredi di Grotowski. Intere generazioni di teatranti italiani si sono formate su questo testo irregolare scorretto e misterioso, con la complicità implicita di Grotowski.

3 Uno studio accurato sull'impatto e la ricezione internazionale del lavoro di Grotowski è al momento promosso da Darek Kosinski per conto del Grotowski Institute di Wroclaw. Ne attendiamo i risultati, che nelle intenzioni verranno presto pubblicati nel numero speciale “Grotowski in the World” sulla rivista online “Performer” nel sito dell'istituto. Ad essi rimando per ciò che riguarda quest'accezione, o livello, della ricezione di Grotowski.

4 Le citazioni e i riferimenti a testimonianze autorevoli sono tratti da due film: Jerzy Grotowski – An Attempt of a Portrait , diretto da Maria Zmarz-Koczanowicz, Katowice: TVP S.A./ARTE, 1999, e Inicjaly J.G.   [ le iniziali J.G .] (documentario su Jerzy Gurawski), diretto da Miroslawa Sikorska. Katowice: TVP S.A., 1996.

5 Questo saggio e' stato ripubblicato in italiano nel 2001 dalla Fondazione Pontedera Teatro nella raccolta “Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969”, a cura di Ludwik Flaszen e Carla Pollastrelli, e in portoghese in "Teatro Laboratório de Jerzy Grotowski, 1959 – 1969”. SP:Ed Perspectiva, 2007.

6 Voglio qui solo ricordare che Grotowski studio' a Mosca, al GITIS, e che questo periodo di formazione e' stato determinante per le sue scelte nell'orientamento delle sue ricerche. Grotowski raccontava delle sue visite segrete in biblioteche nelle quali si conservavano gli scritti di Mejerchol'd, ancora inviso dal regime e dalle scuole teatrali, e di quanto le idee di questo regista lo abbiano influenzato. Mejerchol'd è stato uno dei primi – prima ancora di Evreinov e Tairov – a tentare il viaggio verso l'origine rituale del teatro, nelle messinscene che organizzò a inizio secolo nella mitica Torre, la residenza di San Pietroburgo di Vjacelslav Ivanov, frequentata da alcuni dei migliori intellettuali e giovani artisti dell'epoca. Un'altra figura di riferimento per Grotowski è senz'altro Edward Gordon Graig, che nell'osservare la danza di Isadora Duncan vide, come mi ricorda Franco Ruffini, non il corpo in movimento, ma il movimento in un corpo, e ebbe la visione utopica di un teatro del movimento collocato nell'avvenire, come risultato del sentimento di nostalgia di un teatro del movimento collocato nell'origine, prima della sua caduta.

7 Tutto ciò, per quanto possa essere concettualmente paragonabile, è dal punto di vista delle tecniche assai distante dalle stupefacenti esplosioni di vitalità provocatorie di grandi gruppi ribelli come il Living Theatre, che pochi anni dopo queste produzioni del Teatr Laboratorium, a partire potremmo dire dal 1963, da “Paradise Now” in poi, si producevano in spettacoli esplicitamente ritualistici e vitalistici, dall'estetica hippy e anarchica americana, che doveva molto più alla giovane cultura dell'”happening” che alle tradizioni teatrali (non ostante la formazione piscatoriana di Judith Malina).

8 Esercizi che includevano la respirazione e l'apertura diaframmatica, che, da allora in poi, come ricorda l'attore Andrzej Bielski, risultarono necessari anche per superare i blocchi della formazione classica e per orientarsi verso una relazione di tipo organico. Avendo cancellato di punto in bianco l'abitudine di recitare in linea, gli attori erano ora infatti molto vicini agli spettatori, in maniera diversa nei vari spettacoli, anche a venti centimetri, o a fianco, o dietro le spalle.

 9 Tra gli esempi classici di elementi che proponevano l'uso della dialettica di apoteosi e derisione, non solo da un punto di vista drammaturgico ma anche da quello della realizzazione concreta della scena, cito almeno il sangue versato dall'eroe romatico Kordian al medico che lo ha in cura come malato di mente, e la gioiosa litania guidata da Zygmunt Molik appunto alla fine di Akropolis , quando tutto il gruppo dei prigionieri entra esultante nel forno crematorio che aveva costruito nel corso dello spettacolo.

10 La conferenza fu data a New York nel dicembre del 1970, ma la chiamata di partecipanti e le selezioni per le prime sessioni parateatrali si erano già svolte tra il settembre e il novembre di quell'anno. Nella forma di articolo, “Holiday” fu pubblicato in polacco (con il titolo “ Swieto ”) nel 1972 e in inglese nel 1973.

11 Grotowski si era ritenuto un seguace di Maharishi sin dall'età di nove anni, quando aveva letto di questo grande personaggio nel libro di viaggio di Paul Brunton datogli dalla madre, che secondo Grotowski era “induista”. Maharishi muore nel 1950, ma Grotowski andrà con la madre sulla montagna sacra di Arunachala nel Madras, all'ashram di Maharishi nel 1976, durante il suo quarto viaggio in India, e chiederà che venissero portate le sue ceneri. Le ceneri di Grotowski stesso sono poi state sparse lì, per eseguire la sua volontà.

12 Questo periodo è noto appunto con il nome di “Teatro delle Sorgenti”.

 

Da: www.liminateatri.it/

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