Che cosa è il Buddhismo (Riccardo Venturini)

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"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Che cosa è il Buddhismo (Riccardo Venturini)


 

1. Esplicita o implicita, una domanda è certamente presente alla mente di molti: "Cosa è il Buddhismo?" Un primo modo di rispondere a questa domanda potrebbe essere: il buddhismo (analogamente a quanto può dirsi di molte dottrine religiose o filosofiche, cristianesimo compreso), è rappresentato 1) dalle interpretazioni che, nel corso della storia, ha avuto l’insegnamento di Buddha Shakyamuni; 2) dalle forme di vita religiosa che a queste si riferiscono. Perché in effetti — considerando una storia di ben 2500 anni — dobbiamo riconoscere di essere in presenza di una incredibile molteplicità di insegnamenti, di espressioni devozionali, di elaborazioni filosofiche, di fenomeni di inculturazione in paesi e tempi diversi, che caratterizzano questa tradizione sapienziale, costituendone l’indiscutibile fascino e la profonda ricchezza e, a un tempo, anche il motivo della complessità e dell’arduità del suo studio.
Proprio quest’ampia capacità di diffusione ha fatto del buddhismo una delle grandi religioni viventi dell’umanità, presente oggi anche nel mondo occidentale e nel nostro Paese, al centro di un interesse che sarebbe superficiale considerare a livello di una moda, sostenuta dall’attrazione per un messaggio esotico, capace di soddisfare solo un
desiderio di evasività o un indistinto bisogno di un Dio alternativo. Se questo poteva avere qualche aspetto di verità nei decenni trascorsi, oggi sembra potersi affermare che il bisogno di conoscenza della tradizione buddhista abbia una ben diversa giustificazione e si situi a un ben altro livello. Siamo infatti di fronte: 1) all’esigenza di una più profonda riflessione sui confini e sui connotati della spiritualità, 2) ai problemi e alle speranze del dialogo interreligioso e, infine, 3) alla ricerca, nei più diversi sistemi di pensiero dell’umanità, di elementi utili per una nuova sintesi culturale che il millennio appena iniziato ha il dovere di tentare. Nel tramonto degli orizzonti di senso eurocentrici e nella crisi delle ideologie, tra i fragili valori della cultura postmoderna e le minacce dei vecchi totalitaritarismi non completamente sconfitti e quelle dei nuovi virulenti integralismi, il buddhismo, con i suoi strumenti di interpretazione della realtà e della storia, e con l’indicazione di una saggezza da incarnare nel quotidiano e di una compassione da praticare verso tutti gli esseri senzienti, sembra infatti in grado di rispondere ad attese autentiche, ben al di là delle pur presenti ingenue manifestazioni di un superficiale turismo spirituale.
Il buddhismo, com’è noto, sorge in India nel VI sec. a. C., in quel fervido periodo a cui Karl Jaspers ha dato il nome di “periodo assiale” della storia mondiale, situato intorno al 500 a. C.

In questo periodo — scive Jaspers — si concentrano i fatti più starordinari. In Cina vissero Confucio e Lao-tse, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mo-ti, Chuang-tse, Lieh-tsu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upanishad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibiltà filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profete, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidite e Archimede.
Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell’Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre.
La novità di quest’epoca è che in tutti e tre i mondi l’uomo prende coscienza dell’Essere nella sua interezza [Umgreifende, ulteriorità onnicomprensiva], di sé stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali.

In altri termini, nel periodo assiale, sembra che l’umanità abbia fatto un incredibile salto nell’approfondimento della conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale dell’essere-umano a cui, sempre secondo Jaspers, " si può dare il nome di spiritualizzazione". Vennero infatti formulate le categorie fondamentali

secondo cui pensiamo ancor oggi e poste le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli uomini. In ogni senso fu compito il passo nell’universale.

Gli insegnamenti dei maestri di questo periodo, proprio per avere in comune il fatto di essersi poste come riflessione critica e ricerca di saggezza, e di aver costruito scuole di tolleranza nella negazione di dogmatismi, ritualismi ed esteriorità, costituiscono ancor oggi imprescindibili riferimenti spirituali.
Dall’India, il buddhismo ha presto conquistato una immensa area di diffusione (possiamo ormai dire in tutto il mondo), ovunque portando il suo messaggio di tolleranza, di rispetto della vita e della natura, di gentilezza e di eleganza, che ne hanno fatto per eccellenza la religione dell’attenzione e del dialogo: non si ricordano, infatti, né guerre né
sacrifici di esseri viventi condotti nel nome di Buddha né persecuzioni o conversioni forzate. La diffusione del buddhismo si è sempre basata non sulla presenza di uno spirito missionario invadente e organizzato,
ma sulla segreta attrattiva dei suoi ideali di silenzio e di pace interiore, di capacità di gestione della sofferenza, di pazienza e di tolleranza nei rapporti tra le persone e tra i popoli.
Non legato a particolari etnie o culture il Dharma di Buddha trascende il tempo e lo spazio, e sembra oggi capace di rispondere a molte esigenze dell’Occidente contemporaneo, facendo cadere quel pregiudizio che lo voleva estraneo e impraticabile alla mente occidentale. Vorrei ricordare quel che anni fa Erich Fromm scriveva su una possibile
religione del futuro:

Per coloro che vedono nelle religioni monoteistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano, non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilupperà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più importante carattere di questa religione sarebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’Oriente e dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica di vita piuttosto che su credenze
dottrinarie. Una simile religione creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espressione tali da produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i
tempi erano maturi. Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa.

Queste parole (e potrebbero citarsene altre di Einstein o di Toynbee) sembrano appunto perfettamente attagliarsi alla dottrina buddhista, almeno per tre punti, sui quali possono essere utili alcune riflessioni.
Il primo è rappresentato dall’assenza di un sistema dogmatico, difficilmente armonizzabile con la cultura occidentale, assenza che può invece consentire ai cosiddetti laici di ritrovare la possibilità di una vita religiosa.
Il secondo è l’importanza della pratica: una adesione al buddhismo, non può essere un’adesione soltanto teorica, paragonabile all’iscrizione a un club o, tantomeno, rappresentare l’equivalente del prendere la tessera di un partito. Un — come si dice — “prendere rifugio” nel triplice gioiello della Legge (che governa la totalità del mondo), nel
Buddha (che questo Dharma ha interpretato, esposto e realizzato con la sua vita) e nella comunità (di coloro che seguono la dottrina del Buddha), un prendere rifugio che non fosse accompagnato dalla retta pratica sarebbe un fatto soltanto illusorio. Il buddhismo, come dottrina di vita, non può ammettere divario tra teoria e prassi, per cui si
configura come un modo di vivere, una via di trasformazione interiore in cui l’importanza non è nell’ortodossia, ma nell’ortoprassi.
Infine, il buddhismo sembra poter offrire un fondamento, che può essere largamente condiviso, alle condotte di solidarietà autorealizzativa, da vivere nella pratica della non-violenza, della benevolenza e della compassione, della gentilezza e del rispetto reciproci.

2. Tra i pregiudizi che più hanno ostacolato una corretta interpretazione del buddhismo da parte dell’Occidente, ve ne sono due sui quali vorrei soffermarmi: il primo è quello che vede il buddhismo come dottrina pessimistica, in quanto in esso viene sottolineata la dimensione di sofferenza propria della vita umana e animale; il secondo è l’interpretazione del buddhismo come dottrina nihilistica per l’identificazione, da esso operata, della Realtà ultima con ciò che è stato chiamato Vacuità o Shunyata.
Come la tradizione ci tramanda, il giovane principe Siddharta, dopo un’infanzia e un’adolescenza vissute negli agi della regale residenza paterna, “scoprì” il mondo della malattia, della vecchiaia, della morte; ne fu profondamente turbato e iniziò quel processo di trasformazione personale, che lo portò alla formulazione del suo messaggio di liberazione. La prima delle cosiddette "quattro nobili verità" di cui si sostanzia il suo insegnamento è, infatti, la verità della sofferenza:

La nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati che rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza sono dolore .

Il Buddha, nel suo insegnamento, non come filosofo si rivolge all’umanità, ma come medico, dispensatore di un prezioso farmaco (il Dharma), capace di indicare all’uomo una via di uscita dalla sofferenza.
Egli fonda un ordine che non è una chiesa, quanto, potremmo dire, un luogo di cura, una sorta di “sanatorio” per uomini e donne che aspirano alla liberazione spirituale. Vorrei, a questo proposito, ricordare che una delle forme in cui il Buddha è venerato in Estremo Oriente è proprio quella di Maestro della medicina e famosa è la statua dello Yakushi
Nyorai (Buddha della medicina) del tempio Yakushiji a Nara, in Giappone.
Il Buddha, infatti, richiama l’attenzione sulla centralità della sofferenza non per fondare una filosofia pessimistica, ma per offrire un insegnamento che sia un messaggio di liberazione e di speranza per gli uomini, ai quali viene proposto un cammino di autoredenzione.
Se il punto di partenza del percorso spirituale del giovane principe Siddharta fu rappresentato dalla presa di coscienza della sofferenza, il punto di partenza del suo insegnamento come Buddha fu costituito dal richiamo all’esperienza diretta, non irretita da problemi metafisici che non possono avere soluzione. Consapevole del carattere interminabile del conflitto delle speculazioni, il Buddha lo supera portandosi, potremmo dire in termini kantiani, dal livello della metafisica a quello della critica, presentandosi pertanto il buddhismo non come una critica del reale, ma come una critica delle visioni del reale (del dogmatismo realista e di quello idealista, di quello eternalista e di quello nihilista, etc.). Gli “inesprimibili”, elencati in molte scritture buddhiste, sono le domande che chiedono

se il mondo è eterno o non-eterno o entrambi o nessuno dei due; se il mondo è finito o infinito o entrambi o nessuno dei due; se il Tathagata esiste dopo la morte o non esiste o entrambi o nessuno dei due; se l’anima è identica al corpo o diversa da esso .

Su di essi il buddhismo rimane in silenzio, avendo sempre presente la sua vocazione terapeutica e indicando una pratica che ha tutto il carattere di urgenza di un intervento medico che non consente indugi. La parabola della freccia avvelenata esprime bene questo atteggiamento:

Se un uomo fosse colpito da una freccia avvelenata, abbondantemente cosparsa di veleno, e i suoi amici e compagni, parenti e congiunti chiamassero un medico chirurgo ed egli, tuttavia, dicesse: "Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha colpito; se un guerriero o un brahmana, se un mercante o un servo"; e dicesse
"Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha colpito, qual è il suo nome, qual è la sua gente"; e dicesse: "Non voglio farmi estrarre questa freccia, fino a quando non saprò quale uomo mi ha colpito, se alto, basso o di media statura" […] Certamente quest’uomo uomo non riuscirebbe a sapere tutto ciò, prima di aver già finito il suo tempo.

Il silenzio del Buddha sulla Realtà ultima non è dunque un silenzio agnostico o strumentale, ma — per usare un termine della tradizione cristiana — un silenzio “apofatico”, aspetto essenziale non solo dell’insegnamento, ma della stessa dottrina. L’inesprimibilità della Verità ultima non ha, cioè, origine da un’insufficienza conoscitiva umana, ma è un carattere costitutivo della verità. Solo una via apofatica, una via “negativa”, può essere quindi proposta riguardo a
essa, una via che si ponga al di là di tutti i dualismi propri dell’intelletto discorsivo e discriminante.
L’insegnamento supremo di tutti i Buddha è giocato continuamente nella dialettica tra verità convenzionale (e mezzi didattici “provvisori”), da un lato, e Verità ultima, inesprimibile, dall’altro. Leggiamo nel Sutra del loto:

Questo Dharma è inesprimibile, è al di là del regno dei termini, […] non è cosa che possa essere compresa mediante il ragionamento discorsivo e la discriminazione; solo i Buddha possono conoscerlo.

La Realtà ultima, essendo nel buddhismo definita come Vacuità, risulta non oggettivabile, non concepibile, non raggiungibile dalla coscienza ordinaria. Non si ripeterà mai abbastanza che con Vacuità non si indica il nulla, ma la mancanza di esistenza intrinseca dei fenomeni, ossia l’aspetto relazionale e interdipendente della realtà fenomenica.
Infatti, tutto ciò che consideriamo esistente vediamo che esiste in virtù di altro, di cause e condizioni, per cui nulla è autosufficente ed esistente di per sé, ma tutto è interconnesso. Passando a un piano esperenziale, se esaminiamo con attenzione la nostra vita non possiamo non constatarne i caratteri di transitorietà e interdipendenza:
nasciamo, veniamo allevati ed educati da altri, tutta la nostra esistenza è in un incessante cambiamento e in un continuo scambio di sostanze, energia, informazioni con l’ambiente, per cui non possiamo concepire salvezza o liberazione che possa essere isolata dalla presenza, dall’azione e quindi dalla salvezza degli altri. La prima
fondamentale illusione da cui liberarsi sarà dunque proprio quella di possedere un io permanente, separato, autosufficente.
Lungi dunque dal sostenere posizioni nihilistiche, le varie forme di insegnamento buddhista, che hanno dato origine alle differenti scuole e tradizioni, si configurano come upaya (mezzi abili, mezzi didattici), mezzi utili, ma provvisori, approntati abilmente dal Buddha per la liberazione degli esseri non-illuminati. Una volta riconosciuta questa
qualità di mezzi, essi continuano ovviamente a essere usati, ma con l’attenzione desta a non generare nuove forme di attaccamento e nuove illusioni. Lo stesso buddhismo, in quanto sistema dottrinale, può essere considerato upaya, da cui segue l’esortazione, diretta ai praticanti, a non attaccarsi neppure alle pratiche religiose e agli insegnamenti, cosa
che conferisce al buddhismo un’identità sui generis e una forza critica eccezionale nell’ambito della vita spirituale e nel confronto con le altre tradizioni. Tra le due sponde, quella delle illusioni e della sofferenza e quella del nirvana e della pace, la religione si offre come un indispensabile traghetto, ma una volta attraversato il fiume non avrebbe molto senso continuare a portare la zattera sulle spalle .

3. Questo particolare carattere del buddhismo ha fatto da sempre porre l’interrogativo se esso debba essere considerato una filosofia o una religione o una filosofia religiosa o una religione atea e via discorrendo.
È stato detto, dal filosofo Whitehead, che il cristianesimo è una religione che ha cercato una metafisica attraverso la quale interpretarsi, mentre il buddhismo è una dottrina di vita che ha cercato di farsi religione per potersi esprimere. Dobbiamo riconoscere che il buddhismo ha usato felicemente il veicolo religioso, perché, anche se in esso possiamo trovare molti punti in comune, ad esempio, con dottrine etiche dell’antichità classica, queste sono oggi soltanto capitoli di storia della filosofia, mentre il buddhismo continua a essere una grande, vivente realtà spirituale, in cui si riconoscono milioni di uomini. In verità, per rispondere a questa domanda occorre interrogarci su quello che, parafrasando Rolan Barthes, si potrebbe chiamare il “grado zero della religione”. Al suo grado zero, il sentimento religioso sembra caratterizzarsi come domanda sul senso ultimo della vita, accompagnata da un sentimento di insoddisfazione nei confronti della realtà del mondo, ovvero dalla convinzione che quella del mondo ordinario non sia l’unica realtà o, ancora, che il modo ordinario di guardare il mondo non sia l’unico modo. Attraverso un diverso
atteggiamento e un diverso modo di guardare è infatti possibile intravvedere una realtà altra, stabilire con essa una qualche forma di comunicazione e, possibilmente, di comunione.
Come si esprime con grande semplicità un sociologo della religione, J. A. Beckford,

sarà sufficiente definire la religione un interesse per un sentimento di universalità o per il significato ultimo delle cose ,

significato che viene trovato quando si chiama in campo l’infinito e si comunica con una realtà assoluta, dotata di caratteri diversi dai caratteri della realtà fenomenica e finita.
Senza voler troppo insistere su questo punto, potrei ricordare due aneddoti che possono aiutare a comprendere la particolare modalità del buddhismo di essere religione.
Il primo si riferisce alla conversazione di Bodhidharma, primo patriarca dello zen, con l’imperatore cinese:

L’imperatore Wu di Liang chiese a Bodhidharma: "Dall’inizio del mio regno ho fatto costruire molti templi, ho fatto trascrivere tanti libri sacri, ho aiutato numerosi monaci; quale pensi che sia il mio merito?"
"Proprio nessun merito, Maestà!", rispose seccamente Bodhidharma.
"Perché?", chiese, stupito, l’imperatore.
"Tutte queste opere sono d’un ordine inferiore", rispose in modo significativo Bodhidharma, "le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cieli o sulla terra. Esse però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che accompagnano gli oggetti. Malgrado le apparenze esse non sono altro che delle irrealtà. Il vero atto che procura merito è pieno di sapienza pura, è perfetto e misterioso, la sua vera natura è fuori dalla portata dell’umano intelletto. Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso"
Allora l’imperatore Wu chiese a Bodhidharma: "Qual è il primo principio della santa dottrina?"
"È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!", rispose Bodhidharma.
"E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?".
"Non lo so, Maestà!" .

Il secondo aneddoto narra di un missionario cristiano che, vedendo un monaco cinese in preghiera, gli chiese:

– Chi stai pregando? – Nessuno, rispose il monaco.
– Per che cosa stai pregando?, precisò allora il missionario – Per nulla, rispose ancora il monaco.
E mentre il missionario se ne stava andando con visibile disappunto, il monaco aggiunse: – Comunque, guarda che non c’è nessuno che sta pregando.

In questo insegnamento, fondato sulla diretta esperienza personale, al di fuori di dogmatismi e di interpretazioni uf?ciali, il criterio di verifica che il Buddha indica a ciascuno, lo troviamo in quella sorta di manifesto del “libero esame” e dell’antidogmatismo presente nel Kalama Sutta:

Non andate dietro a quello che udite ripetere
né alla tradizione
né alle dicerie
né alle congetture
né ai dogmi
né ai ragionamenti artificiosi
né alla propensione per quanto è già familiare
né all’abilità apparente di un altro,
né a considerazioni del tipo: "il monaco è il nostro maestro".
Kalamas, quando voi stessi riconoscete: "Queste cose sono buone, non riprovevoli, in qualche maniera lodevoli, una volta intraprese e provate portano a benefici e alla pace", [allora] accettatele e dimorate in esse.

A commento di questo sutra vorrei ricordare il versetto del Vangelo di Giovanni che dice: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv., 8, 32). Rovesciando queste parole, potremmo dire: "Quel che vi fa liberi è la verità".

4. Potrebbe sembrare in qualche modo in contraddizione con quanto detto fin qui, l’enorme sviluppo di sofisticate filosofie che si è avuto col passsare dei secoli, in particolare con l’affermarsi di quella corrente tradizionalmente definita come Mahayana, cioè la grande via di universale liberazione, non più legata all’ascetismo monastico, ma aperta a tutti gli esseri senzienti, dotati tutti di quella luminosa e immacolata natura detta “natura di Buddha”. Nel buddhismo mahayana troviamo una forte accentuazione del carattere di Via di mezzo dell’insegnamento buddhista, in una visione dialettica sia della pratica religiosa che della dottrina. Soffermiamoci su questo concetto di Via di mezzo.
Nei sutra leggiamo che il giovane Siddharta nonostante si fosse sottoposto a pratiche ascetiche di estrema rigorosità,

non riusciva a raggiungere la meta prefissa. Dopo sei anni di vita nella foresta, rigettò ogni pratica ascetica. Si bagnò nel fiume ed accettò una ciotola di latte da Sujata, una serva che viveva nel vicino villaggio.

È questa l’indicazione della Via di mezzo nella condotta, un insegnamento che vuole mostrare che la mortificazione della carne non è meno dannosa della lussuria e che il desiderio stesso, dimensione fondamentale della vita, più che sradicato, vada piuttosto trasformato e utilizzato, secondo quanto diranno successivi interpreti del Dharma, come combustibile per l’illuminazione.
Trascendere le varie forme di dualismo (tra assoluto e relativo, tra soggetto e oggetto, tra nirvana e samsara…), significa affermare il Dharma non-duale, inteso non come medietà convenzionale, ma come medietà assoluta che elimina la nozione stessa di mezzo come opposto agli estremi. Poiché parole e intelletto discriminante appartengono al mondo dualistico (anzi possiamo dire che "generino" il mondo dualistico!), ne consegue che sono adatti ad esprimere le verità convenzionali e "penultime", ma non la Verità ultima. Occorre, per questo, mettere in gioco un’altra modalità funzionale della mente: l’intuizione, capace di andare oltre i limiti dell’intelletto discorsivo, concettualizzante e
dualistico, e adeguata a realizzare la rivelazione in noi di quella natura, profonda e inesprimibile, di cui consistiamo e in virtù della quale esistiamo.
Come sottolinea Suzuki,

l’idea fondamentale del buddhismo è di andare oltre il mondo degli opposti, un mondo costruito dalle distinzioni intelletuali e dalle passioni, e realizzare un mondo spirituale di non-distinzione, che implica il raggiungimento di un punto di vista assoluto. Tuttavia l’Assoluto non è in alcun modo distinto dal mondo della differenziazione, poiché pensarlo così significherebbe collocarlo all’opposto della mente discriminante e creare in tal modo una nuova
dualità. Quando parliamo di assoluto noi pensiamo che, essendo la negazione degli opposti, esso debba essere visto in opposizione alla mente discriminante. Ma pensare così significa abbassare l’assoluto al livello del mondo degli opposti, con la necessità di un più grande o elevato Assoluto che li contenga entrambi. In breve, l’Assoluto è nel mondo degli opposti e non separato da esso. Ciò è apparentemente contradditorio e non diviene mai comprensibile fintantoché rimaniamo in un mondo di opposti. Andare oltre questo mondo non aiuta e neppure stare in esso. Di qui il dilemma intelletuale al quale ci sforziamo invano di sfuggire, [poiché] tutto ciò che uno può comprendere della verità deve
venire dalla vita […] e non da un mero discorso sull’Assoluto […] Per esprimere il punto in modo più diretto e preciso, la distinzione è non-distinzione e la non-distinzione è distinzione. Questo non è la negazione dell’intelletto o l’arresto del ragionamento, ma il tentativo di coglierne il fondamento per mezzo della negazione-affermazione. È solo attraverso questo doppio processo che l’intelletto può trascendere se stesso, poiché senza questo trascendimento l’intelletto non può mai liberare se stesso dalle contraddizioni che intesse nel suo stesso seno.
[…] L’unione dei contrari, l’identità di distinzione e non-distinzione, è raggiunta per fede, che è esperienza personale, apertura dell’occhio della saggezza trascendentale, pensiero di ciò che non è pensabile. […]
Quando la discriminazione è non-discriminazione e tuttavia discriminazione, noi abbiamo la perfetta illuminazione. Ciò è quel che può essere chiamato coincidentia oppositorum .

Il buddhismo non è dunque una “religione del libro”, come, ad esempio, l’ebraismo o l’islam, né religione di un paese o di un popolo, come l’induismo o lo shintoismo, per cui, con incredibile capacità di assimilazione, si è potuto adattare a realtà culturali diverse, dando luogo a molte scuole e “veicoli”, che hanno fatto del buddhismo una religione aperta, capace di risposte appropriate a condizioni le più diverse. Col passaggio al mahayana, o grande veicolo di liberazione (grande perché aperto a tutti gli uomini e non solamente agli asceti e ai monaci), si assiste a qualcosa di paragonabile al passaggio dal Vecchio al Nuovo testamento della tradizione ebraico-cristiana e a una promozione a livello cosmico dei concetti dell’insegnamento del buddhismo fondamentale, operata attraverso una serie di radicali trasformazioni. La stessa concezione buddhologica ne risultò profondamente modificata: infatti, il Buddha non è più considerato un
semplice maestro umano, ma diviene essenza di tutta la realtà e coscienza dell’universo, per cui la sua non è vista soltanto come una illuminazione nel mondo, ma come la illuminazione stessa del mondo.
Anche l’ideale di perfezione non è più quello dell’asceta distaccato dal mondo, ma quello del bodhisattva, che vive nel mondo, al servizio degli altri.

Il bodhisattva — scrive Murti — fa della salvezza di tutti il proprio bene. Pur avendone ogni diritto egli rifugge dal ritirarsi nello stato finale del nirvana, preferendo per sua libera scelta di tribolare per un tempo indefinito anche per gli esseri che sono più in basso .

È la compassione che ora è al centro della pratica del bodhisattva, per cui tutto il cammino di purificazione spirituale subisce un profondo cambiamento di significato.
Quando, per il misterioso concorrere di cause esterne ed interne, l’individuo sente di non poter fare a meno di indirizzare tutte le sue energie verso il Buddha e il Buddha si volge verso l’individuo, si determina quel risveglio della mente-che-aspira-all’illuminazione (bodhicitta), che spinge a seguire la via del Buddha intraprendendo il necessario cammino di disciplina spirituale (bodhicittotpada) . È il momento della “conversione” o grande risoluzione, in cui il bodhisattva, sostenuto dalla fede nell’illuminazione, fa i grandi voti ed è pronto a iniziare il viaggio nella pratica delle paramita (o perfezioni o virtù).
Il bodhisattva non “rinuncia” quindi al nirvana ma si emancipa dal raggiungimento di un falso obiettivo, vivendo l’unico vero nirvana nel “ritorno” al mondo ordinario. Nel Sutra del loto il Buddha afferma che il nirvana (nella sua accezione di estinzione e assoluto) è stato da lui impiegato per salvare gli uomini accecati dall’ignoranza e dominati
dalla sete di esistenza:

per questa ragione ho escogitato un mezzo abile, proclamando la via che pone fine alla sofferenza e rivelandola mediante il nirvana. Benché io proclami il nirvana, questo non è vera estinzione. Tutte le cose, fin dal loro lontano inizio, sono sempre state di natura nirvanica .

Dal punto di vista della Via di mezzo, come commenta Nagarjuna,

il samsara è in nulla differente dal nirvana. Il nirvana è in nulla differente dal samsara. I confini del nirvana sono i confini del samsara. Tra i due non c’è la minima differenza .

La concezione del nirvana nella dottrina della Via di mezzo ponendosi come liberazione da ogni tipo di dualismo, compresi quelli di bene/male e piacere/dolore, tutti dualismi in ultima analisi fondati sul dualismo radicale io/non-io, comporta che la “liberazione” venga in sostanza a consistere nella liberazione dall’ego-centrismo, cioè dall’illusione dell’io separato e contrapposto al non-io. Secondo lo studioso giapponese Masao Abe,

il vero nirvana è raggiunto solo emancipando sé stessi anche dal nirvana come trascendenza dell’impermanenza. In altre parole, è realizzato mediante un completo ritorno dal nirvana al mondo dell’impermanenza, liberando sé stessi sia dalla impermanenza che dalla permanenza, sia dal cosiddetto samsara che dal cosiddetto nirvana Pertanto, il genuino
nirvana è proprio la realizzazione dell’impermanenza come impermanenza.
Se uno rimane nel nirvana trascendendo il samsara deve ancora esser detto egoistico poiché altezzosamente risiede nella propria “illuminazione”, separato dalle sofferenze degli altri esseri senzienti legati al samsara. La vera compassione può essere realizzata solo trascendendo il “nirvana” per ritornare e lavorare nel mezzo delle
sofferenze del mondo in perpetuo cambiamento .

Possiamo ora comprendere che, da questo punto di vista, l’illuminazione stessa non è qualcosa che si possa considerare un obiettivo esterno da raggiungere, dualisticamente di fronte a noi, poiché, come spiega il Vimalakirti Nirdesa Sutra tutti i Buddha e i grandi bodhisattva raggiunsero la loro meta proprio perché erano liberi dall’idea di conquistare la suprema illuminazione. Infatti, tutti gli obiettivi implicano un dualismo, una distinzione tra soggetto e oggetto
(l’obiettivo da raggiungere). Solo superando tutti i dualismi e, in particolare, quello tra soggetto e oggetto sarà pertanto possibile tornare alla purezza originaria della natura fondamentale, che “precede” la distinzione stessa tra ignoranza e illuminazione.
È interessante osservare come, essendoci per il bodhisattva una perfetta identità tra l’illuminazione propria e quella di tutti gli altri esseri senzienti, i quattro grandi voti vengano a essere una reinterpretazione, in chiave altruistica, delle quattro nobili verità.
Infatti (seguendo l’insegnamento della scuola Tendai), possiamo stabilire queste corrispondenze tra “verità” e “voti”:

I) verità della sofferenza: per quanto incalcolabili siano gli esseri [che non riescono a uscir fuori dal ?usso samsarico], faccio voto di salvarli; II) verità dell’origine della sofferenza:per quanto inesauribili siano le contaminazioni [di tutti coloro che non sono ancora liberi dalle illusioni], faccio voto di eliminarle; III) verità del sentiero: [poiché ci sono quelli che non sono ancora fermi nella pratica e pertanto vanno rassicurati], per quanto innumerevoli siano gli insegnamenti, faccio voto di padroneggiarli; IV) verità del nirvana: per quanto illimitata sia la via del Buddha [poiché ci sono quelli che non hanno ancora raggiunto il nirvana e mio compito è proprio condurli al nirvana], faccio voto di percorrerla.

Realizzando la vacuità di una illusoria illuminazione “separata” e trovando proprio in questa vacuità il fondamento della compassione, la missione del bodhisattva, puri?catore del mondo inquinato dall’ignoranza e dall’egoismo, è quella di prendere su di sé la sofferenza degli altri e puri?carla senza lasciarsene contaminare. Come dice Saicho, fondatore
(nell’anno 806) del Tendai giapponese:

Prendere il male su di sé e dare bene agli altri, dimenticare sé stessi e lavorare a beneficio degli altri, questo è l’obiettivo ultimo della compassione.

5. L’illuminazione non è cosa che possa conquistarsi con l’intelletto: l’insegnamento può indicare la via, ma l’esperienza ciascuno deve viverla in prima persona, farla passare attraverso il proprio corpo.
“Comprensione intuitiva della interiorità delle cose”, “apertura dell’occhio spirituale”, “visione profonda della propria realtà”, “consapevolezza della presenza nel mondo” sono espressioni che possono dare una qualche idea di cosa si intenda col termine illuminazione, cioè di quella

chiarificazione intellettuale [che], superando tutti i dilemmi, aiuta la mente a divenire calma e contenta, a essere in armoniosa relazione con il suo ambiente. Quando la chiarificazione raggiunge questo stadio è nota come illuminazione, che è pensare l’Impensabile, differenziare l’Indifferenziato e il sorgere dell’Assoluto nella coscienza. Questo è anche noto come stato senza paura (S. abhaya), che origina dal grande cuore compassionevole di Kwannon, Avalokitesvara .

L’illuminazione (descritta come graduale o improvvisa: graduale, come la luce del sole nascente che progressivamente rischiara un territorio; improvvisa come la subitanea accensione di una lampada che, d’un colpo, elimina il buio in un ambiente) è

una specie di catastrofe mentale che avviene d’un tratto, dopo un penoso e vano accatastare concetti e intellettualismo. La catasta ha raggiunto il limite, ora tutto l’edificio crolla, ma ecco che si dischiude un nuovo orizzonte. Quando la temperatura è arrivata ad un certo punto, l’acqua ad un tratto si gela, il liquido si trasforma in solido cessando
di scorrere. Il satori sopravviene di sorpresa quando sentite di aver esaurite tutte le risorse del vostro essere. Espresso in termini religiosi, esso è la rinascita; espresso in termini morali, è una valutazione diversa della relazione in cui si sta col mondo. Nel modo in cui questo ora si presenta, scompaiono gli aspetti negativi creati dal dualismo, da ciò che, secondo la terminologia buddhista, è l’illusione (maya) generata dal ragionamento e dall’errore.
[L’illuminazione] comporta il dispiegarsi davanti a noi di un mondo nuovo, prima non percepito a causa della confusione della nostra mente dualisticamente orientata. […]. Il mondo non è più quello di prima; […]
ora tutte le sue antitesi e tutte le sue contraddizioni risultano conciliate ed armonizzate in un tutto organico e coerente .

L’essenza della pratica religiosa buddhista consiste proprio nell’acquisizione di un nuovo punto di vista, in quella conversione grazie alla quale la vita ci si presenterà in modo più fresco, più profondo e più appagante. Ma questo è anche il massimo cataclisma spirituale che possa avvenire in una esistenza. Il compito non è facile; è una specie di
battesimo del fuoco e per ottenerlo occorre portarsi avanti attraverso tempeste, terremoti, franamenti di montagne e sgretolamenti di rocce .

Questo non è in contraddizione con l’affermazione dell’importanza del “ritorno” alla vita quotidiana, alla “realtà” del mondo di tutti i giorni: non è la realtà che cambia, ma il nostro punto di vista sulla realtà, con un salto paragonabile a quello di un cieco nato che improvvisamente acquisti la vista. Se l’Assoluto è Vacuità, quindi vuoto anche del vuoto, la stessa trascendenza è trascesa e il mondo ordinario ritrovato e redento. È la “meravigliosità” delle cose realizzata dal
Buddha, la rivelazione della Via di mezzo, del Dharma non-duale: dopo quella sorta di salto mortale che chiamiamo illuminazione, ogni cosa è assolutamente la stessa e assolutamente diversa. Secondo il famoso detto del maestro Ch’ing-yüan (660-740):

Prima che per trent’anni avessi studiato lo zen, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando giunsi a una conoscenza più profonda, vidi che le montagne non sono montagne e le acque non sono
acque. Ma ora che ho raggiunto la vera sostanza del conoscere, sono in pace. Poiché ora vedo le montagne ancora una volta come montagne e le acque come acque .

L’entità del cambiamento sarà proporzionale al bisogno e all’impegno, e, nelle sue realizzazioni più elevate, investirà l’esistenza nella sua totalità, promuovendo una dimensione di libertà mai avvertita prima, un completo affrancamento dalla paura, una vita più “fluida”, “fresca” e “senza sforzo” nella realizzazione delle proprie potenzialità. Con
elementare genuinità le parole di Pao-tz’u Wen-ch’in (Ý928 d. C.) esprimono questo modo di sentire:

Bevendo del tè, mangiando del riso,
passo il tempo come viene;
guardando giù verso il torrente, guardando su verso i monti,
come mi sento sereno e disteso!

Egualmente, i versi che accompagnano l’ultima di una serie di figure illustrative del percorso spirituale (ivi, p. 348):

Dovunque egli vada trova aria di casa;
come una gemma, egli spicca perfino nel fango,
come oro puro, risplende perfino nel fuoco;
lungo la via senza fine di nascita e morte egli va, sufficiente a sé stesso,
con qualunque cosa si trovi associato, egli si muove distaccato e a suo agio .

Trascendere, gettare via la mente dualista e discriminante, superare affermazione e negazione, intelligenza e cultura, soggetto e oggetto, immergersi nel buio, morire a sé stessi per rinascere; un gesto solo e tutto è trasceso, come quando si taglia una matassa di filo: un taglio solo e risulta tutta tagliata.
Alla domanda di Joshu "Cosa è il Tao?" (cioè il principio e la realtà fondamentale, la verità suprema e la via ultima), il Maestro Nansen rispose: "La mente comune è il Tao", cioè la mente quotidiana nella sua immediatezza non-discriminante. Potremmo domandarci: "Se è così, perché abbiamo bisogno che i santi e i saggi ci guidino e ci salvino?" Dice il Maestro Shibayama:

Questo significa che per raggiungere la nostra vera mente comune dobbiamo trascendere la mente comune, e che per trascendere veramente la nostra mente comune e dualista serve una ricerca sincera e una disciplina faticosa. Quando avremo oltrepassato la barriera oltre la quale la nostra mente comune è tutt’altro che una mente comune, potremo
tornare per la prima volta alla nostra vera mente comune originale, quella che ci mostra Nansen. "Il Tao è qui vicino, ma gli uomini lo cercano lontano", disse un vecchio saggio. È detto anche: "Il Tao non ci è mai lontano, nemmeno per un attimo. Se lo fosse non sarebbe il Tao" .

6. Concludendo, vorrei fare ancora un richiamo alla pratica, ricordando l’aneddoto in cui si racconta come il poeta cinese Po Chu-i (772-846, periodo della dinastia T’ang) rivolgesse al maestro Zen Niao-k’e quella stessa domanda, che costituisce il titolo di questo scritto, e cioè come definire l’essenza dell’insegnamento del Buddha. Niao-k’e rispose citando un versetto del Dhammapada:

non fare il male, compiere il bene, purificare la mente (Dhp., 183).

Al che il poeta, un po’ deluso: "Anche un bambino di tre anni può comprendere questo insegnamento". E il maestro di rimando: "Questo può essere compreso anche da un bambino di tre anni, ma metterlo in pratica è difficile anche per un uomo di ottanta".
In altri termini, non è necessario per la nostra personale liberazione ottenere complicate risposte che possono perfino produrre l’effetto di allontanamento da ciò che dobbiamo effettivamente mettere in pratica; il risveglio non va rimandato domani, indugiando in una sorta di pigrizia attendista, prigioniera dei nostri condizionamenti. Voglio ricordare, a questo proposito, un’iscrizione che ho letto, nel tempio Daisen-in di Kyoto, in cui era detto tra l’altro:

Sono vivo – sono questo momento;
il mio futuro è qui e ora,
perché se non sono in grado di reggere l’oggi
quando e dove potrà mai essermi possibile?

Riccardo Venturini
da (con modifiche) La critica sociologica, 1994-95, n. 111-112

 

Da: http://groups.google.it/group/free.it.religioni.buddhismo/browse_frm/thread/
b1b8d74eccbe7354/507898b2ebfa8188?hl=it#507898b2ebfa8188


 

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