"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
1. Esplicita o implicita, una domanda è
certamente presente alla mente di molti: "Cosa è il Buddhismo?" Un primo modo di
rispondere a questa domanda potrebbe essere: il buddhismo (analogamente a quanto
può dirsi di molte dottrine religiose o filosofiche, cristianesimo compreso), è
rappresentato 1) dalle interpretazioni che, nel corso della storia, ha avuto
l’insegnamento di Buddha Shakyamuni; 2) dalle forme di vita religiosa che a
queste si riferiscono. Perché in effetti — considerando una storia di ben 2500
anni — dobbiamo riconoscere di essere in presenza di una incredibile
molteplicità di insegnamenti, di espressioni devozionali, di elaborazioni
filosofiche, di fenomeni di inculturazione in paesi e tempi diversi, che
caratterizzano questa tradizione sapienziale, costituendone l’indiscutibile
fascino e la profonda ricchezza e, a un tempo, anche il motivo della complessità
e dell’arduità del suo studio.
Proprio quest’ampia capacità di diffusione ha fatto del buddhismo una delle
grandi religioni viventi dell’umanità, presente oggi anche nel mondo occidentale
e nel nostro Paese, al centro di un interesse che sarebbe superficiale
considerare a livello di una moda, sostenuta dall’attrazione per un messaggio
esotico, capace di soddisfare solo un
desiderio di evasività o un indistinto bisogno di un Dio alternativo. Se questo
poteva avere qualche aspetto di verità nei decenni trascorsi, oggi sembra
potersi affermare che il bisogno di conoscenza della tradizione buddhista abbia
una ben diversa giustificazione e si situi a un ben altro livello. Siamo infatti
di fronte: 1) all’esigenza di una più profonda riflessione sui confini e sui
connotati della spiritualità, 2) ai problemi e alle speranze del dialogo
interreligioso e, infine, 3) alla ricerca, nei più diversi sistemi di pensiero
dell’umanità, di elementi utili per una nuova sintesi culturale che il millennio
appena iniziato ha il dovere di tentare. Nel tramonto degli orizzonti di senso
eurocentrici e nella crisi delle ideologie, tra i fragili valori della cultura
postmoderna e le minacce dei vecchi totalitaritarismi non completamente
sconfitti e quelle dei nuovi virulenti integralismi, il buddhismo, con i suoi
strumenti di interpretazione della realtà e della storia, e con l’indicazione di
una saggezza da incarnare nel quotidiano e di una compassione da praticare verso
tutti gli esseri senzienti, sembra infatti in grado di rispondere ad attese
autentiche, ben al di là delle pur presenti ingenue manifestazioni di un
superficiale turismo spirituale.
Il buddhismo, com’è noto, sorge in India nel VI sec. a. C., in quel fervido
periodo a cui Karl Jaspers ha dato il nome di “periodo assiale” della storia
mondiale, situato intorno al 500 a. C.
In questo periodo — scive Jaspers — si
concentrano i fatti più starordinari. In Cina vissero Confucio e Lao-tse,
sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mo-ti, Chuang-tse,
Lieh-tsu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upanishad, visse Buddha e,
come in Cina, si esplorarono tutte le possibiltà filosofiche fino allo
scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran
Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In
Palestina fecero la loro apparizione i profete, da Elia a Isaia e Geremia, fino
a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone,
i poeti tragici, Tucidite e Archimede.
Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi
contemporaneamente in Cina, in India e nell’Occidente, senza che alcuna di
queste regioni sapesse delle altre.
La novità di quest’epoca è che in tutti e tre i mondi l’uomo prende coscienza
dell’Essere nella sua interezza [Umgreifende, ulteriorità onnicomprensiva], di
sé stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la
propria impotenza. Pone domande radicali.
In altri termini, nel periodo assiale,
sembra che l’umanità abbia fatto un incredibile salto nell’approfondimento della
conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale dell’essere-umano a
cui, sempre secondo Jaspers, " si può dare il nome di spiritualizzazione".
Vennero infatti formulate le categorie fondamentali
secondo cui pensiamo ancor oggi e poste
le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli uomini. In ogni
senso fu compito il passo nell’universale.
Gli insegnamenti dei maestri di questo
periodo, proprio per avere in comune il fatto di essersi poste come riflessione
critica e ricerca di saggezza, e di aver costruito scuole di tolleranza nella
negazione di dogmatismi, ritualismi ed esteriorità, costituiscono ancor oggi
imprescindibili riferimenti spirituali.
Dall’India, il buddhismo ha presto conquistato una immensa area di diffusione
(possiamo ormai dire in tutto il mondo), ovunque portando il suo messaggio di
tolleranza, di rispetto della vita e della natura, di gentilezza e di eleganza,
che ne hanno fatto per eccellenza la religione dell’attenzione e del dialogo:
non si ricordano, infatti, né guerre né
sacrifici di esseri viventi condotti nel nome di Buddha né persecuzioni o
conversioni forzate. La diffusione del buddhismo si è sempre basata non sulla
presenza di uno spirito missionario invadente e organizzato,
ma sulla segreta attrattiva dei suoi ideali di silenzio e di pace interiore, di
capacità di gestione della sofferenza, di pazienza e di tolleranza nei rapporti
tra le persone e tra i popoli.
Non legato a particolari etnie o culture il Dharma di Buddha trascende il tempo
e lo spazio, e sembra oggi capace di rispondere a molte esigenze dell’Occidente
contemporaneo, facendo cadere quel pregiudizio che lo voleva estraneo e
impraticabile alla mente occidentale. Vorrei ricordare quel che anni fa Erich
Fromm scriveva su una possibile
religione del futuro:
Per coloro che vedono nelle religioni
monoteistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano, non è
troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilupperà entro pochi
secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più
importante carattere di questa religione sarebbe quello universalistico che
corrisponderebbe all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso
racchiuderebbe gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni
dell’Oriente e dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le
conoscenze razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla
pratica di vita piuttosto che su credenze
dottrinarie. Una simile religione creerebbe nuovi rituali e nuove forme
artistiche di espressione tali da produrre uno spirito di riverenza per la vita
e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata,
essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio come ne
sono apparsi nei secoli precedenti quando i
tempi erano maturi. Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimere
la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di
giustizia, e rimanendo in attesa.
Queste parole (e potrebbero citarsene
altre di Einstein o di Toynbee) sembrano appunto perfettamente attagliarsi alla
dottrina buddhista, almeno per tre punti, sui quali possono essere utili alcune
riflessioni.
Il primo è rappresentato dall’assenza di un sistema dogmatico, difficilmente
armonizzabile con la cultura occidentale, assenza che può invece consentire ai
cosiddetti laici di ritrovare la possibilità di una vita religiosa.
Il secondo è l’importanza della pratica: una adesione al buddhismo, non può
essere un’adesione soltanto teorica, paragonabile all’iscrizione a un club o,
tantomeno, rappresentare l’equivalente del prendere la tessera di un partito. Un
— come si dice — “prendere rifugio” nel triplice gioiello della Legge (che
governa la totalità del mondo), nel
Buddha (che questo Dharma ha interpretato, esposto e realizzato con la sua vita)
e nella comunità (di coloro che seguono la dottrina del Buddha), un prendere
rifugio che non fosse accompagnato dalla retta pratica sarebbe un fatto soltanto
illusorio. Il buddhismo, come dottrina di vita, non può ammettere divario tra
teoria e prassi, per cui si
configura come un modo di vivere, una via di trasformazione interiore in cui
l’importanza non è nell’ortodossia, ma nell’ortoprassi.
Infine, il buddhismo sembra poter offrire un fondamento, che può essere
largamente condiviso, alle condotte di solidarietà autorealizzativa, da vivere
nella pratica della non-violenza, della benevolenza e della compassione, della
gentilezza e del rispetto reciproci.
2. Tra i pregiudizi che più hanno
ostacolato una corretta interpretazione del buddhismo da parte dell’Occidente,
ve ne sono due sui quali vorrei soffermarmi: il primo è quello che vede il
buddhismo come dottrina pessimistica, in quanto in esso viene sottolineata la
dimensione di sofferenza propria della vita umana e animale; il secondo è
l’interpretazione del buddhismo come dottrina nihilistica per l’identificazione,
da esso operata, della Realtà ultima con ciò che è stato chiamato Vacuità o
Shunyata.
Come la tradizione ci tramanda, il giovane principe Siddharta, dopo un’infanzia
e un’adolescenza vissute negli agi della regale residenza paterna, “scoprì” il
mondo della malattia, della vecchiaia, della morte; ne fu profondamente turbato
e iniziò quel processo di trasformazione personale, che lo portò alla
formulazione del suo messaggio di liberazione. La prima delle cosiddette
"quattro nobili verità" di cui si sostanzia il suo insegnamento è, infatti, la
verità della sofferenza:
La nascita è dolore, la vecchiezza è
dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che è discaro
è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si
desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati che rappresentano la base
dell’attaccamento all’esistenza sono dolore .
Il Buddha, nel suo insegnamento, non come
filosofo si rivolge all’umanità, ma come medico, dispensatore di un prezioso
farmaco (il Dharma), capace di indicare all’uomo una via di uscita dalla
sofferenza.
Egli fonda un ordine che non è una chiesa, quanto, potremmo dire, un luogo di
cura, una sorta di “sanatorio” per uomini e donne che aspirano alla liberazione
spirituale. Vorrei, a questo proposito, ricordare che una delle forme in cui il
Buddha è venerato in Estremo Oriente è proprio quella di Maestro della medicina
e famosa è la statua dello Yakushi
Nyorai (Buddha della medicina) del tempio Yakushiji a Nara, in Giappone.
Il Buddha, infatti, richiama l’attenzione sulla centralità della sofferenza non
per fondare una filosofia pessimistica, ma per offrire un insegnamento che sia
un messaggio di liberazione e di speranza per gli uomini, ai quali viene
proposto un cammino di autoredenzione.
Se il punto di partenza del percorso spirituale del giovane principe Siddharta
fu rappresentato dalla presa di coscienza della sofferenza, il punto di partenza
del suo insegnamento come Buddha fu costituito dal richiamo all’esperienza
diretta, non irretita da problemi metafisici che non possono avere soluzione.
Consapevole del carattere interminabile del conflitto delle speculazioni, il
Buddha lo supera portandosi, potremmo dire in termini kantiani, dal livello
della metafisica a quello della critica, presentandosi pertanto il buddhismo non
come una critica del reale, ma come una critica delle visioni del reale (del
dogmatismo realista e di quello idealista, di quello eternalista e di quello
nihilista, etc.). Gli “inesprimibili”, elencati in molte scritture buddhiste,
sono le domande che chiedono
se il mondo è eterno o non-eterno o
entrambi o nessuno dei due; se il mondo è finito o infinito o entrambi o nessuno
dei due; se il Tathagata esiste dopo la morte o non esiste o entrambi o nessuno
dei due; se l’anima è identica al corpo o diversa da esso .
Su di essi il buddhismo rimane in
silenzio, avendo sempre presente la sua vocazione terapeutica e indicando una
pratica che ha tutto il carattere di urgenza di un intervento medico che non
consente indugi. La parabola della freccia avvelenata esprime bene questo
atteggiamento:
Se un uomo fosse colpito da una freccia
avvelenata, abbondantemente cosparsa di veleno, e i suoi amici e compagni,
parenti e congiunti chiamassero un medico chirurgo ed egli, tuttavia, dicesse:
"Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha
colpito; se un guerriero o un brahmana, se un mercante o un servo"; e dicesse
"Non voglio farmi estrarre questa freccia fino a quando non saprò chi mi ha
colpito, qual è il suo nome, qual è la sua gente"; e dicesse: "Non voglio farmi
estrarre questa freccia, fino a quando non saprò quale uomo mi ha colpito, se
alto, basso o di media statura" […] Certamente quest’uomo uomo non riuscirebbe a
sapere tutto ciò, prima di aver già finito il suo tempo.
Il silenzio del Buddha sulla Realtà
ultima non è dunque un silenzio agnostico o strumentale, ma — per usare un
termine della tradizione cristiana — un silenzio “apofatico”, aspetto essenziale
non solo dell’insegnamento, ma della stessa dottrina. L’inesprimibilità della
Verità ultima non ha, cioè, origine da un’insufficienza conoscitiva umana, ma è
un carattere costitutivo della verità. Solo una via apofatica, una via
“negativa”, può essere quindi proposta riguardo a
essa, una via che si ponga al di là di tutti i dualismi propri dell’intelletto
discorsivo e discriminante.
L’insegnamento supremo di tutti i Buddha è giocato continuamente nella
dialettica tra verità convenzionale (e mezzi didattici “provvisori”), da un
lato, e Verità ultima, inesprimibile, dall’altro. Leggiamo nel Sutra del loto:
Questo Dharma è inesprimibile, è al di là
del regno dei termini, […] non è cosa che possa essere compresa mediante il
ragionamento discorsivo e la discriminazione; solo i Buddha possono conoscerlo.
La Realtà ultima, essendo nel buddhismo
definita come Vacuità, risulta non oggettivabile, non concepibile, non
raggiungibile dalla coscienza ordinaria. Non si ripeterà mai abbastanza che con
Vacuità non si indica il nulla, ma la mancanza di esistenza intrinseca dei
fenomeni, ossia l’aspetto relazionale e interdipendente della realtà fenomenica.
Infatti, tutto ciò che consideriamo esistente vediamo che esiste in virtù di
altro, di cause e condizioni, per cui nulla è autosufficente ed esistente di per
sé, ma tutto è interconnesso. Passando a un piano esperenziale, se esaminiamo
con attenzione la nostra vita non possiamo non constatarne i caratteri di
transitorietà e interdipendenza:
nasciamo, veniamo allevati ed educati da altri, tutta la nostra esistenza è in
un incessante cambiamento e in un continuo scambio di sostanze, energia,
informazioni con l’ambiente, per cui non possiamo concepire salvezza o
liberazione che possa essere isolata dalla presenza, dall’azione e quindi dalla
salvezza degli altri. La prima
fondamentale illusione da cui liberarsi sarà dunque proprio quella di possedere
un io permanente, separato, autosufficente.
Lungi dunque dal sostenere posizioni nihilistiche, le varie forme di
insegnamento buddhista, che hanno dato origine alle differenti scuole e
tradizioni, si configurano come upaya (mezzi abili, mezzi didattici), mezzi
utili, ma provvisori, approntati abilmente dal Buddha per la liberazione degli
esseri non-illuminati. Una volta riconosciuta questa
qualità di mezzi, essi continuano ovviamente a essere usati, ma con l’attenzione
desta a non generare nuove forme di attaccamento e nuove illusioni. Lo stesso
buddhismo, in quanto sistema dottrinale, può essere considerato upaya, da cui
segue l’esortazione, diretta ai praticanti, a non attaccarsi neppure alle
pratiche religiose e agli insegnamenti, cosa
che conferisce al buddhismo un’identità sui generis e una forza critica
eccezionale nell’ambito della vita spirituale e nel confronto con le altre
tradizioni. Tra le due sponde, quella delle illusioni e della sofferenza e
quella del nirvana e della pace, la religione si offre come un indispensabile
traghetto, ma una volta attraversato il fiume non avrebbe molto senso continuare
a portare la zattera sulle spalle .
3. Questo particolare carattere del
buddhismo ha fatto da sempre porre l’interrogativo se esso debba essere
considerato una filosofia o una religione o una filosofia religiosa o una
religione atea e via discorrendo.
È stato detto, dal filosofo Whitehead, che il cristianesimo è una religione che
ha cercato una metafisica attraverso la quale interpretarsi, mentre il buddhismo
è una dottrina di vita che ha cercato di farsi religione per potersi esprimere.
Dobbiamo riconoscere che il buddhismo ha usato felicemente il veicolo religioso,
perché, anche se in esso possiamo trovare molti punti in comune, ad esempio, con
dottrine etiche dell’antichità classica, queste sono oggi soltanto capitoli di
storia della filosofia, mentre il buddhismo continua a essere una grande,
vivente realtà spirituale, in cui si riconoscono milioni di uomini. In verità,
per rispondere a questa domanda occorre interrogarci su quello che, parafrasando
Rolan Barthes, si potrebbe chiamare il “grado zero della religione”. Al suo
grado zero, il sentimento religioso sembra caratterizzarsi come domanda sul
senso ultimo della vita, accompagnata da un sentimento di insoddisfazione nei
confronti della realtà del mondo, ovvero dalla convinzione che quella del mondo
ordinario non sia l’unica realtà o, ancora, che il modo ordinario di guardare il
mondo non sia l’unico modo. Attraverso un diverso
atteggiamento e un diverso modo di guardare è infatti possibile intravvedere una
realtà altra, stabilire con essa una qualche forma di comunicazione e,
possibilmente, di comunione.
Come si esprime con grande semplicità un sociologo della religione, J. A.
Beckford,
sarà sufficiente definire la religione un
interesse per un sentimento di universalità o per il significato ultimo delle
cose ,
significato che viene trovato quando si
chiama in campo l’infinito e si comunica con una realtà assoluta, dotata di
caratteri diversi dai caratteri della realtà fenomenica e finita.
Senza voler troppo insistere su questo punto, potrei ricordare due aneddoti che
possono aiutare a comprendere la particolare modalità del buddhismo di essere
religione.
Il primo si riferisce alla conversazione di Bodhidharma, primo patriarca dello
zen, con l’imperatore cinese:
L’imperatore Wu di Liang chiese a
Bodhidharma: "Dall’inizio del mio regno ho fatto costruire molti templi, ho
fatto trascrivere tanti libri sacri, ho aiutato numerosi monaci; quale pensi che
sia il mio merito?"
"Proprio nessun merito, Maestà!", rispose seccamente Bodhidharma.
"Perché?", chiese, stupito, l’imperatore.
"Tutte queste opere sono d’un ordine inferiore", rispose in modo significativo
Bodhidharma, "le quali possono far sì che il loro autore rinasca nei cieli o
sulla terra. Esse però recano ancora le tracce del mondo, sono come le ombre che
accompagnano gli oggetti. Malgrado le apparenze esse non sono altro che delle
irrealtà. Il vero atto che procura merito è pieno di sapienza pura, è perfetto e
misterioso, la sua vera natura è fuori dalla portata dell’umano intelletto.
Essendo tale, nessuna opera di questo mondo può condurre ad esso"
Allora l’imperatore Wu chiese a Bodhidharma: "Qual è il primo principio della
santa dottrina?"
"È il vasto vuoto, Maestà, e nulla vi è in esso che sia da chiamarsi santo!",
rispose Bodhidharma.
"E allora chi è colui che ora mi sta dinanzi?".
"Non lo so, Maestà!" .
Il secondo aneddoto narra di un
missionario cristiano che, vedendo un monaco cinese in preghiera, gli chiese:
– Chi stai pregando? – Nessuno, rispose
il monaco.
– Per che cosa stai pregando?, precisò allora il missionario – Per nulla,
rispose ancora il monaco.
E mentre il missionario se ne stava andando con visibile disappunto, il monaco
aggiunse: – Comunque, guarda che non c’è nessuno che sta pregando.
In questo insegnamento, fondato sulla
diretta esperienza personale, al di fuori di dogmatismi e di interpretazioni uf?ciali,
il criterio di verifica che il Buddha indica a ciascuno, lo troviamo in quella
sorta di manifesto del “libero esame” e dell’antidogmatismo presente nel Kalama
Sutta:
Non andate dietro a quello che udite
ripetere
né alla tradizione
né alle dicerie
né alle congetture
né ai dogmi
né ai ragionamenti artificiosi
né alla propensione per quanto è già familiare
né all’abilità apparente di un altro,
né a considerazioni del tipo: "il monaco è il nostro maestro".
Kalamas, quando voi stessi riconoscete: "Queste cose sono buone, non
riprovevoli, in qualche maniera lodevoli, una volta intraprese e provate portano
a benefici e alla pace", [allora] accettatele e dimorate in esse.
A commento di questo sutra vorrei
ricordare il versetto del Vangelo di Giovanni che dice: "Conoscerete la verità e
la verità vi farà liberi" (Gv., 8, 32). Rovesciando queste parole, potremmo
dire: "Quel che vi fa liberi è la verità".
4. Potrebbe sembrare in qualche modo in
contraddizione con quanto detto fin qui, l’enorme sviluppo di sofisticate
filosofie che si è avuto col passsare dei secoli, in particolare con
l’affermarsi di quella corrente tradizionalmente definita come Mahayana, cioè la
grande via di universale liberazione, non più legata all’ascetismo monastico, ma
aperta a tutti gli esseri senzienti, dotati tutti di quella luminosa e
immacolata natura detta “natura di Buddha”. Nel buddhismo mahayana troviamo una
forte accentuazione del carattere di Via di mezzo dell’insegnamento buddhista,
in una visione dialettica sia della pratica religiosa che della dottrina.
Soffermiamoci su questo concetto di Via di mezzo.
Nei sutra leggiamo che il giovane Siddharta nonostante si fosse sottoposto a
pratiche ascetiche di estrema rigorosità,
non riusciva a raggiungere la meta
prefissa. Dopo sei anni di vita nella foresta, rigettò ogni pratica ascetica. Si
bagnò nel fiume ed accettò una ciotola di latte da Sujata, una serva che viveva
nel vicino villaggio.
È questa l’indicazione della Via di mezzo
nella condotta, un insegnamento che vuole mostrare che la mortificazione della
carne non è meno dannosa della lussuria e che il desiderio stesso, dimensione
fondamentale della vita, più che sradicato, vada piuttosto trasformato e
utilizzato, secondo quanto diranno successivi interpreti del Dharma, come
combustibile per l’illuminazione.
Trascendere le varie forme di dualismo (tra assoluto e relativo, tra soggetto e
oggetto, tra nirvana e samsara…), significa affermare il Dharma non-duale,
inteso non come medietà convenzionale, ma come medietà assoluta che elimina la
nozione stessa di mezzo come opposto agli estremi. Poiché parole e intelletto
discriminante appartengono al mondo dualistico (anzi possiamo dire che
"generino" il mondo dualistico!), ne consegue che sono adatti ad esprimere le
verità convenzionali e "penultime", ma non la Verità ultima. Occorre, per
questo, mettere in gioco un’altra modalità funzionale della mente: l’intuizione,
capace di andare oltre i limiti dell’intelletto discorsivo, concettualizzante e
dualistico, e adeguata a realizzare la rivelazione in noi di quella natura,
profonda e inesprimibile, di cui consistiamo e in virtù della quale esistiamo.
Come sottolinea Suzuki,
l’idea fondamentale del buddhismo è di
andare oltre il mondo degli opposti, un mondo costruito dalle distinzioni
intelletuali e dalle passioni, e realizzare un mondo spirituale di
non-distinzione, che implica il raggiungimento di un punto di vista assoluto.
Tuttavia l’Assoluto non è in alcun modo distinto dal mondo della
differenziazione, poiché pensarlo così significherebbe collocarlo all’opposto
della mente discriminante e creare in tal modo una nuova
dualità. Quando parliamo di assoluto noi pensiamo che, essendo la negazione
degli opposti, esso debba essere visto in opposizione alla mente discriminante.
Ma pensare così significa abbassare l’assoluto al livello del mondo degli
opposti, con la necessità di un più grande o elevato Assoluto che li contenga
entrambi. In breve, l’Assoluto è nel mondo degli opposti e non separato da esso.
Ciò è apparentemente contradditorio e non diviene mai comprensibile fintantoché
rimaniamo in un mondo di opposti. Andare oltre questo mondo non aiuta e neppure
stare in esso. Di qui il dilemma intelletuale al quale ci sforziamo invano di
sfuggire, [poiché] tutto ciò che uno può comprendere della verità deve
venire dalla vita […] e non da un mero discorso sull’Assoluto […] Per esprimere
il punto in modo più diretto e preciso, la distinzione è non-distinzione e la
non-distinzione è distinzione. Questo non è la negazione dell’intelletto o
l’arresto del ragionamento, ma il tentativo di coglierne il fondamento per mezzo
della negazione-affermazione. È solo attraverso questo doppio processo che
l’intelletto può trascendere se stesso, poiché senza questo trascendimento
l’intelletto non può mai liberare se stesso dalle contraddizioni che intesse nel
suo stesso seno.
[…] L’unione dei contrari, l’identità di distinzione e non-distinzione, è
raggiunta per fede, che è esperienza personale, apertura dell’occhio della
saggezza trascendentale, pensiero di ciò che non è pensabile. […]
Quando la discriminazione è non-discriminazione e tuttavia discriminazione, noi
abbiamo la perfetta illuminazione. Ciò è quel che può essere chiamato
coincidentia oppositorum .
Il buddhismo non è dunque una “religione
del libro”, come, ad esempio, l’ebraismo o l’islam, né religione di un paese o
di un popolo, come l’induismo o lo shintoismo, per cui, con incredibile capacità
di assimilazione, si è potuto adattare a realtà culturali diverse, dando luogo a
molte scuole e “veicoli”, che hanno fatto del buddhismo una religione aperta,
capace di risposte appropriate a condizioni le più diverse. Col passaggio al
mahayana, o grande veicolo di liberazione (grande perché aperto a tutti gli
uomini e non solamente agli asceti e ai monaci), si assiste a qualcosa di
paragonabile al passaggio dal Vecchio al Nuovo testamento della tradizione
ebraico-cristiana e a una promozione a livello cosmico dei concetti
dell’insegnamento del buddhismo fondamentale, operata attraverso una serie di
radicali trasformazioni. La stessa concezione buddhologica ne risultò
profondamente modificata: infatti, il Buddha non è più considerato un
semplice maestro umano, ma diviene essenza di tutta la realtà e coscienza
dell’universo, per cui la sua non è vista soltanto come una illuminazione nel
mondo, ma come la illuminazione stessa del mondo.
Anche l’ideale di perfezione non è più quello dell’asceta distaccato dal mondo,
ma quello del bodhisattva, che vive nel mondo, al servizio degli altri.
Il bodhisattva — scrive Murti — fa della
salvezza di tutti il proprio bene. Pur avendone ogni diritto egli rifugge dal
ritirarsi nello stato finale del nirvana, preferendo per sua libera scelta di
tribolare per un tempo indefinito anche per gli esseri che sono più in basso .
È la compassione che ora è al centro
della pratica del bodhisattva, per cui tutto il cammino di purificazione
spirituale subisce un profondo cambiamento di significato.
Quando, per il misterioso concorrere di cause esterne ed interne, l’individuo
sente di non poter fare a meno di indirizzare tutte le sue energie verso il
Buddha e il Buddha si volge verso l’individuo, si determina quel risveglio della
mente-che-aspira-all’illuminazione (bodhicitta), che spinge a seguire la via del
Buddha intraprendendo il necessario cammino di disciplina spirituale (bodhicittotpada)
. È il momento della “conversione” o grande risoluzione, in cui il bodhisattva,
sostenuto dalla fede nell’illuminazione, fa i grandi voti ed è pronto a iniziare
il viaggio nella pratica delle paramita (o perfezioni o virtù).
Il bodhisattva non “rinuncia” quindi al nirvana ma si emancipa dal
raggiungimento di un falso obiettivo, vivendo l’unico vero nirvana nel “ritorno”
al mondo ordinario. Nel Sutra del loto il Buddha afferma che il nirvana (nella
sua accezione di estinzione e assoluto) è stato da lui impiegato per salvare gli
uomini accecati dall’ignoranza e dominati
dalla sete di esistenza:
per questa ragione ho escogitato un mezzo
abile, proclamando la via che pone fine alla sofferenza e rivelandola mediante
il nirvana. Benché io proclami il nirvana, questo non è vera estinzione. Tutte
le cose, fin dal loro lontano inizio, sono sempre state di natura nirvanica .
Dal punto di vista della Via di mezzo,
come commenta Nagarjuna,
il samsara è in nulla differente dal
nirvana. Il nirvana è in nulla differente dal samsara. I confini del nirvana
sono i confini del samsara. Tra i due non c’è la minima differenza .
La concezione del nirvana nella dottrina
della Via di mezzo ponendosi come liberazione da ogni tipo di dualismo, compresi
quelli di bene/male e piacere/dolore, tutti dualismi in ultima analisi fondati
sul dualismo radicale io/non-io, comporta che la “liberazione” venga in sostanza
a consistere nella liberazione dall’ego-centrismo, cioè dall’illusione dell’io
separato e contrapposto al non-io. Secondo lo studioso giapponese Masao Abe,
il vero nirvana è raggiunto solo
emancipando sé stessi anche dal nirvana come trascendenza dell’impermanenza. In
altre parole, è realizzato mediante un completo ritorno dal nirvana al mondo
dell’impermanenza, liberando sé stessi sia dalla impermanenza che dalla
permanenza, sia dal cosiddetto samsara che dal cosiddetto nirvana Pertanto, il
genuino
nirvana è proprio la realizzazione dell’impermanenza come impermanenza.
Se uno rimane nel nirvana trascendendo il samsara deve ancora esser detto
egoistico poiché altezzosamente risiede nella propria “illuminazione”, separato
dalle sofferenze degli altri esseri senzienti legati al samsara. La vera
compassione può essere realizzata solo trascendendo il “nirvana” per ritornare e
lavorare nel mezzo delle
sofferenze del mondo in perpetuo cambiamento .
Possiamo ora comprendere che, da questo
punto di vista, l’illuminazione stessa non è qualcosa che si possa considerare
un obiettivo esterno da raggiungere, dualisticamente di fronte a noi, poiché,
come spiega il Vimalakirti Nirdesa Sutra tutti i Buddha e i grandi bodhisattva
raggiunsero la loro meta proprio perché erano liberi dall’idea di conquistare la
suprema illuminazione. Infatti, tutti gli obiettivi implicano un dualismo, una
distinzione tra soggetto e oggetto
(l’obiettivo da raggiungere). Solo superando tutti i dualismi e, in particolare,
quello tra soggetto e oggetto sarà pertanto possibile tornare alla purezza
originaria della natura fondamentale, che “precede” la distinzione stessa tra
ignoranza e illuminazione.
È interessante osservare come, essendoci per il bodhisattva una perfetta
identità tra l’illuminazione propria e quella di tutti gli altri esseri
senzienti, i quattro grandi voti vengano a essere una reinterpretazione, in
chiave altruistica, delle quattro nobili verità.
Infatti (seguendo l’insegnamento della scuola Tendai), possiamo stabilire queste
corrispondenze tra “verità” e “voti”:
I) verità della sofferenza: per quanto
incalcolabili siano gli esseri [che non riescono a uscir fuori dal ?usso
samsarico], faccio voto di salvarli; II) verità dell’origine della
sofferenza:per quanto inesauribili siano le contaminazioni [di tutti coloro che
non sono ancora liberi dalle illusioni], faccio voto di eliminarle; III) verità
del sentiero: [poiché ci sono quelli che non sono ancora fermi nella pratica e
pertanto vanno rassicurati], per quanto innumerevoli siano gli insegnamenti,
faccio voto di padroneggiarli; IV) verità del nirvana: per quanto illimitata sia
la via del Buddha [poiché ci sono quelli che non hanno ancora raggiunto il
nirvana e mio compito è proprio condurli al nirvana], faccio voto di
percorrerla.
Realizzando la vacuità di una illusoria
illuminazione “separata” e trovando proprio in questa vacuità il fondamento
della compassione, la missione del bodhisattva, puri?catore del mondo inquinato
dall’ignoranza e dall’egoismo, è quella di prendere su di sé la sofferenza degli
altri e puri?carla senza lasciarsene contaminare. Come dice Saicho, fondatore
(nell’anno 806) del Tendai giapponese:
Prendere il male su di sé e dare bene
agli altri, dimenticare sé stessi e lavorare a beneficio degli altri, questo è
l’obiettivo ultimo della compassione.
5. L’illuminazione non è cosa che possa
conquistarsi con l’intelletto: l’insegnamento può indicare la via, ma
l’esperienza ciascuno deve viverla in prima persona, farla passare attraverso il
proprio corpo.
“Comprensione intuitiva della interiorità delle cose”, “apertura dell’occhio
spirituale”, “visione profonda della propria realtà”, “consapevolezza della
presenza nel mondo” sono espressioni che possono dare una qualche idea di cosa
si intenda col termine illuminazione, cioè di quella
chiarificazione intellettuale [che],
superando tutti i dilemmi, aiuta la mente a divenire calma e contenta, a essere
in armoniosa relazione con il suo ambiente. Quando la chiarificazione raggiunge
questo stadio è nota come illuminazione, che è pensare l’Impensabile,
differenziare l’Indifferenziato e il sorgere dell’Assoluto nella coscienza.
Questo è anche noto come stato senza paura (S. abhaya), che origina dal grande
cuore compassionevole di Kwannon, Avalokitesvara .
L’illuminazione (descritta come graduale
o improvvisa: graduale, come la luce del sole nascente che progressivamente
rischiara un territorio; improvvisa come la subitanea accensione di una lampada
che, d’un colpo, elimina il buio in un ambiente) è
una specie di catastrofe mentale che
avviene d’un tratto, dopo un penoso e vano accatastare concetti e
intellettualismo. La catasta ha raggiunto il limite, ora tutto l’edificio
crolla, ma ecco che si dischiude un nuovo orizzonte. Quando la temperatura è
arrivata ad un certo punto, l’acqua ad un tratto si gela, il liquido si
trasforma in solido cessando
di scorrere. Il satori sopravviene di sorpresa quando sentite di aver esaurite
tutte le risorse del vostro essere. Espresso in termini religiosi, esso è la
rinascita; espresso in termini morali, è una valutazione diversa della relazione
in cui si sta col mondo. Nel modo in cui questo ora si presenta, scompaiono gli
aspetti negativi creati dal dualismo, da ciò che, secondo la terminologia
buddhista, è l’illusione (maya) generata dal ragionamento e dall’errore.
[L’illuminazione] comporta il dispiegarsi davanti a noi di un mondo nuovo, prima
non percepito a causa della confusione della nostra mente dualisticamente
orientata. […]. Il mondo non è più quello di prima; […]
ora tutte le sue antitesi e tutte le sue contraddizioni risultano conciliate ed
armonizzate in un tutto organico e coerente .
L’essenza della pratica religiosa
buddhista consiste proprio nell’acquisizione di un nuovo punto di vista, in
quella conversione grazie alla quale la vita ci si presenterà in modo più
fresco, più profondo e più appagante. Ma questo è anche il massimo cataclisma
spirituale che possa avvenire in una esistenza. Il compito non è facile; è una
specie di
battesimo del fuoco e per ottenerlo occorre portarsi avanti attraverso tempeste,
terremoti, franamenti di montagne e sgretolamenti di rocce .
Questo non è in contraddizione con
l’affermazione dell’importanza del “ritorno” alla vita quotidiana, alla “realtà”
del mondo di tutti i giorni: non è la realtà che cambia, ma il nostro punto di
vista sulla realtà, con un salto paragonabile a quello di un cieco nato che
improvvisamente acquisti la vista. Se l’Assoluto è Vacuità, quindi vuoto anche
del vuoto, la stessa trascendenza è trascesa e il mondo ordinario ritrovato e
redento. È la “meravigliosità” delle cose realizzata dal
Buddha, la rivelazione della Via di mezzo, del Dharma non-duale: dopo quella
sorta di salto mortale che chiamiamo illuminazione, ogni cosa è assolutamente la
stessa e assolutamente diversa. Secondo il famoso detto del maestro Ch’ing-yüan
(660-740):
Prima che per trent’anni avessi studiato
lo zen, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando giunsi a
una conoscenza più profonda, vidi che le montagne non sono montagne e le acque
non sono
acque. Ma ora che ho raggiunto la vera sostanza del conoscere, sono in pace.
Poiché ora vedo le montagne ancora una volta come montagne e le acque come acque
.
L’entità del cambiamento sarà
proporzionale al bisogno e all’impegno, e, nelle sue realizzazioni più elevate,
investirà l’esistenza nella sua totalità, promuovendo una dimensione di libertà
mai avvertita prima, un completo affrancamento dalla paura, una vita più
“fluida”, “fresca” e “senza sforzo” nella realizzazione delle proprie
potenzialità. Con
elementare genuinità le parole di Pao-tz’u Wen-ch’in (Ý928 d. C.) esprimono
questo modo di sentire:
Bevendo del tè, mangiando del riso,
passo il tempo come viene;
guardando giù verso il torrente, guardando su verso i monti,
come mi sento sereno e disteso!
Egualmente, i versi che accompagnano
l’ultima di una serie di figure illustrative del percorso spirituale (ivi, p.
348):
Dovunque egli vada trova aria di casa;
come una gemma, egli spicca perfino nel fango,
come oro puro, risplende perfino nel fuoco;
lungo la via senza fine di nascita e morte egli va, sufficiente a sé stesso,
con qualunque cosa si trovi associato, egli si muove distaccato e a suo agio .
Trascendere, gettare via la mente
dualista e discriminante, superare affermazione e negazione, intelligenza e
cultura, soggetto e oggetto, immergersi nel buio, morire a sé stessi per
rinascere; un gesto solo e tutto è trasceso, come quando si taglia una matassa
di filo: un taglio solo e risulta tutta tagliata.
Alla domanda di Joshu "Cosa è il Tao?" (cioè il principio e la realtà
fondamentale, la verità suprema e la via ultima), il Maestro Nansen rispose: "La
mente comune è il Tao", cioè la mente quotidiana nella sua immediatezza
non-discriminante. Potremmo domandarci: "Se è così, perché abbiamo bisogno che i
santi e i saggi ci guidino e ci salvino?" Dice il Maestro Shibayama:
Questo significa che per raggiungere la
nostra vera mente comune dobbiamo trascendere la mente comune, e che per
trascendere veramente la nostra mente comune e dualista serve una ricerca
sincera e una disciplina faticosa. Quando avremo oltrepassato la barriera oltre
la quale la nostra mente comune è tutt’altro che una mente comune, potremo
tornare per la prima volta alla nostra vera mente comune originale, quella che
ci mostra Nansen. "Il Tao è qui vicino, ma gli uomini lo cercano lontano", disse
un vecchio saggio. È detto anche: "Il Tao non ci è mai lontano, nemmeno per un
attimo. Se lo fosse non sarebbe il Tao" .
6. Concludendo, vorrei fare ancora un
richiamo alla pratica, ricordando l’aneddoto in cui si racconta come il poeta
cinese Po Chu-i (772-846, periodo della dinastia T’ang) rivolgesse al maestro
Zen Niao-k’e quella stessa domanda, che costituisce il titolo di questo scritto,
e cioè come definire l’essenza dell’insegnamento del Buddha. Niao-k’e rispose
citando un versetto del Dhammapada:
non fare il male, compiere il bene,
purificare la mente (Dhp., 183).
Al che il poeta, un po’ deluso: "Anche un
bambino di tre anni può comprendere questo insegnamento". E il maestro di
rimando: "Questo può essere compreso anche da un bambino di tre anni, ma
metterlo in pratica è difficile anche per un uomo di ottanta".
In altri termini, non è necessario per la nostra personale liberazione ottenere
complicate risposte che possono perfino produrre l’effetto di allontanamento da
ciò che dobbiamo effettivamente mettere in pratica; il risveglio non va
rimandato domani, indugiando in una sorta di pigrizia attendista, prigioniera
dei nostri condizionamenti. Voglio ricordare, a questo proposito, un’iscrizione
che ho letto, nel tempio Daisen-in di Kyoto, in cui era detto tra l’altro:
Sono vivo – sono questo momento;
il mio futuro è qui e ora,
perché se non sono in grado di reggere l’oggi
quando e dove potrà mai essermi possibile?
Riccardo Venturini
da (con modifiche) La critica sociologica, 1994-95, n. 111-112