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Vita e opere di Nagarjuna
(Douglas Berger)
Spesso citato come "il
secondo Buddha" dalle tradizioni asiatiche orientali del Buddismo
Tibetano e Mahayana (Grande Veicolo), il maestro Nagarjuna (c.150-250
d.C.) fece taglienti critiche alle filosofie Buddista e Brahmanica sul
loro sostanzialismo, la loro teoria della conoscenza, e gli approcci
alla pratica. La filosofia di Nagarjuna non solo rappresenta uno
spartiacque nella storia della filosofia Indiana, ma nell'insieme di
tutta la storia della filosofia, poiché affronta certi assunti
filosofici che ricorrono così facilmente nel nostro sforzo di
comprendere il mondo. Fra questi assunti vi sono l'esistenza di sostanze
permanenti, il movimento lineare e uni-direzionale della causalità,
l'individualità atomica delle persone, la credenza in un'identità fissa
o ‘sé’, le rigide separazioni tra la buona e la cattiva condotta e la
vita benedetta o condizionata. Tutti questi assunti sono stati
richiamati in una questione fondamentale dalla visione unica di
Nagarjuna che è radicata nella intuizione della vacuità (shunyata), un
concetto che non significa "non-esistenza" o "nichilismo" (abhava), ma
piuttosto la mancanza di una esistenza autonoma (nihsvabhava). Il
rifiuto dell'autonomia secondo Nagarjuna non ci lascia con un senso di
privazione metafisica o esistenziale, o la perdita di una qualche
speranza per l'indipendenza e la libertà, ma ci offre invece un senso di
liberazione attraverso il suo dimostrare l'interconnessionalità di tutte
le cose, inclusi gli esseri umani e i modi in cui la vita umana si
dispiega nei mondi naturali e sociali. Il concetto centrale di Nagarjuna,
della "vacuità (shunyata) di tutte le cose (dharma)", indirizzato
all’incessante cambiamento e quindi ad una natura di ogni fenomeno che
non è mai fissa, servì da puntello terminologico del successivo pensiero
filosofico Buddista come vessazione degli opposti sistemi Vedici. Il
concetto aveva fondamentali implicazioni per i modelli filosofici
Indiani della causalità, l’ontologia della sostanza, l’epistemologia, le
concettualizzazioni del linguaggio, etiche e teorie di salvezza e
liberazione del mondo, e si dimostrò seminale perfino per le filosofie
Buddiste in India, Tibet, Cina e Giappone, molto diverse da quelle
stesse di Nagarjuna. In realtà, non sarebbe esagerato dire che
l’innovativo concetto di vacuità di Nagarjuna, sebbene fosse
ermeneuticamente appropriato in molti diversi modi per i successivi
filosofi sia nell’Asia del Sud che dell’Est, fu capace di influenzare
profondamente il carattere del pensiero Buddista.
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Indice- Tavola dei
contenuti
1. Vita, Leggenda ed Opere di Nagarjuna
2. il Metodo Scettico di Nagarjuna ed i suoi Obiettivi
3. Contro il Sostanzialismo Mondano ed Ultimo
4. Contro le Prove
5. Il Nuovo Spazio Buddista e la Missione
6. Riferimenti ed altre Letture
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1. Vita, Leggenda ed
Opere di Nagarjuna
Ben poco si conosce della vera vita del Nagarjuna storico. Le due più
estese biografie di Nagarjuna, una Cinese e l'altra Tibetana, furono
scritte molti secoli dopo la sua vita e contengono molto vivido ma
storicamente inattendibile materiale, che talora raggiunge proporzioni
mitiche. Tuttavia, da alcuni dettagli storici e leggende di natura
pedagogica, ragionevolmente combinate coi testi a lui attribuiti, si può
avere un senso del suo posto nelle tradizioni filosofiche
Indiano-Buddiste.
Nagarjuna nacque "Indù", che al suo tempo connotava la fedeltà religiosa
ai Veda, probabilmente in una famiglia di Brahmini di casta superiore e
probabilmente nella regione Andhra del Sud dell'India. Le date della sua
vita sono alquanto ignote, ma due testi a lui attribuiti possono venirci
in aiuto. Questi sono in forma di epistole che furono indirizzate allo
storico Re Gautamiputra Satakarni (circa 166-196 d.C.) della dinastia
Satvahana settentrionale, il cui costante patronato verso i Brahmini, le
continue battaglie contro i potenti governanti Shaka Satrapi del Nord ed
i cui ambiziosi tentativi per l’espansione anche se alla fine senza
successo, sembrano indicare che lui non potè riuscire a seguire il
consiglio di Nagarjuna di adottare il pacifismo Buddista e mantenere un
reame pacifico. In ogni caso, la corrispondenza imperiale metterebbe i
significativi anni della vita di Nagarjuna all’incirca tra il 150 e il
200 d.C. Di base, poi, fonti Tibetane sono ben accurate nel riportare
che, per studiare il Buddismo, Nagarjuna emigrò da Andhra a Nalanda,
nell’attuale Bihar, il luogo in cui in seguito sorse il più grande
monastero Buddista nella storia dell’insegnamento scolastico di quella
tradizione in India. Questa emigrazione al nord forse seguì lo stesso
percorso dei reali Shaka. Nell’intellettuale e vibrante vita di un non
molto tranquillo nord dell'India, poi Nagarjuna diventò proprio un
filosofo.
L'occasione per la "conversione" di Nagarjuna al Buddismo è incerta.
Secondo i resoconti tibetani, era stato predetto che Nagarjuna sarebbe
morto in giovanissima età, così i suoi genitori decisero di farlo
deviare da questo terribile fato facendolo entrare nell'ordine Buddista,
dopodichè il giovane migliorò rapidamente la sua salute. Egli poi si
diresse al nord e lì cominciò la sua tutela. Un’altra più colorita
leggenda cinese lo dipinge come un diabolico giovane adolescente che usa
la magìa dei poteri yogici per sgusciare, con alcuni amici, nell’harem
del re e sedurre le sue mogli. Quando essi furono scoperti, Nagarjuna fu
in grado di scappare, ma i suoi amici furono tutti presi e messi a morte
e, realizzando che la ricerca di voler esaudire i desideri era alquanto
precario, Nagarjuna abbandonò il mondo e si ritirò per cercare
l’illuminazione. Dopo che si fu convertito, l'abilità di Nagarjuna nella
magia e nella meditazione gli fece ottenere un invito nel regno del Re
dei Naga (serpenti), nel fondo dell'oceano. E mentre si trovava là, il
prodigioso iniziato "scoprì i sutra della saggezza" della tradizione
Buddista, noti come ‘Prajnaparamita-Sutra’ e grazie al suo grande
merito, li riportò su nel mondo, e da allora in poi fu conosciuto con il
nome ‘Nagarjuna’, il "serpente nobile".
Malgrado l'insistenza della tradizione e l’immersione nei testi
scritturali dei competenti movimenti dei classici Theravada e
dell’emergente "Grande Veicolo" (Mahayana), fu il Buddismo quello che
stimolò gli scritti di Nagarjuna, e vi sono rari ma ampi riferimenti ai
primitivi classici e voluminosi sutra del Buddismo ed ai testi del
Mahayana, che allora erano stati composti nella lingua scelta proprio
dallo stesso Nagarjuna, il Sanskrito. È molto più probabile che
Nagarjuna si sforzasse sui nuovi ed eccitanti dibattiti filosofici
scolastici, che si stavano espandendo in tutto il nord dell’India e tra
pensatori sia Brahminici che Buddisti. In quel tempo, il Buddismo aveva
forse la più antica e competente visione sistematica del mondo che vi
fosse in giro, ma già allora le scuole Vediche come il Samkhya, che
divideva il cosmo in entità spirituali e materiali, lo Yoga, la
disciplina di meditazione e il Vaisesika, o atomismo, erano
probabilmente molto ben stabilite. Ma nuove ed eccitanti cose stavano
accadendo nelle sale di dibattiti. Proprio allora una nuova scuola
Vedica di Logica (Nyaya) stava facendo il suo esordio letterario,
proponendo un elaborato realismo che categorizzava i tipi fondamentali
delle cose conoscibili nel mondo, e formulò una teoria della conoscenza
che doveva servire come base per tutte le pretese alla verità,
sfoderando quindi una prorompente teoria di argomentazione logica
corretta e fallace. Lontano da essa, all'interno del campo Buddista,
emersero sètte di metafisici con le loro proprie dottrine di atomismo e
fondamentali categorie di sostanza. Nagarjuna quindi si caricò di un
forte interesse per questi nuovi movimenti Brahminici e Buddisti, uno
sforzo intellettuale inaudito fino ad allora.
Nagarjuna vide nel concetto di ‘shunya’, un concetto che nella primitiva
letteratura Buddista del Pali connotava la mancanza di una stabile ed
inerente esistenza nelle persone, ma che fino al terzo secolo a.C. aveva
anche denotato il recentemente formulato numero "zero", la chiave
interpretativa al cuore dell'insegnamento Buddista, e la rovina di tutte
le scuole metafisiche di filosofia che a quel tempo gli erano fiorite
intorno. In realtà, la filosofia di Nagarjuna può essere ben vista come
un tentativo di distruggere tutti i sistemi di pensiero che analizzavano
il mondo in termini di sostanze ed essenze fisse. Le cose, in effetti,
sono prive di essenza, secondo Nagarjuna, ed esse non hanno natura
fissa, e infatti è solo a causa di questa mancanza di essenziale e
immutabile ‘essere’ che il cambiamento è possibile, che una cosa può
trasformarsi in un altra. Ciascuna cosa può avere la sua esistenza solo
tramite la sua mancanza di inerente ed eterna essenza (shunyata). Con
questo nuovo concetto di "vuoto o vacuità", "mancanza di essenza" "zerità-assoluta",
questo prodigio alquanto improbabile fu in grado di aiutare per sempre
il vocabolario e il carattere del pensiero Buddista.
Munito con la nozione di "vacuità" di tutte le cose, Nagarjuna costruì
il suo ‘corpus’ letterario. Mentre l’argomento persiste ancora su quei
testi che portando il suo nome possono essere affidabilmente attributi a
Nagarjuna, un accordo generale sembra esser stato raggiunto nella
letteratura scolastica. Poichè non è noto in quale ordine cronologico i
suoi scritti furono prodotti, la cosa migliore che può essere fatta è di
sistemarli in maniera tematica, in accordo alle opere principali della
letteratura Buddista, di quella Brahminica, e infine dell’etica.
Indirizzandosi alle scuole Buddiste che considerava metafisicamente
ostinate, Nagarjuna scrisse il Mulamadhyamakakarika (Versi Fondamentali
sulla Via di Mezzo), e poi, al fine di rifinire ulteriormente il suo
rivoluzionario concetto recentemente coniato, il Sunyatasaptati
(Settanta Versi sul Vuoto), seguito da un trattato sul metodo filosofico
Buddista, il Yuktisastika (Sessanta Versi sul Ragionamento). Nelle opere
indirizzate ai Buddisti, può esservi stato incluso un ulteriore trattato
sul condiviso mondo empirico e la sua organizzazione sociale, vale a
dire il Vyavaharasiddhi (Prova di Convenzione), che salvo per pochi
versi citati, è andato perso, come pure un testo di istruzione sulla
pratica, citato da un commentatore Indiano e da diversi Cinesi, il
Bodhisambaraka (Preparazione all’Illuminazione). Infine, vi è un lavoro
didattico sulla teoria causale del Buddismo, il Pratityasamutpadahrdaya
(Il Cuore dell’Originazione Dipendente). In seguito venne una serie di
opere sul metodo filosofico, che maggiormennte erano critiche di
reazione alle categorie sostanzialiste ed epistemologiche del Brahman,
il Vigrahavyavartani (Il Fine delle Dispute) ed il testo dal titolo
non-troppo-sottile Vaidalyaprakarana (Eliminare le Categorie). Infine,
vi sono pure un paio di trattati etico-religiosi indirizzati al re
Gautamiputra, dal titolo Suhrlekha (Versi per un Amico) ed il Ratnavali
(La Preziosa Ghirlanda). Nagarjuna fu poi giustamente un autore attivo,
che indirizzò le più pressanti critiche filosofiche al Buddismo ed al
Brahmanesimo del suo tempo, ed ancor più, portando le sue idee della
filosofia Buddista nei campi sociale, etico e politico. Non è ancora
precisamente noto quanto tempo Nagarjuna visse. Ma la storia leggendaria
della sua morte ancora una volta è un tributo per il suo status nella
tradizione Buddista. Biografie Tibetane ci raccontano che, quando il
successore di Gautamiputra fu in procinto di salire al trono, egli era
ansioso di trovare un sostituto come consigliere spirituale per seguire
meglio le sue preferenze Brahmaniche, e incerto di come delicatamente o
diplomaticamente comportarsi verso Nagarjuna, egli direttamente chiese
al saggio di accomodarsi e mostrare compassione per la sua situazione
imbarazzante di commettere un suicidio. Nagarjuna assentì, e così fu
decapitato con un filo di erba sacra che egli stesso aveva tempo
addietro accidentalmente sradicato mentre cercava di farsi un cuscino
per la sua meditazione. L’indomabile filosofo potè solo esser portato
via dalla sua stessa volontà e dalla sua stessa arma. Che sia vero o no,
di questo maestro del metodo scettico si dovrebbe proprio apprezzarne
l’ironia.
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2. Il
Metodo Scettico di Nagarjuna ed i suoi scopi
Al cuore di ciò che è chiamato
‘scetticismo’ vi è il dubbio, una sospensione di giudizio sulle
condizioni delle cose o sulla correttezza di alcune asserzioni. Ci sono
naturalmente molte cose, sia nel mondo e in ciò che le persone
dichiarano sul mondo di cui si può essere dubbiosi, si può accettarle,
rifiutarle, o esserne scettici. Ma oltre alle molte differenti cose di
cui può esservi il dubbio, ci sono anche diversi modi di dubitare. Il
dubbio può essere casuale, come quando di notte una persona ne vede
un’altra ed è incerta se quell’altra persona sia un amico; può essere di
principio, come quando uno scienziato rifiuta di tener conto di cause
non-materiali o divine in un processo fisico che sta investigando; poi
può essere sistematico, come quando un filosofo dubita di una
spiegazione convenzionale del mondo, perché è alla ricerca di una
spiegazione di esperienza più fondamentale, onni-inclusiva, tipo
Socrate, Descartes o Husserl (Nagarjuna fu maggiormente uno scettico di
questo tipo). Esso può anche essere onni-inclusivo ed auto-riflettente,
un’attitudine dimostrata dal filosofo Greco Pyrrho, che dubitava di ogni
asserzione, incluse le sue stesse asserzioni a dubitare di tutte le
asserzioni. Di conseguenza, vi sono molti differenti tipi di
scetticismo, come pure possono esservi differenti tipi di modi di
dubitare. Nagarjuna fu considerato uno scettico nella sua stessa
tradizione filosofica, sia dai lettori Buddisti che dagli avversari
Brahmanici, e questo perché egli contestò l’essere assiomatici dei
categorici essenziali presupposti e criteri di prova, assunti da quasi
tutti nella tradizione Indiana. Ma, malgrado questo suo scetticismo,
Nagarjuna credeva che il dubbio non doveva essere casuale, esso
richiedeva un metodo. Quest’idea che il dubbio doveva essere metodico,
che era un idea nata nel primitivo Buddismo, fu un’innovazione
rivoluzionaria per la filosofia in India. Nagarjuna porta la novità di
questa idea perfino col suggerire che il metodo di scegliere il dubbio
non dovrebbe essere il suo, ma dovrebbe piuttosto essere temporaneamente
prelevato dalla stessa persona con cui si sta discutendo! Però, alla
fine, Nagarjuna fu convinto che quella disciplina, lo scetticismo
metodico, porti da qualche parte, porti cioè specificamente alla
saggezza ultima che stava al cuore degli insegnamenti del Buddha.
L'interpretazione filosofica standard del dubbio nel pensiero Indiano
era stata spiegata nella scuola di logica Vedica (Nyaya). Gautama
Aksapada, l'autore del testo fondamentale dei Logici Brahmanici fu
probabilmente un contemporaneo di Nagarjuna. Fu lui che formulò ciò che
allora doveva essere una tradizionale distinzione tra due tipi di
dubbio. Il primo tipo è il dubbio casuale su un oggetto che tutte le
persone sperimentano nella loro vita di ogni giorno, quando nel proprio
ambiente è incontrata una qualunque cosa e per varie ragioni la si
prende erroneamente per qualche altra cosa a causa dell'in-certezza di
ciò che l'oggetto precisamente è. Gli esempi usati nei testi indiani è
il vedere una corda e prenderla erroneamente per un serpente, o vedere
una conchiglia luccicante nella sabbia e prenderla erroneamente per
argento. Il dubbio che può sorgere come effetto del realizzare che uno
si sbaglia o è incerto su un particolare oggetto, può essere corretto da
una successiva cognizione, per esempio dando un’occhiata più da vicino
alla corda, o avere un amico che vi dice che l'oggetto nella sabbia è
una conchiglia e non argento. La cognizione corregge e rimuove il dubbio
dando un tipo di evidenza conclusiva circa ciò che l'oggetto in
questione è realmente. L'altro tipo di dubbio è specificamente il dubbio
categorico, esemplificato da un filosofo che può interrogarsi o avere il
dubbio sulle diverse categorie dell’essere, come l'esistenza di Dio, i
modi di esistere della sostanza fisica, o la vera natura del tempo. Per
chiarire questo secondo tipo di dubbio filosofico il metodo preferito
dai Logici era un dibattito formale. Questi dibattiti offrivano uno
spazio in cui i giudici presiedevano, stabilendo regole per argomenti e
contro-argomenti, riconoscevano gli errori logici e le forme corrette di
inferenza, e i due interlocutori nel cercare la verità usavano tutti i
loro mezzi per stabilire la corretta posizione. Il punto è che, secondo
il pensiero tradizionale Brahminico, era possibile la certa e corretta
conoscenza oggettiva del mondo; uno conosceva fin dal principio tutto
ciò che cercava di sapere, da ciò che quel dato oggetto di cui si è
all’oscuro è, ai tipi di causalità che operavano nel mondo, fino
all'esistenza e al volere di Dio per gli esseri umani. Anche se è una
attitudine naturale e un fondamentale aiuto agli esseri umani nella loro
vita riflessiva e in quella di tutti i giorni, lo scetticismo può essere
superato, purché uno si armi con i metodi di prova supportati dalla
logica di senso comune. Per i Nyaya, anche se si può dubitare di tutto e
di qualsiasi cosa, qualunque dubbio può essere risolto. Il Logico del
Brahmanesimo, il Naiyayika, è un astuto e realistico filosofico
ottimista, ma però è onesto.
I primi Buddisti non erano pressoché così sicuri sulla possibilità della
conoscenza ultima del mondo. Infatti, il fondatore della tradizione,
Siddhartha Gautama Shakyamuni (il "Buddha", o il "Risvegliato"),
notoriamente rifiutò di rispondere a tali ariose e ponderate domande
metafisiche tipo "il mondo ha avuto un inizio o no?", "esiste Dio?",
oppure, "l'anima perisce dopo la morte o no?". Convinto che la
conoscenza umana dovesse essere più idonea e più utilmente dedicata alla
diagnosi e cura dei propri attaccamenti auto-distruttivi e ossessioni
psicologiche degli esseri umani, il Buddha paragonò una persona convinta
di poter trovare le risposte a tali domande ultime ad un soldato
mortalmente ferito sul campo di battaglia che, pur essendo moribondo a
causa della freccia avvelenata, chiedesse di conoscere tutto su chi
aveva tirato la freccia, anziché venir portato da un dottore. La
conoscenza ultima non può essere raggiunta, o almeno non può essere
raggiunta prima che le follie e le fragilità della vita umana portino
uno alla disperazione. A meno che gli esseri umani non ottengano una
auto-riflessiva illuminazione con la meditazione, l'ignoranza avrà
sempre il sopravvento sulla conoscenza nella loro vita, e questo è
l'imbroglio che essi dovranno risolvere per alleviare la loro
malcompresa sofferenza. I primi testi tradizionali mostrano come il
Buddha sviluppasse un metodo per rifiutare di rispondere a tali domande
che cercavano una metafisica conoscenza ultima, un metodo che arrivò ad
essere nominato il rifiuto dei "quattro-errori" (chatuskoti). Quando,
per esempio, gli viene chiesto se il mondo ha un inizio o no, un
Buddista dovrebbe rispondere negando tutte le risposte logicamente
alternative alla questione; "No, il mondo non ha un inizio, non manca di
avere un inizio, non ha e non può avere un inizio, né non ha e né non
può avere un inizio". Questo rifiuto non dev’essere visto logicamente
difettoso nel senso che esso viola la legge del mezzo esclusivo (A non
può avere sia B che non-B), perché questo rifiuto è per principio più un
rifiuto a rispondere che una contro-tesi, è più una decisione che una
proposizione. Cioè, non si può obiettare a questo rifiuto dei
"quattro-errori" semplicemente dicendo "il mondo ha un inizio, o non lo
ha", perché il Buddha sta raccomandando ai suoi seguaci che essi non
dovrebbero prendere posizione sulla questione (questo, nella moderna
logica proposizionale, è noto come illocuzione). Questo rifiuto fu
raccomandato perché l’interrogarsi su tali domande, dal Buddha fu
considerato uno spreco di tempo prezioso, tempo che dovrebbe essere
passato su un molto più importante e fattibile compito di autocontrollo
psicologico. I primi Buddisti, diversamente dalle loro controparti
filosofiche del Brahmanesimo, erano scettici. Ma nella loro propria
visione, il loro scetticismo non rese pessimisti i Buddisti, al
contrario, li rese più ottimisti, perchè anche se la mente umana non
poteva rispondere alle questioni ultime, essa poteva però diagnosticare
e curare le sue stesse dovute malattie fondamentali e sicuramente ciò
era sufficiente.
Ma essendo passati da quattro a sei secoli tra la vita di Siddartha
Gautama e Nagarjuna, sentendo il bisogno di spiegare la loro visione del
mondo in un sempre germogliante ambiente filosofico del nord dell’India,
i Buddisti trasformarono il loro scetticismo in teoria. La dottrina
fondamentale Buddista, come l’insegnamento dell’impermanenza di tutte le
cose, il rifiuto Buddista di una personale identità persistente e il
rifiuto di ammettere naturali universali, come "l’essere-albero"
"l’essere-rosso" e simili, erano sfide per i filosofi Brahmanici. Come
si può, chiederebbero gli avversari Vedici, difendere l’idea che la
causalità governi il mondo fenomenico mentre simultaneamente si sostiene
che non c’è alcuna misurabile transizione temporale dalla causa verso
l’effetto, come i Buddisti sembrano sostenere? E se i Buddisti
suppongono proprio che nessun ego duraturo possa resistere e persistere
durante le nostre esperienze di vita, come fanno allora tutte le mie
esperienze e cognizioni a sembrar essere in mio possesso come un
soggetto unitario? Perché, se tutte le cose possono essere ridotte
all’universo Buddista di un flusso di atomi che cambiano eternamente,
tutti gli oggetti sembrano stabili e integri circondandomi nel mio
vivido ambiente? Di fronte a queste sfide, i monaci studiosi
entusiasticamente entrarono nei dibattiti al fine di rendere
comprensibile la visione Buddista del mondo. Come risultato di questi
scambi, un rilevante numero di scuole di pensiero Buddiste si
svilupparono, di cui le due più importanti furono il Sarvastivada
("Esistenza universale") e il Sautrantika ("Vera Dottrina"). In vari
modi, esse proposero teorie che rappresentavano l’efficacia causale,
presente in tutte le dimensioni del tempo o istantaneamente,
dell’identità personale essendo il prodotto psicologico di stati mentali
complessi e interrelati e, più importante, di oggetti apparentemente
stabili delle nostre esperienze di vita come se fossero meri composti di
irriducibili sostanze elementari, con una loro natura "propria"
(svabhava). Avendone necessità, queste scuole cercarono di completarsi,
e così il Buddismo entrò nel mondo della filosofia, dei dibattiti, di
tesi e verifiche, e della rappresentazione del mondo. Ed i monaci
Buddisti diventarono non solo teorici, ma tra i più sofisticati teorici
nel mondo intellettuale Indiano.
Il dibattito imperversò per secoli su come inserire Nagarjuna in questo
contesto filosofico. Doveva poi esser visto come un tradizionale
Buddista conservatore, che difendeva il consiglio stesso del Buddha per
evitare la teoria? Doveva essere inteso come un Buddista del "Grande
Veicolo", che sistemava le dispute che nel Buddismo tradizionale non
esistevano affatto, comprensibile solo per i Mahayanisti? Poteva egli
essere perfino un radicale scettico, come sembrava che lo avessero preso
i suo primi lettori Brahmanici, che nonostante il suo stesso vantarsi di
filosofia espose posizioni che solo alcuni filosofi potevano apprezzare?
Nagarjuna sembra essersi ritenuto un riformatore, soprattutto un
riformatore Buddista, per essere sicuri, ma però sospettoso che la sua
stessa beneamata tradizione religiosa fosse stata adescata, contro lo
stesso consiglio del suo fondatore, in giochi di epistemologia e
metafisica da antiche seppur ancor seducenti abitudini intellettuali
Brahmaniche. La teoria non era, come invece il pensiero dei Brahmani,
uno stato di pratica e neppure era, come i Buddisti avevano iniziato a
credere, la giustificazione della pratica. La teoria, nella visione di
Nagarjuna, era il nemico di tutte le forme di pratica legittima,
sociale, etica e religiosa. La teoria deve essere annullata tramite la
dimostrazione che le sue metafisiche conclusioni Buddiste e i processi
di ragionamento Brahmanico che portano verso di essa sono contraffatti,
di nessun valore reale per la genuina ricerca umana. Ma, al fine di
dimostrare un tale impegno, il dubbio deve essere metodico, proprio come
fu metodica la filosofia che intendeva minarlo. Il metodo suggerito da
Nagarjuna per portare ad annullare la teoria, curiosamente, non fu un
metodo di sua invenzione. Egli sostenne come più pragmatico prendere in
prestito metodi filosofici di ragionamento, in particolare quelli
designati ad esporre argomenti erronei, per confutare le asserzioni e
gli assunti dei suoi avversari filosofici. E questa fu la strategia
scelta poiché, se uno provvisoriamente accetta i concetti e le regole di
verifica dell’avversario, il rifiuto della posizione dell’avversario
sarà assai più convincente per lo stesso avversario che non se uno
rifiuta il sistema avversario tout-court. Questa provvisoria e
temporanea accettazione del metodo di prova e categorie dell’avversario
è dimostrata dal modo in cui Nagarjuna impiega differenti approcci e
stili di ragionamento a seconda se egli li scrive contro i Brahmini o i
Buddisti. Tuttavia, egli in modo lieve e sottile adatta a ciascuno di
essi il rispettivo sistema per seguire i suoi stessi scopi di
ragionamento.
Per i metafisici ed epistemiologi Brahminici, Nagarjuna accetta le varie
forme di errori di logica sotto-lineati dai Logici e concorda di entrare
nei loro stessi dibattiti. Ma egli coglie una variante nella forma dei
dibattiti che, pur riconoscendoli come un vitale forma di discorso, non
erano nient’altro che come quelli dei Nyaya. Il dibattito-tipo dei
Nyaya, in stile ‘vada’ o "dibattito-verità", mette due interlocutori uno
contro l'altro nel portare opposte tesi (pratijna o paksa) nel
dibattito, o su un certo argomento; ad esempio, un proponente Nyaya che
difende la tesi che un autorevole testimonianza verbale è una forma
accettabile di prova e un proponente Buddista che argomenta che quella
testimonianza non è una verità che si auto-sostiene, ma può essere
ridotta solo ad un tipo di inferenza deduttiva. Ognuna di queste opposte
posizioni allora servirà come ipotesi di un argomento logico da
comprovare o da confutare, e la persona che confuta l’argomento
avversario e stabilisce il suo proprio punto di vista vince il
dibattito. Tuttavia, c’erano una varieta di tipi di questi formati
standard, dai Logici chiamati ‘vitanda’, o "dibattiti-distruttivi". Nel
‘vitanda’, il fautore di una tesi cercava di stabilirla contro il suo
avversario, il quale semplicemente si sforzava di confutare la visione
del proponente, senza volerne stabilre o implicare una sua visione
propria. Se l’avversario della tesi offerta non riusciva a confutarla,
egli perdeva; ma avrebbe perso anche se, confutando la tesi
dell’avversario, egli cercava di asserire o implicare una contro-tesi.
Ora, mentre i Brahmani Naiyayika consideravano questa forma una buona
pratica di logica per i discepoli, essi non consideravano il ‘vitanda’
come una forma ideale di dibattito filosofico, poiché mentre
probabilmente poteva esporre false tesi come false, certamente non
poteva stabilire la verità, e quale buona ragione o analisi filosofica
poteva essere se essi non avessero potuto cercare o scoprire la verità?
Da parte sua, Nagarjuna voleva solo poter entrare nei dibattiti
filosofici come ‘vaitandika’, deciso a distruggere la posizione
metafisica ed epistemologica dei proponenti Brahmanici, senza l’obbligo
di una controproposta. Per far questo, Nagarjuna si munì di un’intera
batteria di accettate risposte ai fallaci argomenti che i Logici avevano
da tempo autorizzato, come il regresso all’infinito (anavastha), la
circolarità (karanasya asiddhi) e il principio di vuoto (vihiyate vadah)
per assalire le posizioni meta-fisiche ed epistemologiche che egli
trovava problematiche. Si dovrebbe notare che in seguito tutte le
popolari e influenti scuole di pensiero del Buddismo Indiano,
specificamente la scuola della Sapienza (Vijnanavada) e di Logica
Buddista (Yogachara Sautranta) rifiutarono questa posizione puramente
scettica di Nagarjuna e stabilirono una loro proprio positiva dottrina
di coscienza e conoscenza, e fu solo con le successive e più sintetiche
scuole di Buddismo del Tibet e dell’Asia Orientale che il noto approccio
anti-metafisico e anti-conoscitivo di Nagarjuna ottenne una piena
affinità. Non c’è dubbio, comunque, che tra i suoi avversari Vedici e i
successivi commentatori Madhyamika, la strategia del "solo-confutare" di
Nagarjuna fu altamente provocatoria e accese continue controversie. Ma,
per sua stessa stima, impiegando solo il metodo Brahmanico contro la
pratica Brahmanica, potè mostrare che la società e la religione Vedica,
che egli riteneva essere l’autoritaria legittimazione della societa
delle caste, usassero il mito di Dio, la rivelazione divina e l’anima
come una sorta di razionalizzazione, e non le giustificate ragioni che
essi presumibilmente volevano far essere.
Contro il sostanzialismo Buddista, Nagarjuna resuscitò il diniego
proprio del Buddha del ‘chatuskoti’ (i quattro errori), ma gli dette un
più definitivo taglio logico del precedente impiego pratico datogli da
Siddhartha Gautama. Fino a quel momento, nella tradizione Buddista
Indiana, vi erano stati due noti scettici, di cui uno fu il Buddha
stesso e l’altro un saggio del terzo secolo di nome Moggaliputta-tissa,
che vinse diversi dibattiti-chiave contro alcuni gruppi settari
tradizionali, su richiesta dell’imperatore Mauryano Ashoka, e che ne
scrisse l’esito nel primo grande manuale di dibattiti della tradizione.
Così, mentre il Buddha fornì il metodo dei "quattro-errori" per
scoraggiare la difesa di posizioni tradizionali metafisiche e religiose,
Moggaliputta-tissa costruì un tipo di dibattito che esaminava le varie
dispute dottrinali del primitivo Buddismo che secondo lui
rappresentavano posizioni che erano ugualmente non-valide dal punto di
vista logico, e quindi non dovevano essere asserite (no ca vattabhe).
Forse ispirato da questo scettico approccio logicamente affilato,
Nagarjuna raffinò il metodo "quattro errori" dal severo e pragmatico
strumento ‘illocuzionario’ che vi era nel primitivo Buddismo in una
macchina logica che dissolse le posizioni metafisiche Buddiste che
avevano aumentato la loro influenza. La maggior scuola di Buddismo al
tempo di Nagarjuna aveva accettato che le cose del mondo dovevano essere
costituite da elementi metafisici fondamentali che avevavo una loro
propria essenza fissa (svabhava), perché altrimenti non ci sarebbe stato
modo di spiegare l’esistenza di persone, fenomeni naturali, o i processi
causali e karmici che determinavano entrambi. Per esempio, se non si
assume che le persone abbiano una natura fondamentale fissa, non si
potrebbe dire che qualsiasi individuo particolare sia sottoposto alla
sofferenza, e né si potrebbe dire che un qualsiasi particolare monaco
che abbia perfezionato la sua disciplina e saggezza ottenga
l’illuminazione e liberazione con rinascita nel nirvana. Cioè, senza una
qualche nozione di essenza, pensavano i contemporanei di Nagarjuna, le
asserzioni Buddiste non avevano senso, e la pratica Buddista non poteva
far alcun bene, non poteva effettuare nessun vero cambiamento del
carattere umano.
La risposta di Nagarjuna fu di "cacciare" questa metafisica posizione
della pratica Buddista nel rotolo dei "quattro errori" a dimostrazione
che il cambiamento Buddista c’era solo dopo, ed era realmente possibile
solo se le persone non avevano un’essenza fissa. Perchè‚ se uno
veramente esamina il cambiamento trova che, secondo il ‘chatuskoti’, il
cambiamento non può produrre se-stesso, né può essere introdotto da
un’influenza estrinseca, né può risultare da entrambi (se-stesso e
un’influenza estrinseca), né da nessuna influenza del tutto. Tutte le
logiche alternative di una data posizione sono esaminate e bocciate dal
metodo dei "quattro errori". Ci sono essenziali ragioni logiche perché
tutte queste posizioni crollano. Prima di tutto esse sarebbero
incoerenti (no papadyate) per assumere che ogni cosa con una natura o
essenza fissa (svabhava) possano cambiare, poiché quel cambiamento
violerebbe la sua natura fissa e così distruggerebbe la premessa
originale. Inoltre, noi non abbiamo esperienza empirica di nessuna cosa
che non cambi, e quindi non conosciamo mai (na vidyate) di essenze fisse
nel mondo intorno a noi. Ancora una volta, il metodo del proponente è
stato preso su in un modo ingegnoso per minare le sue conclusioni. Le
regole del gioco filosofico sono state così rispettate, ma in questo
caso non per cantare vittoria, ma allo scopo di mostrare a tutti i
giocatori che il gioco alla lunga è stato giusto, semplicemente quel
gioco che non ha avuto sostenibili conseguenze nella vita reale.
E quindi, Nagarjuna ha giustamente meritato l’etichetta di scettico,
proprio perché egli ha consentito lo smantellamento di posizioni
teoriche ovunque le trovasse, e in una maniera metodicamente logica.
Come gli scettici della tradizione classica Greca, i quali pensavano che
il dubbio risolto su asserzioni dogmatiche, sia nella filosofia che
nella vita sociale, poteva portare gli individui alla pace mentale,
benchè tuttavia non è questo il caso, perché lo scetticismo di Nagarjuna
non porta da nessuna parte. Al contrario, esso è la vera chiave per
l’intuizione. Perchè‚ nel processo di smantellamento di tutte le
posizioni metafisiche e epistemologiche, si è guidati verso la sola
conclusione vitale per Nagarjuna, e cioè che tutte le cose, concetti e
persone, sono prive di un’essenza fissa, e questa mancanza di una
essenza fissa è proprio come e perché essi possono essere passibili di
cambiamento, trasformazione ed evoluzione. Il cambiamento c’è proprio
perchè le persone vivono, muoiono, rinascono, soffrono e possono essere
illuminate e liberate. E il cambiamento è possibile solo se le entità e
il modo in cui noi le concettualizziamo sono entrambi vuoti o vacui
(shunya) di una qualsiasi essenza eterna, fissa o immutabile. In
effetti, Nagarjuna anche in quest’occasione riferisce il suo speciale
uso dell’approccio dei "quattro-errori" come “il rifiutare e spiegare
con il metodo di svuotare” (vigraheca vyakhyane krte sunyataya vadet)
concetti e cose da un’essenza. E, proprio in tutto simile ai metodi del
Buddismo, una volta che questo risvolto logico è servito allo scopo,
anch’esso può essere scartato in cambio, per così dire, di quella
saggezza che ha conferito. Pretendere la conoscenza porta alla rovina,
mentre un genuino scetticismo può portare l’essere umano verso la vera
conoscenza ultima. Solo il metodo dello scetticismo si deve conformare
alle regole della conoscenza convenzionale, poiché, come Nagarjuna
notoriamente afferma: "Senza dipendere dalle convenzioni, la verità
ultima non può essere insegnata e se la verità ultima non è compresa, il
nirvana non può essere raggiunto".
|
3.
Contro il Sostanzialismo mondano ed ultimo
Nel corso della vita di Nagarjuna, il
Buddismo scolastico era diventato assai più che semplicemente
un'istituzione incaricata a sovrintendere alle scritture trasmesse, alla
tradizione ed alla ortodossia che era stata stabilita dal Concilio; esso
si era sviluppato in un contesto altamente variegato e interessato alle
posizioni filosofiche sia interiori che esteriori. Queste scuole lo
assorbirono in se non soltanto per rappresentare l'insegnamento Buddista
o per rendere disponibili i benefici della relativa pratica, ma anche
per spiegare il Buddismo, per renderlo non soltanto un ragionevole
discorso filosofico, ma il più supremamente ragionevole di tutti. Lo
scopo ultimo della vita, cioè la liberazione dalle rinascite, sebbene in
generale condiviso da tutte le soteriologie nel Brahmanesimo, Jainismo e
nel Buddismo, è stato rappresentato unicamente dai Buddhisti come la
pacificazione di ogni attaccamento psicologico attraverso l’estinzione
(nirvana) dei desideri, che condurrebbe alla conseguente estinzione del
karma ed alla eliminazione delle rinascite. Una speciale ed unica
dottrina del Buddismo nel suo tentativo di tematizzare questi problemi
fu la teoria del ‘non-sé’ o non-anima (anatman) e le implicazioni che
essa comportò. In senso empirico, l'idea del ‘non-sé’ significava che
non soltanto le persone, ma anche ciò che normalmente sono considerate
le sostanze stabili della natura, in realtà non sono fisse e costanti, e
che tutte le cose, dal loro senso di identità personale alle forme degli
oggetti, potrebbero essere analizzate, per così dire, in particelle
atomiche come loro basi. In senso ultimo metafisico, significava che
nessun individuo, alla liberazione dalle rinascite, vivrà eternamente
come entità spirituale e auto-consapevole (atman), ma che la serie di
nascite causate dal karma ereditato avrà semplicemente un termine,
riducendo, come relativo contro-valore, la quantità totale di sofferenza
nel mondo. Queste teorie hanno provocato domande e critiche taglienti e
profonde come, "se le cose e le persone del mondo non sono nient'altro
che atomi in continuo e costante cambiamento, come può una persona avere
un'ordinaria esperienza di un mondo di apparenti sostanze?", "se non c’è
una identità o un ‘sé’ permanente, chi è che pratica il Dharma ed è
liberato?", e "come dovremmo intendere le differenze fra gli esseri
illuminati come il Buddha e quelli non-illuminati, come tutti noi?". A
rispondere a tali domande non comprensibili per le menti interrogative
della comunità filosofica vi fu un certo numero di distinte scuole che
collettivamente vennero ad essere conosciute come scuole coinvolte
"nell'analisi degli elementi" (abhidharma). Nagarjuna ricevette il suo
training filosofico nei testi, nei dibattiti e nel vocabolario dei
seguaci dell’Abhidharma. Le due più importanti scuole di Abhidharma
erano la scuola "Sarvastivada" (Esistenza Universale) e la scuola
"Sautrantika" (Vera Dottrina). Queste due scuole in-sieme sostenevano
una teoria di ‘sostanzialismo’ che serviva come spiegazione sia alle
domande metafisiche di tipo mondano che ultimo. Questa teoria del
sostanzialismo, formulata in modo un po' diverso da ciascuna scuola,
aveva due fondamentali chiavi di volta. La prima era una teoria della
causalità, o il rigoroso obbligo di un evento che è seguito da un altro
evento. La teoria della necessità causale era essenziale per tutto il
pensiero Buddista, dato che lo stesso Gautama Siddhartha aveva
fortemente asserito che tutta la sofferenza o dolore psicologico aveva
una distinta causa, vale a dire l’attaccamento o il desiderio (tanha),
mentre la chiave per rimuovere la sofferenza dalla propria vita e
raggiungere la "tranquilità della mente" o la felicità (upeksa) del
nirvana, era di eliminare la relativa condizione causale. La sofferenza
è determinata da una causa definita, ma quella causa è dipendente dai
comportamenti umani e da tutte le pratiche di ciascun individuo e se
l’attaccamento potesse venir esorcizzato da questi comportamenti e
pratiche, allora l'individuo potrebbe vivere una vita che non gli
farebbe più sperimentare l’impermanenza e la perdita come dolorose, ma
permetterebbe di accettare il mondo per quello che in effetti è. La
teoria e la pratica Buddista erano sempre state basate sulla nozione
che, non solo l’attaccamento psicologico, ma tutti quanti i fenomeni
sono interdipendenti tra loro causalmente, che tutte le cose e gli
eventi che accadono nel mondo sono il risultato di un’unica catena
causale (pratityasamutpada). Non è possibile comprendere il Buddismo
senza questa teoria causale, dato che essa apre la porta alla diagnosi
ed alla rimozione della sofferenza. Tuttavia, per le scuole ‘Esistenza
Universale’ e ‘Vera Dottrina’ la seconda chiave di volta fu una teoria
degli elementi fondamentali, teoria che dovette provenire da ogni
coerente teoria causale. Le cause, i loro esponenti filosofici
raffigurati, non sono soltanto arbitrarie, ma sono regolari e
prevedibili e la loro regolarità è dovuta al fatto che le cose o i
fenomeni hanno loro proprie nature fisse (svabhava), che determinano e
limitano i tipi di poteri causali che possono e non possono esercitare
su altre cose. Per esempio, l’acqua può estinguere la sete ed il fuoco
può bruciare altre cose, ma l'acqua non può causare un fuoco, proprio
come il fuoco non può estinguere la sete. La struttura ed i limiti dei
particolari poteri causali e dei loro effetti sono quindi radicati in
quel tipo di ciò che una cosa appare essere; e la sua natura definisce
ciò che essa può o non può fare ad altre cose. Ora nei loro modelli
teorici, l'efficacia causale era contenuta non in tutto l'intero oggetto
unificato, ma piuttosto nelle parti, nelle qualità e negli elementi
atomici di cui qualunque oggetto sembra essere costituito, così nella
loro costituzione, non è il fuoco che brucia ma il calore prodotto dalle
relative molecole del fuoco, e non è l’acqua che estingue la sete ma la
corrispondenza delle relative molecole alla ricettività delle molecole
nel corpo. In effetti, in questi sistemi il fuoco era soltanto ‘fuoco’ a
causa delle relative qualità molecolari e lo stesso era con l’acqua. Ma
queste qualità, molecole ed elementi, avevano nature fisse e potevano
quindi emettere o ricevere solo determinati poteri causali e non altri.
La differenza principale di base fra le scuole ‘Esistenza Universale’ e
‘Vera Dottrina’ nella loro difesa delle teorie buddiste degli elementi
sia causali che fondamentali, era la loro rispettiva descrizione di come
queste cause operavano. Per la scuola Sarvastivada, l'effetto di una
causa era già inerente nella natura della causa (satkaryavada). La mia
sete è estinta non dal cambiamento fondamentale nel mio stato, ma perché
l'acqua che ho bevuto ha avuto il potere di estinguere la mia sete e
questo potere non giace dentro di me, ma nella cosa che sto provando a
bere; ecco perchè il fuoco non può estinguere la sete. Qui il
cambiamento è soltanto una apparente trasformazione già potenziale negli
agenti che sono interrelati. Per la scuola Sautrantika, d'altra parte,
per definizione ogni effetto deve corrispondere ad un cambiamento del
potere causale nello stato del ricevente e quindi, il potenziale causale
diventa reale soltanto dove e quando può effettuare un reale cambiamento
in qualcos'altro (asatkaryavada). Ancora, usando l'acqua a titolo
illustrativo, le proprietà dell’acqua effettuano un cambiamento nelle
proprietà del mio corpo, trasformando il mio stato da uno stato di sete
ad uno in cui la mia sete è estinta. Il cambiamento è cambiamento di ciò
che è effettuato, altrimenti sarebbe sciocco parlare di cambiamento.
Tuttavia, questa differenza apparentemente astratta o non pertinente, in
questi due opposti sistemi risulta essere abbastanza rilevante, dato che
le idee sostanzialiste di una natura e di un’ essenza fisse forniscono
la base non soltanto per concettualizzare il mondo materiale empirico,
ma anche per con-cepire la conoscenza e la comprensione della realtà
ultima. Perché siccome solo l'analisi metafisica potrebbe far una
distinzione fra i fenomeni ed i loro costituenti causali ultimi, tale
analisi inoltre era l'unica guida sicura per sperimentare la
purificazione dagli attaccamenti. Quelle cause che conducono
all’irretimento nel ciclo mondano delle rinascite (samsara) non possono
essere le stesse di quelle che conducono alla pace (nirvana). Questi
stati di esistenza sono altrettanto differenti quanto il fuoco e
l'acqua, infatti il samsara porterà i fuochi della passione proprio come
il nirvana ne estinguerà la sete. E così, è il Buddha che parla, per
coloro che difendevano la teoria dell'effetto come pre-esistente nella
causa, che avevano il potenziale per purificare la coscienza, in
contrasto con le parole di tutti gli insegnanti eterodossi; così era la
pratica dei Buddisti, per coloro che sostenevano la nozione di efficacia
causale esteriore, in grado di liberare uno dalle rinascite, e non
invece la pratica di coloro che perpetuavano le ambizioni dell’ordinario
mondo di tutti i giorni. Queste scuole, ciascuna nella loro piega
unicamente Buddista, erano veri esempi degli antichi presupposti di
visione karmica del mondo in cui una persona è ciò che essa fa, e ciò da
cui ha tratto quel tipo di maschera fondamentale delle azioni che uno ha
ereditato dalle vite precedenti, una visione del mondo che è ciò che
intimamente unisce essenza, esistenza ed etica. Essere un Buddista
significa precisamente distinguere fra azioni Buddiste e non-Buddiste,
fra l'ignoranza e l’illuminazione, fra il mondo di sofferenza del
samsara ed il puro ottenimento del nirvana.
Nel suo rivoluzionario saggio ‘Versi Fondamentali sulla Via di Mezzo’,
Nagarjuna proditoriamente fa fuori questa elementare distinzione fra il
samsara ed il nirvana, e lo fa nel nome stesso del Buddha. "Non c’è la
minima distinzione", egli dichiara nell’opera, "fra il samsara ed il
nirvana. Il limite dell’uno è il limite dell'altro". Ora come può una
tal cosa essere proposta, cioè, l'identità del samsara e del nirvana,
senza insidiare completamente la base teorica e gli obiettivi pratici
del Buddismo come tale? Perchè se non c’è differenza fra il mondo di
sofferenza e l’ottenimento della pace, allora che specie di lavoro deve
fare un Buddista per cercare di eliminare la sofferenza? Nagarjuna
ribadisce ricordando ai filosofi Buddisti che, proprio come Siddharta
Gautama Sakyamuni aveva rifiutato il sostanzialismo sia metafisico che
empirico con l'insegnamento del "non-sé"(anatman) e l’interdipendenza
causale (pratityasamputpada), così il Buddismo scolastico doveva
rimanere fedele a questa posizione di non-sostanzialismo col rifiuto
delle teorie causali che richiedevano le nozioni della natura fissa
(svabhava), teorie che metafisicamente reificavano la differenza fra
samsara e nirvana. Questo ulteriore rifiuto poteva essere basato sulla
nuova nozione coniata da Nagarjuna, cioè la "shunyata" (vacuità o vuoto)
di tutte le cose. Nagarjuna, facendo un'analisi logica delle teorie
causali delle scuole Sarvastivada e Sautrantika, rifiuta le premesse
delle loro teorie. L’affermazione di base che queste scuole avevano in
comune era che l'efficacia causale poteva essere rappresentata solo
tramite la natura fondamentale di un oggetto; il fuoco causa il
bruciarsi degli oggetti perché il fuoco è composto dagli elementi del
fuoco e non dagli elementi dell'acqua, e perché la regolarità e la
prevedibilità dei suoi poteri causali consistono della sua essenziale
base materiale. Rivitalizzando e affilando logicamente l’antico metodo
Buddista dei "quattro errori" (chatuskoti), Nagarjuna cerca così di
smantellare questo incisivo assunto filosofico. Contrariamente alle
visioni del Buddismo scolastico, Nagarjuna trova poi che se gli oggetti
avessero un'essenza fissa e stabile i cambiamenti determinati dalle
cause non sarebbero logicamente comprensibili o materialmente possibili.
Noi diciamo, insieme con la scuola Sarvastivada, che l'effetto
pre-esiste nella causa, o ad esempio, che il bruciare del fuoco ed il
dissetare dell’acqua sono inerenti ai tipi di sostanze che sono il fuoco
e l’acqua. Ma se gli effetti già esistono nella causa, allora sarebbe
assurdo parlare in primo luogo degli effetti, perché nella loro
interazione con altri fenomeni le cause pre-esistenti non produrrebbero
nulla di nuovo, essi starebbero soltanto manifestando i potenziali
poteri già esibiti. Cioè, se il potenziale di bruciare è concepito
esistere all'interno del fuoco ed il potenziale di estinguere la sete
fosse già inerente nell’acqua, allora, Nagarjuna pensa, il bruciare ed
il dissetare non sarebbero che apparenze dei poteri causali delle
sostanze acqua e fuoco, e questo creerebbe la nozione di un effetto, la
produzione di un nuovo, insignificante cambiamento. Se, d'altra parte,
se sosteniamo la scuola ‘Vera Dottrina’ nel supporre che l'effetto non
preesiste nella causa, ma che c’è un nuovo cambiamento nel mondo, allora
la categoria di una sostanza si sfascia. Perchè? Perché se il fuoco e
l'acqua fossero sostanze stabili che possiedono una natura o essenza
fisse, allora che specie di relazione potrebbero avere con altri oggetti
che hanno le loro nature fisse totalmente differenti? Come si potrebbe
pensare che il fuoco abbia come effetto un essere umano quando quest’
ultimo possiede una natura e quindi prende una forma che è totalmente
diversa dal fuoco? Affinchè una persona sia l’effetto del fuoco, la sua
natura dovrebbe cambiare, dovrebbe essere distruttibile e questo altera
il presupposto che la natura della persona sia fissa. Essenze stabili e
fisse (svabhava), che sono concepite per essere interamente eterogenee,
non potrebbero aver il modo di relazionarsi senza che la loro
inizialmente supposta essenza fissa ne venga compromessa. La conclusione
è che nessuna di queste due proposte spiegazioni Buddiste-sostanzialiste
di efficacia causale può superare l’esame logico.
Potremmo essere tentati, di fronte a queste omissioni, di adottare
teorie alternative della causalità sostenute aldifuori della tradizione
Buddista per salvare l’intellegibilità della sostanza. Con i filosofi
del Jaina, potremmo supporre che in qualche modo gli effetti provengano
entrambi dagli inerenti poteri delle sostanze, come pure le
vulnerabilità degli oggetti con cui queste sostanze interagiscono.
Questo per Nagarjuna ovviamente non farà un logico, dato che sarebbe
equivalente a suggerire che le cose e gli eventi sorgono o provengono
sia grazie ai loro propri poteri causali che effettuati da altre cose, e
cioè che l’evento A, che è il bruciare o il dissetare, è causato sia da
sé-stesso che da altre cose. Ciò viola totalmente la legge del mezzo
escluso, poiché una cosa non può essere caratterizzata sia da A che da
non-A, e quindi non potrà servire da spiegazione. Potremmo desiderare,
esausti per la ricerca di un possibile principio sostanzialiste della
causalità, di optare per quella posizione totalmente anti-metafisica
della scuola Indiana Materialista, che nega sia che gli eventi siano
prodotti tramite i poteri causali inerenti ad essi correlati e sia che
siano causati da poteri estranei. Questa completa smentita potrebbe
farci credere che non esista alcun rapporto di causa-ed-effetto fra i
fenomeni, ed i Buddisti non possono ricorrere a questa conclusione
perché essa milita contro gli insegnamenti fondamentali del Buddha il
quale disse che tutti i fenomeni empirici sorgono a causa della loro
interdipendenza. Era questo l'insegnamento del Buddha stesso, e quindi
nessun Buddista può ammettere che gli eventi non sono causati.
Allora, cosa dobbiamo capire da tutta questa astratta critica logica?
Dobbiamo arguire che la filosofia di Nagarjuna sbocca in una sorta di
strano misticismo paradossale in cui vi è un certo senso ambiguo in cui
le cose dovrebbero essere considerate causalmente interdipendenti, ma
interdipendenti in un modo assolutamente inspiegabile e imperscrutabile?
Niente affatto! Nagarjuna non ha confutato tutte le teorie disponibili
di causa ed effetto, ha rifiutato soltanto tutti i tipi di teorie
sostanzialiste di causa e di effetto. Egli crede di aver mostrato che,
se manteniamo il presupposto filosofico che le cose nel mondo derivano
da una base materiale unica ed essenziale, allora noi ci tufferemo a
piene mani nel cercare di spiegare come le cose possibilmente potrebbero
collegarsi l’una con l’altra, e così poi non ci sarebbe modo di
descrivere come questi cambiamenti accadono. Ma poiché sia il nostro
buonsenso che le parole del Buddha affermano costantemente che i
cambiamenti effettivamente accadono, ed accadono continuativamente,
dobbiamo supporre che accadano in qualche modo, attraverso qualche altro
fatto o circostanza dell’esistenza. Da parte sua, Nagarjuna conclude
che, poiché le cose sorgono non perchè i fenomeni si relazionano
attraverso essenze fisse, allora esse devono sorgere a causa del fatto
che i fenomeni sono privi di un’essenza fissa. I fenomeni sono
malleabili, essi sono suscettibili di alterazione, di aumento e di
distruzione. Questa mancanza di natura fissa (nihsvabhava), questa sorta
di alterabilità delle cose significa quindi che le loro forme fisiche ed
empiriche sono prodotte non sulla base di un’ essenza, come le scuole
Sarvastivada e Sautrantika presuppongono, ma per il fatto che mai nulla
(shunya) le definisce e le caratterizza in modo eterno e incondizionato.
Non è che le cose siano in se stesse un ‘nulla’, né che le cose
possiedano una positiva assenza di essenza (abhava). Il cambiamento è
possibile perché una radicale indeterminatezza (shunyata) pervade tutte
le forme. Il bruciare avviene perché possono sorgere le condizioni lì
dove le temperature diventano incendiarie e arroventano la carne,
proprio come la sete può essere estinta quando il processo del bere
trasporta e trasforma l'acqua nel corpo. Gli esseri si relazionano l’uno
con l’altro non a causa delle loro eterogenee forme, ma perché la loro
interazione li rende suscettibili di una trasformazione continua.
Il testo ‘Versi Fondamentali sulla Via di Mezzo’ è un tour-de-force
attraverso tutto il sistema cate-gorico dell'analisi metafisica Buddista
(abhidharma) che aveva dato nascita ai movimenti scolastici. Nagarjuna
attacca tutti i concetti di queste tradizioni che erano tematizzati
secondo le metafisiche sostanzialiste ed essenzialiste, usando sempre il
metodo logicamente revisionato dei "quattro-errori". Ma forse più
rivoluzionario fu che Nagarjuna estese questa dottrina della "vacuità"
di tutti i fenomeni, alla discussione sulla relazione tra il Buddha ed
il mondo, tra il ciclo delle rinascite afflitte dal dolore (samsara) e
la gioia della libertà dal desiderio (nirvana). Il Buddha, familiarmente
noto come “Colui che è venuto ed andato oltre” (Tathagata), non può
essere validamente considerato da Nagarjuna così come lo immaginano i
Buddisti scolastici, cioè come il puro ed eterno seme dei veri
insegnamenti di pace che pacifica l’illusione del mondo altrimenti
contaminato. Il nome e la persona di ‘Buddha’ non dovrebbe servire come
una teorica base e giustificazione di una distinzione tra l’ordinario
mondo ignorante e la perfetta illuminazione. Dopotutto, ricorda
Nagarjuna ai suoi lettori, tutti i cambiamenti del mondo, comprese le
trasformazioni che portano all’illuminazione, sono possibili soltanto a
causa della causalità interdipendente (pratityasamutpada), ed a sua
volta questa è possibile soltanto perché le cose, i fenomeni, sono privi
di qualunque natura fissa e quindi sono ‘vuoti’ (shunya) e disponibili
alla trasformazione. Il Buddha stesso ha trasformato se-stesso soltanto
a causa dell’interdipendenza e della vacuità, e perciò Nagarjuna
dichiara, "la natura del Tathagata è la stessa natura del mondo". Quindi
questa è la ragione per cui nessuna delimitazione essenziale può essere
fatta fra il mondo del dolore e le pratiche che possono condurre alla
pace, perchè ambedue sono solo il risultato alternativo nel nesso
dell’interdipendenza mondana. Le parole e le etichette che vengono
attaccate sia al mondo che all'esperienza del nirvana non sono strumenti
per separare il grano della vita dalla relativa paglia, né vere
coltivazioni del terreno di esperienza per l’ultra-ambiziosa "gentaglia
quotidiana". Samsara e nirvana, piuttosto, significano nient’altro che
l’assenza di garanzie in una vita piena di desideri, e la possibilità di
cambiamento e di speranza. Nagarjuna asserisce, dicendolo a nome di
tutti i Buddisti, "Noi dichiariamo che qualunque cosa che sorge
dipendentemente è come quel vuoto. Questo modo di designare le cose è
esattamente la Via di Mezzo". Un giuramento Buddista per evitare di
soffrire non può essere preso come una denuncia del mondo, ma soltanto
come un impegno per sfruttare le possibilità per la pace che sono già
all'interno di esso. Le parole del Buddha e le pratiche ispirate dallo
stesso Buddha non sono come piccole bandierine religiose o ideologiche
che contraddistinguono un paese da un altro; piuttosto, il mondo della
sofferenza ed il mondo della pace hanno stessi confini ed estensione che
parlano di sofferenza, ed il Buddha è là soltanto per farvi essere
consapevoli delle possibilità del mondo, e la nostra realizzazione di
queste possibilità dipende esclusivamente da ciò che noi facciamo e da
come interagiamo.
|
4.
Controprova
La posizione apparentemente anti-teorica
presa da Nagarjuna non gli ha creato molti filosofici amici fra i suoi
contemporanei lettori Buddisti o tra i circoli di pensiero Brahmanici.
Di sicuro, invece, vi fu che durante i successivi sette secoli di
pensiero scolastico Buddista, il concetto della ‘vacuità’ fu assai più
validamente articolato, e fu anche ermeneuticamente appropriato in altri
sistemi, con metodi che non necessariamente sarebbero stati approvati da
Nagarjuna. Shunyata fu ben presto riprodotto per estendere significati
teorici non correlati dalla teoria causale in varie sètte Buddiste, per
servire come supporto di una filosofia della coscienza, per la
successiva più illustre scuola Vijnanavada, o Scuola della Cognizione, e
come spiegazione della natura sia epistemologica che ontologica nella
scuola Yogacara-Sautrantika (Logica Buddista). Queste due scuole, nel
deridere lo scetticismo di Nagarjuna, mantennero in India il loro
interesse per uno stile filosofico che permetteva agli intellettuali di
essere presi soltanto sulla base dell’impegno alla tesi, alla
contro-tesi, alle regole della discussione ed agli standard di prova,
cioè, scuole che identificavano la riflessione filosofica con le
dottrine competenti di conoscenza e metafisica. Ciò è tanto più ironico
dato l’evidente tentativo fatto da Nagarjuna per fuor-viare la
possibilità che l'idea di vacuità fosse confutata o co-optata da questo
stile di filosofeggiare, un tentativo ancora conservato nelle pagine
della sua opera, il ‘Vigrahavyavartani’ (La Fine delle Dispute).
‘La Fine delle Dispute’ era in larga misura un lavoro reazionario,
scritto soltanto quando le obiezioni filosofiche furono dirette contro
l’approccio non-essenzialista e anti-metafisico alla filosofia da parte
di Nagarjuna. L’opera fu indirizzata alla relativamente nuova scuola di
pensiero Brahmanica, la scuola di dibattito filosofico di Logica (Nyaya)
che, condotta in modi formali e generalmente in brevi incontri, in India
era durata per circa ottocento anni prima dell’arrivo del primo
letterario sistematico della scuola di logica, Gautama Aksapada.
Parecchi tentativi erano stati fatti dalle scuole Jaina e Buddiste prima
del Nyaya di comporre manuali per il dibattito convenzionale. Ma il
Nyaya portò sulla scena filosofica Indiana una dottrina completa non
soltanto di regole ed etichette del processo di dibattito, ma anche un
intero sistema di inferenza che si distinse fra le forme logicamente
accettabili ed inaccettabili della discussione. Infine, bypassare tutte
le forme di valida discussione era un sistema epistemologico, una teoria
della prova (pramanasastra), che si distinse fra vari tipi di eventi
mentali che potevano essere considerati rivelazioni della verità, o
corrispondenti a veri stati di affari, di quelli che non potrebbero
essere valutati come mediatori della realtà oggettiva. La percezione
sensoriale diretta, la discussione logica valida, l'analogia sostenibile
e l’autorevole testimonianza sono state dai Logici ritenute gli unici
tipi di cognizioni in grado di corrispondere alle cose o agli eventi
reali nel mondo. Potevano servire come prove per le questioni che
vogliamo conoscere. L’approccio del Nyaya, con alcune modifiche, per
secoli venne accettato come "primo principio" filosofico da quasi tutte
le altre scuole di pensiero in India, sia Vediche che non-Vediche.
Infatti, in molti scontri filosofici, prima di penetrare a fondo nelle
sottigliezze e nell'agonismo del dibattito filosofico avanzato, un
allievo si aspettava di passare attraverso i prerequisiti di studio
della grammatica Sanskrita e della logica. Tutto il pensiero e tutte le
scienze positive, dall'agricoltura allo studio Vedico, alla
giurisprudenza, che talora si diceva fossero perfino fondamentali e
totalmente speciosi senza un training di base in "analisi critica"
(anviksiki), che, secondo Gautama Aksapada, era precisamente ciò che il
Nyaya era.
I Logici, diventando presto consapevoli del pensiero di Nagarjuna,
opposero una tagliente critica alla sua posizione della vacuità
(shunyata). Certamente nessuna affermazione, essi insisterono, potrebbe
costringerci a dargli approvazione a meno che non si possa riconoscerne
la verità. Ora, Nagarjuna ci ha detto che la vacuità è la mancanza di
natura fissa ed essenziale che esiste in tutte le cose. Ma se tutte le
cose sono prive di natura fissa, allora questo includerebbe, o no, la
dichiarazione stessa di Nagarjuna che tutte le cose sono vuote? Se uno
dice che tutte le cose sono prive di una natura fissa dovrebbe inoltre
dire che nessuna asserzione, nessuna tesi, come quella di Nagarjuna che
tutte le cose sono vuote, potrebbe esigere il supporto di un riferimento
fisso. E se una tesi così fondamentale ed onni-comprensiva deve
ammettere di non avere in sè un significato nè un riferimento fisso,
allora perchè dovremmo credervi? Piuttosto, la tesi "tutte le cose sono
prive di un'essenza fissa e perciò sono vuote", poiché è una
quantificazione universale e quindi riguarda tutte le cose, inclusa la
tesi, non confuta se stessa? I Logici qui non stanno tanto facendo
l’affermazione che necessariamente lo scetticismo abbandona la sua
stessa posizione, come quando una persona dicendo "Io non so niente"
inconsciamente testimonia almeno la conoscenza di due cose, e cioè, come
usare il linguaggio e la sua stessa ignoranza, come nel caso dell'Ironia
Socratica e del Paradosso del Mentitore. È più il peso diretto che una
filosofia, che rifiuta di ammettere le essenze universali, debba essere
ugualmente auto-contraddittoria, poiché una negazione universale deve
essa stessa essere essenzialmente vera per tutte le cose. Non dovremmo
considerare Nagarjuna come una persona che, precisando ciò che
altrimenti sarebbe un ingegnoso e promettente viaggio filosofico, in un
batter d’occhio, salta sui suoi stessi piedi per uscire dalla porta
principale? Nagarjuna, nel suo ‘La Fine delle dispute’, risponde in due
modi. Il primo è un tentativo di mostrare ai Logici arroganti che, se
essi esaminassero realmente in maniera critica questo fondamentale
concetto di prova che frena la loro teoria della conoscenza, si
troverebbero essi stessi in una posizione non migliore di quella in cui
è l’affermazione di Nagarjuna. Come può, chiede Nagarjuna in una
discussione estesa, qualcosa essere dimostrata in una certezza fissa,
nel senso che presuppone il Naiya? Quando ci si impegna a fare qualcosa
di giusto, un fatto presunto può essere dimostrato soltanto in due modi;
o è auto-evidente o si dimostra vero grazie a qualcos'altro, o da un
certo altro fatto, o da quella parte di conoscenza già assunta come
vera. Ma se siamo d’accordo con le regole stesse della logica e
discussione valida che i Logici Vedici espongono, pensa Nagarjuna,
troveremo che entrambe le supposizioni sono difettose. Prendiamo
l’affermazione che qualcosa possa essere provata come vera in base ad
altri fatti conosciuti come veri. Supponiamo, per usare l’esempio
favorito dal Logico Gautama, che io desideri conoscere quanto pesa un
oggetto. Io lo metto su una bilancia per misurare il suo peso. La
bilancia mi dà un risultato e per un momento questo mi soddisfa; Posso
contare sulla misurazione perché le bilance possono misurare il peso. Ma
attenzione, segnala Nagarjuna, il vostro ricorso all’attendibilità della
bilancia è un presupposto esso stesso, non una certezza della
conoscenza. Non dovrebbe essere testata anche la bilancia? Misuriamo
l'oggetto su una seconda bilancia per verificare l'esattezza della
prima, e la misura concorda con la prima bilancia. Ma, ancora una volta,
io come posso presumere che la seconda bilancia sia esatta? Entrambe le
bilancie potrebbero essere errate. E l'esercizio va avanti, poiché in
linea di principio non c’è nulla che potrebbe evitare che io presuma che
qualsiasi prova che io uso per verificare un pezzo di conoscenza sia
essa stessa sicura oltre ogni dubbio. Così, conclude Nagarjuna, la
supposizione che qualcosa può essere dimostrata con riferimento a un
certo altro fatto presunto, incorre nel problema che la serie di prove
non avrà mai conclusione, e ci lascia ad un regredire infinito. Se
c’impegnassimo alla giustificazione opposta e proponessimo di sapere che
le cose sono reali, perché sono manifeste ed auto-evidenti, allora
Nagarjuna ribatterebbe che noi staremmo facendo un’affermazione vuota.
Il vero scopo dell’epistemologia è di scoprire metodi attendibili di
conoscenza, il che implica che dalla parte del mondo vi siano i fatti e
dalla parte del conoscitore vi siano le prove che rendono quei fatti
visibili alla coscienza umana. Se le cose fossero proprio auto-evidenti,
ogni prova sarebbe superflua, dovremmo conoscere proprio direttamente se
qualcosa è tale com’è oppure no. La pretesa dell’auto-evidenza
distrugge, in un ironico modo che era sempre gradito a Nagarjuna,
l’esigenza stessa di una teoria della conoscenza!
Avendo verificato sia i criteri di prova che le verifiche brevi, i
Logici poterono, e storicamente in effetti lo fecero, provare una teoria
alternativa di reciproca conferma. Non possiamo sapere per certo che un
blocco di pietra pesi troppo per inserirlo in un tempio che sto
costruendo, e non possiamo essere sicuri che la pesa che viene usata per
misurare le pietre sia esatta al cento per cento, però se come risultato
del pesare le pietre con una pesa io metto le pietre nella costruzione e
trovo che esse ben vi si adattano, ho più ragioni per far affidamento
sulla conoscenza che ho ottenuto con le reciproche conferme della
misurazione e del successo pratico. Tuttavia, per Nagarjuna, questo
processo non dovrebbe passare per un’epistemologia che sostiene di
essere così rigorosa come i Logici Brahmanici. Infatti, questo processo
non dovrebbe neppure essere considerato come ‘reciproca conferma’; esso
è in realtà circolare. Io presumo che le pietre abbiano una certa
misurabile massa, così io progetto uno strumento per confermare il mio
presupposto, presumo che la bilancia ne misuri il peso e quindi valuto
gli oggetti, ma in termini di stretta logica sto soltanto presumendo che
questo mutuo processo convalidi le mie supposizioni, mentre in effetti
esso non fa nient'altro che rafforzare i miei preesistenti presupposti
piuttosto che darmi informazioni sulla natura degli oggetti. Allo stesso
modo, possiamo dire che una certa persona è un figlio perché essa ha un
padre, scherza Nagarjuna, e possiamo dire che un'altra persona è un
padre perché ha un figlio, ma a parte questa mutua definizione, potremo
mai noi sapere che particolare persona essa sia? Lo stesso problema,
afferma Nagarjuna, c’è con il progetto di costruire una teoria di
conoscenza in quanto tale. L’epistemologia e l’ontologia sono parassiti
una dell’altra. Le epistemologie sono adeguatamente formulate per
giustificare le preferite visioni del mondo e le ontologie sono assunte
per essere giustificate con sistematiche teorie di prova, ma oltre a
questi progetti che sono mutualmente teoricamente necessari, noi non
abbiamo realmente un modo onesto di conoscere, se essi in realtà danno
credito alle nostre credenze. Nagarjuna, per di più, ha utilizzato gli
strumenti stessi del logico, in questo caso uno standard di errori
argomentativi, per mostrare che è la Logica Brahmanica e la non sua
filosofia della vacuità, che è inciampata su se-stessa prima di avere
una probabilità per poter funzionare nel mondo.
Questa, come detto sopra, fu la prima risposta di Nagarjuna all'accusa
dei Logici che la filosofia della vacuità è fondamentalmente incoerente.
Nondimeno, asserisce ancora Nagarjuna, nell’accusa Nyaya c’è un altro
‘principio’, che la tesi "tutte le cose sono vuote e prive di una natura
fissa", è incoerente. L’affermazione "tutte le cose sono vuote", dice
Nagarjuna, in primo luogo non è realmente una tesi filosofica
convenzionale! Secondo le regole del Nyaya della possibile discussione
logica, il primo punto nel dimostrare che un'asserzione sia vera, è
l’affermazione dichiarata del fatto presunto come tesi nell’argomento
(pratijna). Ora, affinchè qualcosa si qualifichi come tesi filosofica
convenzionale, una affermazione deve essere un fatto che riguarda un
particolare oggetto o stato degli affari conoscibile nel mondo, e per il
Nyaya è un aspetto di dottrina che ogni particolare oggetto o stato
degli affari sia classificabile nelle loro categorie di sostanza,
qualità e attività. In primo luogo, tuttavia, Nagarjuna non compra in
questo mercato di categorie ontologiche e così il Logico non tanto
ingenuamente sta tentando di attirarlo segretamente nel gioco
ontologico, con questa accusa che l'idea della vacuità sia
metafisicamente incomprensibile. Il Logico Brahmanico sta insistendo che
nessuno può ingaggiarsi in una discussione filosofica senza acquisire,
come minimo, una teoria delle essenze e produzioni che circondino come
categorizzare le essenze. È esattamente questo stesso punto, obietta
Nagarjuna, che è eminentemente discutibile! Ma poiché il Logico non
ricambierà a Nagarjuna la cortesia della discussione alle condizioni di
Nagarjuna, il Buddista replica nei loro termini: "se la mia affermazione
(circa la vacuità) fosse una tesi filosofica, allora essa sarebbe
davvero difettosa; ma poiché io non asserisco tesi, allora il difetto
non è certo mio".
Quattro secoli più tardi, ad eccezione dei suoi due più grandi
commentatori, questa stessa posizione di Nagarjuna non fu gradita a
nessuno nella tradizione filosofica Indiana, nè Brahmanica nè Buddista.
Era la posizione di quel tipo di critici designati come vaitandika,
coloro che confutavano le posizioni filosofiche rivali pur non
sostenendo essi stessi alcuna tesi. Malgrado fossero in disaccordo su
altre questioni, nei secoli successivi Brahmanici e Buddisti non
considerarono tale posizione come corretta filosoficamente, perché
mentre una persona che se ne impadroniva poteva esporre le teorie
dubbie, non era mai possibile sperare di imparare da essa la verità
circa il mondo e la vita. Una tale persona, era ritenuta più facilmente
un ciarlatano che non un saggio. Quindi, malgrado il titolo del suo
lavoro, il tentativo di Nagarjuna di reclamare "questione principale" le
teorie di prova, in breve decadde con la fine di tutte le dispute.
Tuttavia, Nagarjuna chiude questo lavoro controverso e assai discusso
col ricordare ai suoi lettori chi egli sia. Prostrandosi al Buddha, il
Maestro, egli parla della interdipendente causalità e della vacuità.
Nagarjuna al suo pubblico dice che: "niente prevarrà per coloro ai quali
la vacuità non prevale, mentre tutto prevarrà per coloro ai quali la
vacuità prevale". Questa è una reiterazione dell'impegno di Nagarjuna,
che la teoria e la prassi non sono una compagnia in cui solo tramite la
precedente giustificazione c’è la susseguente redenzione. Lo scopo della
pratica dopo tutto è la trasformazione, non la fissazione, e così se si
insiste nello sposare la filosofia con la pratica, non si può osservare
una riflessione filosofica nell’immutabile, eterna essenza dell’abituale
epistemologia e metafisica.
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5. Il nuovo Spazio e
Missione Buddista
Può esservi spazio per l’antico dibattito
se Nagarjuna fosse un devoto del tradizionale e classico Buddismo
Theravada, o della sètta Mahayana (grande veicolo), che si accende per
la paternità delle due lettere a lui attribuite. Ben poco si può
speculare da altre opere nel corpus filosofico di Nagarjuna che potrebbe
offrire un qualche sostegno alla supposizione che l'erudito del II°
secolo fosse persino ben informato delle dottrine o dei personaggi del
Grande Veicolo, pur se l’approfondita nozione della vacuità era quella
che Mahayana aveva fissato come sua idea centrale. Le due "epistole
etiche" sono indirizzate allo storico Re feudale (Satvahana)
Gautamiputra Satkarni (ca. 166-196) e dunque danno a Nagarjuna un
plausibile periodo storico. Con i numerosi riferimenti alla supremazia
degli insegna-menti del Grande-Veicolo, esse inoltre descriverebbero
Nagarjuna inequivocabilmente all'interno di questo movimento. Tuttavia,
la mancanza delle versioni originali in Sanskrito del ‘Suhrllekha’
(Lettera ad un Amico) e del ‘Ratnavali’ (La Preziosa Ghirlanda), come
pure l’assenza di ‘importanti’ revisioni nelle edizioni Tibetane e
Cinesi, rende praticamente impossibile ogni definitiva e sicura
attribuzione di esse a Nagarjuna.
Le familiari distinzioni fra i Veicoli Classico e Grande sono alquanto
lise; il conservativo letteralismo scritturale e storico del primo si
oppose contro il revisionismo mitologico del secondo; l'idealizzazione
dell’asceta solitario che persegue la sua propria perfezione nel primo,
contrasta con la visione del bodhisattva angelico e socialmente
impegnato del secondo. Mentre altre opere di Nagarjuna sono pieni di
onorifici passi dedicati solamente al Buddha stesso, le due epistole
abbondano in elogi delle virtù dello stato angelico del bodhisattva,
benchè persino questi si trovano in mezzo a passaggi che esaltano le
perfezioni dell’Ottuplice Sentiero e la nobiltà delle Quattro Verità.
Quale che sia la precisa identificazione settaria di Nagarjuna, egli non
perde mai di vista la comprensione che la pratica del Dharma Buddista è
una nuova specie di Veicolo Umano, un Veicolo inteso non per trasportare
gli umani da un regno ad un altro regno, ma un Veicolo in grado di
generare un nuovo modo di essere persone nell'unico regno dove si è
sempre vissuto.
Le ‘Lettere’ di Nagarjuna al guerra-fondaio Gautamiputra, sono in
qualche modo notevoli per la relativa scarsità di consigli sull'arte di
governare in modo reale. I lunghi sermoni nel ‘Suhllrekha’ (Ad un amico)
sull'interpretazione corretta dei sottili insegnamenti del Mahayana sono
intervallati con le presentazioni catechistiche dei meriti delle virtù
monastiche e questi sono così numerosi che l'autore verso la fine della
lettera concede che persino il re dovrebbe altrettanto mantenere tanti
precetti enumerati quanti ne può, poiché mantenendoli tutti
uguaglierebbe la forza dei più stagionati monaci. Ma tutte queste
sezioni della lettera alquanto sconnesse, che persino all’interno vanno
spesso da un argomento all’altro, fanno sorgere qualche motivo che non
sembra essere coerente con i più tematici approcci all'idea di vacuità
presente nelle altre opere e quel motivo è la supremazia della condotta
virtuosa e della pratica, che ha persino un più alto e più rilevante
ruolo che non l’ottenimento della saggezza.
Questo motivo è di sicuro significativo, dato il fatto che i Veicoli
Classico e Grande, pur presentando entrambi che la saggezza ultima
(prajna) e la compassione (karuna) erano le due virtù preminenti,
discussero a fondo su quale delle due fosse la più alta. Con il
Theravada che optava per la saggezza e il Mahayana per la compassione.
In queste epistole, pur se Nagarjuna avverte che le intenzioni dietro
gli atti morali devono essere intrise di saggezza affinchè i benefici
dell'atto non siano guastati, egli sollecita ripetutamente l'importanza
di un retto comportamento etico. Il Dharma o retta condotta secondo la
legge dell'esistenza del Buddha, ha due funzioni, una che è
caratterizzata da meditativa non-azione e l'altra, egli dice, tramite il
Sentiero verso lla Buddhità, passa attraverso l'azione positiva del
bodhisattva. Poiché, anche se il dharma è sottile e difficile da
comprendere, specialmente se vi è implicata la nozione di vacuità, così
facilmente mal compresa, la relativa pratica con la coltivazione di
intenzioni e attitudini morali, condurrà infallibilmente oltre il nodo
dei dibattiti dottrinali. Oltre questo consiglio generale, che dovrebbe
applicarsi per tutti i monaci e monache, al re è dato il consiglio che
il dharma, come positivo comportamento etico, è anche "la miglior
politica", perchè quando uno promuove socialmente l'adesione al
comportamento etico, la giustizia prevarrà nel regno ed i benefici
aumenteranno per tutti, benefici che i rivali invidieranno aldilà di
qualunque transitoria ricchezza materiale e i falsi sensi di potere.
Nel mondo presente e futuro, dopo tutto, soltanto le azioni hanno
importanza. Infatti, sono proprio le azioni fisiche che portano ad
accumulare, a seconda dei casi, karma meritorio o nocivo, e quindi il
proprio destino risiede esattamente nelle nostre stesse mani. Ma tramite
le azioni effettuate nel campo del samsara, tutti gli immaginabili
cambiamenti sono possibili. Un principe può diventare un povero, sia di
buon grado, come il Buddha, o malvolentieri. Il giovane invecchierà, e
la sua bellezza si trasforma in decrepitezza, mentre l’amicizia può
diventare inimicizia. È questa straziante contingenza del samsara che
così spesso è sperimentata con tale angoscia. Ma, ricorda brevemente ai
suoi lettori Nagarjuna, tutte queste trasformazioni possono altrettanto
facilmente andare nel senso opposto, con la povertà materiale che
sboccia nella ricchezza spirituale, i padri che rinascono come figli e
le madri come giovani mogli, e le ferite dei conflitti che sono suturate
con il filo della riconciliazione. Causalità interdipendente e vacuità
del cambiamento dipendono dal fatto che le cose possono andare sempre in
un senso o nell’altro, e quindi il senso in cui esse in realtà vanno
dipende intimamente dai nostri propri atti. E questo porta uno a capire
che per il Buddista il luogo adeguato della pratica non può essere solo
il monastero, rimosso mentre prova a uscire dai meccanismi di stato,
economia, classe sociale, e gli altri tumultuosi vari affari degli
esseri sofferenti. Poichè non c’è differenza fra samsara e nirvana, a
causa della vacuità e della natura costantemente mutevole di entrambi,
quindi proprio il cambiamento che un Buddista effettua su di sè ed
intorno a sé, è un cambiare il mondo, e questo costante e proficuo
cambiamento è la legittima missione del Buddismo. Con la sua propria
particolare e visionaria interpretazione del concetto di vacuità di
tutte le cose, Nagarjuna ha perciò intessuto una posizione
anti-metafisica ed anti-epistemologica insieme ad un'etica della azione
che era, in riga con le sue proprie implicazioni, di trasformare
l’auto-comprensione della tradizione Buddista per i millenni a venire.
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6. Riferimenti ed
Ulteriori Letture
Opere di Nagarjuna per i Buddhisti
Mulamadhyamakakarika, (Fundamental Verses on the Middle Way)
translated as The Philosophy of the Middle Way by David J. Kalapuhana,
SUNY Press, Albany, 1986.
Sunyatasaptati, (Seventy Verses on Emptiness) translated by Cristian
Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of
Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 35-69.
Yuktisastika, (Sixty Verses on Reasoning) translated by Christian
Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of
Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 103-19.
Pratityasamutpadahrdaya, (The Constituents of Dependent Arising)
translated by L. Jamspal and Peter Della Santina in Journal of the
Department of Buddhist Studies, University of Delhi, 2:1, 1974, 29-32.
Bodhisambharaka, (Preparation for Enlightenment) translated by
Christian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy
of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 228-48.
Opere di Nagarjuna per i Sistemi Brahmanici
Vigrahavyavartani, (The End of Disputes) translated as The
Dialectical Method of Nagarjuna by Kamaleswar Bhattacharya, Motilal
Banarsidass, Delhi, 1978.
Vaidalyaprakarana, (Pulverizing the Categories) translated as
Madhyamika Dialectics by Ole Holten Pind, Akademisk Forlag, Copenhagen,
1987.
Epistole Etiche di Nagarjuna
Suhrllekha, (To a Good Friend) translated as Nagarjuna's Letter
to King Gautamiputra by L. Jamspal, N.S. Chophel and Peter Della
Santina, Motilal Banarsidass, Delhi, 1978.
Ratnavali, (Precious Garland) translated as The Precious Garland
and the Song of the Four Mindfulnesses by Jeffrey Hopkins, Lati Rimpoche
and Anne Klein, Vikas Publishing, Delhi, 1975.
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Tradotto da
Aliberth (Alberto Mengoni) nel mese di Marzo 2008, per conto del Centro
Nirvana, senza scopo di lucro, ma esclusivamente per il bene degli
esseri di buona volontà. OM MANI PADME HUM |
Da:
http://www.centronirvana.it/articolidharma47.htm#2
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