|
|
Antologia di testi filosofici
buddhisti tratta dal "Canone Pali"
[*]
1. Il clan degli Shakya dimorava lungo il fiume Rohini che scorre tra le colline a sud della catena dell’Himalaya. Il loro re, Shuddhodana Guatama, stabilì la capitale a Kapilavastu, fece costruire un grande castello e governò saggiamente, meritandosi il favore del suo popolo. La regina si chiamava Maya. Era la figlia dello zio del re, che regnava su un distretto confinante dello stesso clan Shakya. Per vent’anni essi non ebbero figli. Ma una notte la regina Maya fece uno strano sogno, nel quale vedeva un elefante bianco entrarle nel ventre attraverso il lato destro del petto, e divenne gravida. Il re e il popolo attendevano con impazienza la nascita di un principino. Seguendo la tradizione, la regina fece ritorno alla casa dei genitori per partorire, e lungo la strada, sotto un bel sole primaverile, decise di riposarsi nel Giardino di Lumbini. Tutto intorno a lei era un fiorire festoso di Ashoka. Deliziata, allungò il braccio destro per strapparne un ramoscello e così facendo diede alla luce un principe. La natura circostante esprimeva una profonda delizia, glorificando la regina ed il bimbo regale; cielo e terra ne gioivano. Questo giorno memorabile era l’otto di aprile. Incomparabile fu la felicità del re. Al figlio diede il nome di Siddharta, che significa "Ogni desiderio è stato pienamente realizzato". 2. Nel palazzo reale, tuttavia, la felicità fu subito seguita dallo sconforto, poiché, pochi giorni dopo, l’amata regina Maya morì improvvisamente. La sorella minore, Mahaprajapati, divenne la madre adottiva del bimbo e lo tirò su con cura ed amore. Un eremita, chiamato Asita, che viveva sulle montagne poco distanti, notò che dal castello si levava un chiarore straordinario. Interpretandolo come un buon auspicio discese al palazzo e gli fu mostrato il bimbo. Così predisse: "Questo principe, se rimane a palazzo, da adulto diverrà un grande re e soggiogherà il mondo intero. Ma se abbandona la corte per abbracciare una vita religiosa, sarà un Buddha, il Salvatore del mondo". In principio il re accolse con piacere questa profezia, ma in seguito iniziò a preoccuparsi della possibilità che il suo unico figlio lasciasse il palazzo per diventare un monaco errante. All’età di sette anni il Principe cominciò a prendere lezioni sulle arti civili e militari, ma i suoi pensieri erano più naturalmente orientati verso un altro genere di cose. Un giorno di primavera uscì dal castello in compagnia del padre. Insieme stavano osservando un contadino intento all’aratura, quando notò un uccello piombare al suolo e carpire via un piccolo lombrico che era stato rigirato dall’aratro del contadino. Il principino si sedette all’ombra di un albero e ripensò alla scena, mormorando tra sé e sé: "Ahimè! Tutte le creature viventi si uccidono l’un l’altra?" Il Principe, che aveva perduto la madre subito dopo la nascita, fu profondamente colpito dalla tragedia di queste minuscole creature. La ferita infertagli nello spirito diventava sempre più profonda giorno dopo giorno, man mano che cresceva; come una piccola cicatrice sul tronco di un giovane albero, la sofferenza insita nella vita umana finì con l’imprimersi a fondo nella sua mente. La preoccupazione del re cresceva sempre di più, poiché egli teneva a mente la profezia dell’eremita e tentava in ogni modo possibile di consolare il Principe, volgendo altrove i suoi pensieri. Pertanto, decise che il figlio, compiuto il diciannovesimo anno, avrebbe sposato la Principessa Yashodhara, la figlia di Suprabuddha, signore del castello Devadaha e fratello della defunta regina Maya. 3. Per dieci anni, nei diversi Padiglioni di primavera, autunno e della stagione delle piogge, il principe fu immerso in giri di musica, danza e piacere sensuale, ma sempre i suoi pensieri tornavano a fissarsi sul problema della sofferenza ogni qual volta si sforzasse di afferrare il vero significato della vita umana. "I lussi del palazzo, questo corpo forte e sano, questa giovinezza ricolma di gioia! Cosa significano tutte queste cose per me?" andava meditando tra sé e sé. "Un giorno potremmo ammalarci, e in ogni caso dobbiamo invecchiare; non c’è scampo dalla morte. L’orgoglio della giovinezza, l’orgoglio della salute, l’orgoglio di esistere – le persone assennate dovrebbero gettar via tutto ciò." "Un uomo che lotta per l’esistenza sarà naturalmente portato a cercare qualcosa per cui valga la pena spendere la propria vita. Ci sono due modi di cercare – un modo giusto ed uno sbagliato. Se cerca nella maniera errata, costui sarà obbligato comunque a riconoscere che malattia, vecchiaia e morte sono inevitabili, ma bramerà con tutte le forze il loro opposto. Se cerca nella maniera giusta, comprenderà la vera natura di malattia, vecchiaia e morte, e fonderà il senso della vita in ciò che trascende tutte le umane sofferenze. Nella mia vita di piaceri e mollezze sto percorrendo, a ben guardare, il sentiero sbagliato." 4. Questo travaglio spirituale afflisse continuamente il principe fino al giorno in cui nacque il suo unico figlio, Rahula, ed egli compì ventinove anni. Tale evento segnò inequivocabilmente il punto di svolta, poiché Siddharta decise di abbandonare il palazzo e cercare la soluzione al dilemma che lo affliggeva votandosi alla vita vagabonda del mendicante. Così una notte lasciò il castello in compagnia del suo auriga, Chandaka, e del suo cavallo preferito, Kanthaka, bianco come la neve. L’angustia che lo attanagliava non ebbe fine e molti demoni lo tentarono rivolgendogli suadenti parole: "Faresti meglio a ritornare sui tuoi passi, al castello, giacché il mondo intero potrebbe presto appartenerti." Ma egli rispose al tentatore che non bramava in cuor suo il mondo intero. Così, col cranio rasato volse i suoi passi verso sud, portando con sé solo una ciotola da mendicante. Innanzitutto, il principe fece visita all’eremita Bhagava e osservò le sue pratiche ascetiche. Quindi, si recò presso Arada Kalama e Udraka Ramaputra per apprendere i loro metodi finalizzati al conseguimento dell’Illuminazione attraverso la meditazione; ma dopo aver praticato con loro per un certo periodo di tempo si convinse che non lo avrebbero condotto all’Illuminazione. Infine, partì per la provincia di Magadha e si diede alle pratiche ascetiche dimorando nella foresta di Uruvilva sulle rive del fiume Nairanjana, che scorre presso il villaggio di Gaya. 5. I metodi della sua pratica furono incredibilmente rigorosi. Pungolava il suo spirito con il fiero intento che "nessun asceta nel passato, nessuno nel presente e nessuno nel futuro, hanno praticato né praticheranno con maggiore forza e concentrazione di quanto faccia io." Tuttavia Siddharta non riusciva ancora a centrare il suo obiettivo. Dopo sei anni trascorsi nella foresta abbandonò definitivamente la pratica dell’ascetismo. Andò a prendere un bagno nelle acque del fiume e accettò una ciotola di latte dalle mani di Sujata, una fanciulla che viveva nel vicino villaggio. I cinque compagni che avevano condiviso con il principe i sei anni di dure pratiche ascetiche furono turbati e indignati dal fatto che egli osasse prendere del latte dalle mani di una fanciulla; disprezzarono quella che ai loro occhi sembrava debolezza e lo abbandonarono. Così il principe fu lasciato solo. Si sentiva ancora debole, ma pur correndo il rischio di perdere la vita, affrontò un altro periodo di meditazione, dicendo a sé stesso, "Il sangue può anche prosciugarsi, la carne decadere e le ossa giacere sparpagliate qui intorno, ma giammai abbandonerò questo luogo finché non avrò scoperto la via che conduce all’Illuminazione." Ebbe inizio una lotta intensa e senza tregua. La disperazione fece breccia nel suo spirito e lo empì di pensieri confusi, ombre tenebrose pendevano sul suo capo, e si ritrovò stretto d’assedio dalle lusinghe dei demoni. Con attenzione e pazienza le esaminò una per una e le rigettò tutte. Fu una battaglia durissima, al punto che il suo sangue scorreva sempre più rarefatto, la carne andava sfaldandosi e le ossa erano sul punto di rompersi. Ma quando la stella del mattino apparve nel cielo ad oriente, la lotta era terminata e la mente del principe era chiara e luminosa come il giorno nascente. Alla fine, egli aveva trovato la via che conduce all’Illuminazione. Era l’otto dicembre, quando Siddharta divenne un Buddha all’età di trentacinque anni. 6. Da qual giorno in poi il principe fu conosciuto con nomi differenti: c’era chi parlava di lui come del Buddha, Colui che è Perfettamente Illuminato, Tathagata; altri lo appellavano Shakyamuni, il Saggio della casata Shakya; altri ancora "Colui che l’intero mondo onora". Per prima cosa, egli diresse i suoi passi verso Mrigadava nel Varanasi dove si trovavano i cinque monaci che avevano trascorso con lui i sei anni della sua vita ascetica. Al principio essi lo evitarono deliberatamente, ma dopo che ebbero parlato con lui, gli prestarono fede e divennero i suoi primi discepoli. In seguito si recò al castello di Rajagriha e convertì alla sua causa il re Bimbisara che gli si era sempre dimostrato amico. Da qual momento in poi, se ne andò vagando per la regione sostentandosi di elemosine ed insegnando agli uomini ad accettare il suo modo di vivere. E la gente si rivolse a lui come l’assetato agogna acqua e l’affamato cibo. Due grandi discepoli, Sariputra e Maudgalyayana e i loro duemila seguaci si convertirono alla sua dottrina. Al principio il padre del Buddha, re Shuddhodana, ancora sofferente nel profondo del cuore a causa della decisione del figlio di abbandonare il palazzo, mantenne le distanze, ma in seguito divenne un suo fervente discepolo. Mahaprajapati, la madre adottiva del Buddha, la principessa Yashodhara, sua moglie, e tutti i membri del clan degli Shakya iniziarono a seguirlo. Col passare del tempo, i suoi devoti e seguaci divennero moltitudini. 7. Per quarantacinque anni il Buddha andò in giro per la regione pregando e persuadendo uomini e donne a seguire la sua dottrina. Ma giunto alla venerabile età di ottant’anni, nei pressi di Vaisali lungo la strada che collega Rajagriha a Shravasti, cadde ammalato e predisse che entro tre mesi sarebbe entrato nel Nirvana. Si mise nuovamente in viaggio finché non raggiunse Pava dove la sua malattia si aggravò ulteriormente per aver mangiato del cibo offertogli da Chunda, un fabbro. Comunque, a dispetto della grande sofferenza e debolezza, egli raggiunse la foresta che confina con Kusinagara. Giacendo tra due grandi alberi di sala, egli continuò ad ammaestrare i suoi discepoli fino all’ultimo momento. Così il Buddha, dopo aver portato a compimento il suo lavoro di maestro, il più grande che la storia ricordi, entrò nello stato di quiete assoluta. Sotto la guida di Ananda, il discepolo favorito del Buddha, il suo corpo fu cremato dagli amici a Kusinagara. Sette sovrani delle province confinanti oltre al re Ajatasatru chiesero che le reliquie fossero divise tra di loro. Il popolo di Kusinagara in un primo tempo si oppose e la disputa rischiò di trasformarsi in guerra aperta; ma grazie ai buoni consigli di un saggio chiamato Drona, la crisi rientrò e le reliquie furono ripartite tra gli otto grandi regni. Le ceneri della pira funeraria e la giara di terracotta che conteneva le reliquie furono donate ad altri due sovrani per essere onorate alla stessa maniera. Così vennero erette dieci grandi torri per commemorare il Buddha e per conservare le sue reliquie e ceneri.
1. Sotto gli alberi di sala a Kusinagara, appressandosi la fine, Buddha rivolse queste ultime parole ai suoi discepoli: "Fate di voi stessi una luce. Contate su voi stessi, e non siate dipendenti da nessun altro. Lasciatevi guidare dai miei insegnamenti come da una luce. Fate affidamento su di loro e non legatevi a nessun’altra dottrina. Considerate bene il vostro corpo: abbiate sempre presente la sua impurità. Ben sapendo che tanto il dolore quanto il piacere sono parimenti causa di sofferenza, come potete essere indulgenti verso i suoi desideri? Considerate bene il vostro ‘io’: riflettete sulla sua transitorietà; come potete esser delusi da ciò che sempre muta, coltivare orgoglio ed egoismo, sapendo che tutto ciò conduce inevitabilmente alla sofferenza? Considerate bene tutti gli esseri che consideriamo sostanziali; è forse possibile trovare in mezzo a loro un qualche ‘sé’ permanente? Cosa sono se non aggregati che presto o tardi si sbricioleranno in tante parti e si perderanno nel nulla? Non lasciatevi confondere dall’universalità della sofferenza, ma seguite il mio insegnamento, anche dopo la mia morte, e sarete liberi dalla sofferenza. Fate questo e sarete davvero miei discepoli." 2. "Miei discepoli, gli insegnamenti che vi ho donato non dovranno mai cadere nell’oblio né esser abbandonati. Sono da conservare come un tesoro, da meditare e da mettere in pratica. Se batterete questa via sarete sempre felici." "Il cuore della dottrina consiste nel controllo della vostra mente. Se riuscirete a dominare i pensieri e a gettar via l’egoismo, manterrete una condotta di vita giusta, la mente pura e il parlare degno di fede. Se terrete sempre a mente la transitorietà della vita, sarete in grado di far fronte all’egoismo e alla paura, ed eviterete tutti i mali e le sofferenze che da essi derivano." "Se scoprite la vostra mente in preda al dubbio delle passioni e sprofondata nella brama dell’egoismo, dovete sopprimere la tentazione e riprendere il controllo di voi stessi; ciascuno di voi sia il signore e il dominatore della propria mente." "La mente può renderci un Buddha, oppure trasformarci in bestie. Si ci si lascia sedurre dall’errore, dalla brama di esistere e di possedere, si diventa simili a demoni; al culmine dell’Illuminazione, si diventa Buddha. Suvvia, tenete sotto controllo la mente e non lasciate che abbandoni il retto sentiero." 3. "Abbiate rispetto l’uno dell’altro, seguite i miei insegnamenti e mettete da parte eventuali dispute; non respingetevi e non separatevi come fanno acqua e olio, ma siate un tutt’uno come latte e acqua. "Applicatevi insieme allo studio, imparate l’uno dall’altro, praticate i miei insegnamenti riuniti in comunità. Non sprecate tempo ed energie nella vana accidia e nella polemica. A tempo debito godetevi i fiori dell’Illuminazione e, quando sarà maturo, il frutto del retto sentiero. "Gli insegnamenti che vi lascio in eredità, li ho ottenuti sperimentandoli io stesso in prima persona. Seguite questi insegnamenti e conformatevi al loro spirito in ogni occasione." "Se li lascerete negletti, significa che non mi avete mai realmente incontrato. Significa che siete lontani da me, nonostante ora vi troviate presso di me; ma se accettate e mettete in pratica quanto vi ho insegnato, allora mi sarete sempre vicini, non importa quanto siate lontani nello spazio e nel tempo." 4. "Miei discepoli, la fine si va approssimando, la nostra separazione è vicina, ma non lamentatevi. La vita è un continuo cambiamento; nessuno può sfuggire alla dissoluzione del corpo. È questo ciò che dimostrerò con la mia morte, col corpo che cadrà a pezzi come un carro in rovina." "Non lamentatevi vanamente, ma pensate che nulla è permanente e apprendete da ciò la vanità del vivere umano. Non attaccatevi all’inopportuno desiderio che quanto è per sua essenza mutabile possa diventare immutabile." "Il demone di questi desideri mondani è sempre alla ricerca di opportunità per offuscare la mente. Se una vipera vive nascosta nella vostra stanza e voi desiderate dormire in pace, dovete prima scacciarla fuori dall’uscio." "Occorre che rompiate le catene delle passioni mondane e le gettiate via come fareste con una vipera. Proteggete la vostra mente con attenzione." 5. "Miei discepoli, è giunto il mio ultimo momento, ma non dimenticate che la morte è soltanto la fine del corpo fisico. Il corpo è nato dai genitori ed è stato nutrito col cibo; pertanto malattia e morte sono inevitabili." "Ma il vero Buddha non è un corpo umano: - è Illuminazione. Un corpo umano deve morire, ma la Saggezza dell’Illuminazione esisterà per sempre nella verità del Dharma, e nella pratica del Dharma. Chi vede soltanto il mio corpo in disfacimento, non vede veramente me. Soltanto chi accetta il mio insegnamento si incontra realmente con me." "Quando sarò morto, il Dharma sarà il vostro maestro. Seguite il Dharma e in ogni istante sarete presso di me." "Durante gli ultimi quarantacinque anni della mia vita, non ho omesso nulla dai miei insegnamenti. Non c’è nessuna dottrina segreta, nessun significato nascosto; ogni cosa vi è stata dichiarata e trasmessa apertamente e con chiarezza. Miei cari discepoli, ecco la fine. Fra un momento, trapasserò nel Nirvana. Questa è la mia ultima istruzione."
DHARMA (DOTTRINA) 1. Il mondo è pieno di sofferenza. La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, malattia e morte sono sofferenza. Incontrare un uomo che si odia è sofferenza, essere separato da chi si ama è sofferenza, combattere vanamente per soddisfare i propri bisogni è sofferenza. Tant’è, una vita non libera dal desiderio e dalla passione è sempre mescolata con l’angoscia. Questa è chiamata la Verità della Sofferenza. La causa della sofferenza umana si trova indubbiamente nelle bramosie del corpo fisico e nelle illusioni della passione mondana. Se queste brame e illusioni sono ricondotte alla loro fonte, si scopre che traggono la loro ragion d’essere, in ultima istanza, dagli intensi desideri legati agli istinti fisici. Così, il desiderio, fondandosi su una ben robusta base di volontà-di-vivere, va in cerca di quanto egli avverte desiderabile, persino quando ciò coincide con la morte. Questa è chiamata la Verità della Causa della Sofferenza. Se il desiderio, che giace alla radice di tutte le passioni umane, viene rimosso, allora la passione sarà annichilita e con essa avranno fine tutte le umane sofferenze. Questa è chiamata la Verità della Cessazione della Sofferenza. Per raggiungere uno stato scevro di desiderio e di passione, occorre seguire un determinato Sentiero. Le tappe di questo Nobile Ottuplice Sentiero sono: Retta Visione, Retto Pensiero, Retto Discorso, Retto Intendimento, Retto Stile di Vita, Retto Sforzo Cosciente, Retta Consapevolezza e Retta Concentrazione. Questa è chiamata la Verità del Nobile Sentiero che porta alla Cessazione della Causa della Sofferenza. La gente dovrebbe tenere bene a mente queste Verità, perché il mondo è pieno di sofferenza e si vuol sfuggire alla sua morsa, occorre sciogliere uno ad uno i nodi della passione che ci incatena al mondo ed è l’unica vera causa di ogni angoscia e tribolazione. Lo stile di vita di colui che si è lasciato dietro ogni legame con la brama e l’angoscia di esistere nel mondo può esser afferrato e conosciuto attraverso l’Illuminazione, e l’Illuminazione può esser ottenuta solo da chi si sottopone con pieno convincimento ed energia alla disciplina del Nobile Ottuplice Sentiero. 2. Tutti coloro i quali sono alla ricerca dell’Illuminazione devono comprendere appieno la Nobile Quadruplice Verità. Senza tale comprensione, essi andranno vagando qua e là in un circolo senza fine di domande e risposte, invischiati nell’intricata matassa delle illusioni di cui è intessuta la vita. Di quanti sono riusciti a far propria questa Nobile Quadruplice Verità si dice che "hanno acquistato gli occhi dell’Illuminazione". Pertanto, chi vuol seguire gli insegnamenti del Buddha dovrebbe concentrare la sua mente su questa Quadruplice Nobile Verità e sforzarsi, passo dopo passo, di rendere sempre più chiaro il suo profondo significato. In tutti i tempi, un santo, se è un vero santo, è colui che ha compreso questo e lo insegna agli altri. Quando qualcuno comprende in profondità la Nobile Quadruplice verità, allora il Nobile Ottuplice Sentiero lo guiderà lontano da ogni forma di attaccamento; e se è libero dall’attaccamento, non avrà conti da saldare col mondo, non ucciderà, né ruberà, né commetterà adulterio, né frode, né abuso, né prevaricazione, non proverà invidia, non smarrirà la propria moderazione, né dimenticherà la transitorietà della vita: sarà un uomo giusto. 3. Seguire il Nobile Sentiero è come entrare in una stanza buia con una lume in mano: le tenebre saranno rischiarate e la stanza, man mano che si procede, si riempirà di luce. Chi capisce il significato delle Nobili Verità ed ha imparato a seguire il Nobile Sentiero ha con sé, in ogni istante, la luce della saggezza che va diradando le tenebre dell’ignoranza. Buddha rappresenta una guida per gli uomini, solo per il fatto di aver indicato loro la Nobile Quadruplice Verità. Quanti riescono a comprenderla appieno ottengono l’Illuminazione; saranno loro, uomini in carne ed ossa, a guidare e ad aiutare gli altri a far piazza pulita delle illusioni mondane e a divenire degni di fiducia. Quando la Nobile Quadruplice Verità diviene manifesta, tutte le sorgenti delle umane passioni, inevitabilmente, si seccano. Grazie a questa Nobile Quadruplice Verità, ai discepoli del Buddha si schiuderanno tutte le altre preziose verità che da essa discendono; lungo il cammino otterranno la saggezza e il discernimento per comprenderne a fondo il significato, e saranno capaci di predicare il cuore del Dharma a tutti gli uomini della terra.
1. Ci sono cause per tutte le sofferenze umane, e c’è un modo per farle cessare, poiché ogni fenomeno nel mondo è il risultato di una vastissima occorrenza di cause e condizioni, e ciascuno di essi scompare e diviene nulla non appena queste cause e condizioni cambiano e passano via. La pioggia cade, il vento soffia, le piante fioriscono, i frutti maturano e un soffio li fa cadere a terra. Questi fenomeni sono tutti correlati con cause e condizioni, si manifestano grazie al loro apporto, e cessano di esistere nel momento in cui queste cause e condizioni mutano. La nascita di ciascuno di noi è condizionata dalla parentela e dalla discendenza. Il nostro corpo è nutrito dal cibo: il nostro spirito si forma attraverso l’insegnamento e l’esperienza. Quindi, sia la carne che lo spirito dipendono da determinate condizioni e si trasformano quando queste condizioni cambiano. Come una rete è costituita da una serie di nodi intrecciati tra di loro, così ogni cosa in questo mondo è connessa ad ogni altra da una serie di nodi. È un errore pensare che vi sia qualcosa di separato, isolato da tutto il resto. Tutti i fenomeni sono intrecciati in un'unica trama. Il mondo è una rete poiché è composto da una serie di nodi interconnessi, e ogni singolo nodo, ogni singolo essente ha il suo posto, la sua funzione e le sue responsabilità in relazione a tutti gli altri nodi. 2. I germogli spuntano giacché si realizzano una serie di condizioni favorevoli al loro germogliare. E così una mano invisibile fa sì che i frutti si stacchino dai rami. I germogli non appaiono autonomamente, né una foglia né un frutto cadono a terra da sé, se non è il momento giusto. Così tutte le cose appaiono, si fanno innanzi e passano via; nessun fenomeno è immune dal cambiamento. È la legge sempiterna e immutabile di questo mondo che tutto si crei attraverso una serie di cause e condizioni e tutto, allo stesso modo, scompaia; tutto passa, niente è durevole.
1. Qual’è la sorgente della disgrazia, dell’afflizione, del dolore e dell’angoscia che tormentano gli uomini? Non può che essere individuata nel semplice fatto che la gente, di norma, è dominata dal desiderio. Gli uomini si ostinano a perseguire esistenze all’insegna della ricchezza e del prestigio sociale, della comodità e del piacere, dell’eccitazione e dell’autocompiacimento, ignorando che è proprio il tenace desiderio ed attaccamento per queste cose a generare la loro sofferenza. Sin dalle sue origini, il mondo degli uomini si è riempito di innumerevoli calamità, ben al di sopra del semplice ed inevitabile fatto di dover cadere malati, patire la vecchiaia, morire. Ma se si considerano con attenzione tutti questi fatti, ci si deve convincere che alla base di tutte le sofferenze giace il principio del desiderio smodato. Se l’avidità può esser rimossa, il dolore che permea ogni essere umano scomparirà in una bolla di sapone. L’ignoranza si manifesta nell’avidità che riempie e ottunde la mente dell’uomo. Essa deriva dal fatto che gli uomini non sono consapevoli della vera ragione che determina la successione dei fenomeni e tutte le cose della vita. Dall’ignoranza e dall’avidità si generano desideri impuri per cose che sono, di fatto, non ottenibili, ma per le quali gli uomini, resi ciechi, si affannano senza posa, come mosche intrappolate in un bicchiere. A causa di ignoranza ed avidità si vedono distinzioni e discriminazioni là dove, in realtà, non ve ne sono. Nel comportamento umano in sé e per sé non vi sono discriminazioni né di giusto né di sbagliato, né di buono né di cattivo; sono gli uomini ad immaginare e a giudicare questo come buono quest’altro come cattivo, giusto o ingiusto. Spesso il giudicare è materia di sogno. È per ignoranza che gli esseri umani sempre si crogiolano in cattivi pensieri, smarriscono il giusto punto di vista e, aggrappati al proprio ego illusorio, producono cattive azioni. Un circolo vizioso da cui risulta un attaccamento forzato ad una vita di inevitabili delusioni. Le azioni diventano il campo dell’ego, il complesso lavorio di discriminazione dell’intelletto il seme gettato nel solco dell’aratro, la mente oscurata dalle tenebre dell’ignoranza; i desideri smodati sono come la pioggia che agisce da fertilizzante con cui l’ostinata forza volitiva dell’ego provvede ad irrigare il campo; qui mette radice la concezione del male, da qui la delusione e lo sconforto esistenziale traggono alimento. 2. In realtà, quindi, è la mente, la mente di ciascun uomo, a causare delusioni su delusioni con il loro inevitabile bagaglio di sconforto, lamento, pena ed agonia. L’intero mondo della delusione non è altro che un’ombra generata dalla mente. E, d’altro canto, è pur sempre da questa stessa mente che si manifesta il mondo dell’Illuminazione. 3. Il mondo dell’illusione/delusione si basa su tre errati modi di considerare la realtà. Se si rimane emozionalmente legati a questi modi di pensare, allora tutte le cose del mondo esistono ma solo per esser negate. Per prima viene la tesi di chi dice che tutta l’umana vicenda è prodotta esclusivamente dal destino o dalla fatalità; in secondo luogo, c’è chi sostiene con fermezza che ogni cosa è creata da Dio e controllata dal Suo volere; infine, altri ritengono che ogni fenomeno accada a caso senza che vi sia alcuna causa o condizione a determinarlo. Se tutto fosse stato deciso una volta sola dal destino, se le azioni, le buone come le cattive, fossero predeterminate e a ciascuno, da sempre, fosse stata assegnata la sua parte di prosperità o di disgrazia; in tal caso, nulla esisterebbe che non fosse stato preordinato. Allora tutti i progetti e le buone intenzioni coltivate dagli uomini in funzione dello sviluppo e del progresso sarebbero null’altro che vanità di vanità e il genere umano rimarrebbe senza alcuna speranza. Alla stessa inevitabile conclusione si giunge percorrendo sino in fondo le altre due strade, giacché, se ogni cosa, in ultima istanza, fosse nelle mani di un Dio inconoscibile, o del cieco caso, quale speranza potrebbe esserci per gli uomini al di là di una rassegnata sottomissione? Non c’è da meravigliarsi che la gente, prestando fede a queste concezioni del mondo, finisca col perdere la speranza e col trascurare i buoni propositi di agire con saggezza ed evitare il male. Infatti, questi tre modi di concepire la realtà sono ugualmente errati: ogni fenomeno è soltanto una successione di apparenze che derivano dall’accumulo di determinate cause e condizioni.
LA TEORIA DELL’UNICITÀ DELLA
MENTE E IL REALE STATO DELLE COSE 1. Sebbene sia il corpo che la mente appaiano reali grazie ad una concomitanza di cause, questo non implica che esista un ego-personalità in sé. Poiché il corpo non è altro che un aggregato di elementi, esso è, per sua natura, impermanente. Se il corpo fosse un ego-sostanziale, potrebbe fare qualunque cosa secondo la propria volontà. Un re ha il potere di far onorare o di far punire un uomo, a suo completo piacimento, e tuttavia egli si ammala come chiunque altro indipendentemente dal proprio intento o desiderio, volente o nolente diviene vecchio; i casi della vita spesso non hanno niente a che vedere con i suoi desideri. Né la mente può considerarsi un ego-personalità. La mente umana è un aggregato di cause e condizioni. Come tutto, è in costante cambiamento. Se la mente fosse un ego-sostanziale, potrebbe agire a sua discrezione realizzando tutto quanto desideri. Ma la mente spesso vola via da ciò che un attimo prima ha riconosciuto come giusto e con riluttanza si mette sulle tracce del male. Ancora una volta, nulla sembra accadere esattamente come il suo ego voleva avvenisse. 2. Posti dinanzi alla questione se il corpo sia durevole oppure impermanente, non si potrebbe che rispondere "impermanente". E lo stesso, interrogati se un’esistenza impermanente generi felicità o sofferenza, si è generalmente portati a rispondere "sofferenza". Credere che una cosa siffatta intrinsecamente instabile, mutevole e soggetta alla sofferenza sia un che di sostanziale, un "Io personale" che funga da sostrato all’esperienza, è di certo un grave errore. La mente umana è parimenti impermanente e cagione di sofferenza; nulla vi è in essa che possa esser identificato con un "Io personale". La vera natura di corpo e mente, ovvero di ciò che ci determina in quanto individui viventi, e da cui scaturisce la visione del mondo esterno in quanto altro da sé, non ha nulla a che vedere con i concetti di ‘io’ o di ‘mio’. Questo ostinato persistere della mente nell’idea di ‘io’ e di ‘mio’ è frutto del cieco attaccamento a desideri impuri e dell’ignoranza che ne deriva. Dal momento che sia il corpo che le circostanze contingenti che lo determinano scaturiscono da una serie di cause e condizioni concomitanti, la loro essenza è l’incessante mutevolezza, il divenire che non conosce fine. La mente umana, nel suo trasformarsi senza posa, è simile all’acqua corrente del fiume o alla fiamma danzante della candela; come una gibbone che si slancia da un ramo all’altro con frenetica determinazione, allo stesso modo la mente non cessa neppure un attimo di agitarsi mutando. Il saggio, vedendo ed ascoltando questo discorso così com’è, chiaro ed evidente, dovrebbe lasciar cadere ogni attaccamento al corpo e alla mente, se intende ottenere l’Illuminazione. 3. Ci sono cinque cose che nessuno è in grado di realizzare in questo mondo: primo, smettere di invecchiare mentre si sta diventando vecchi; secondo, evitare all’infinito di ammalarsi; terzo, sfuggire alla morte; quarto, negare il processo di estinzione mentre è in atto; quinto, negare la completa e perfetta realizzazione di tale processo. È normale che chiunque, presto o tardi, si confronti con questi fatti della vita. La maggior parte della gente, sforzandosi pazzamente di evitarli o rimandarli nel tempo, ne ricava un’immensa sofferenza; ma coloro i quali hanno prestato orecchio all’insegnamento del Buddha non soffrono poiché hanno compreso la vera natura di questi eventi e ne accettano l’inevitabilità. Ci sono quattro verità in questo mondo: primo, tutti gli esseri viventi sorgono dall’ignoranza; secondo, tutti gli oggetti del desiderio sono impermanenti, incerti e arrecano sofferenza; terzo, tutte le cose esistenti sono al pari impermanenti, incerte e soggette al dolore; quarto, non essendovi nulla di sostanziale e permanente, ‘ego’ e ‘mio’ sono soltanto parole, chimere evocate dalla mente e non corrispondono a nulla di reale. Queste verità che tutto è impermanente, soggetto al divenire ed insostanziale, non hanno nessuna connessione col fatto che Buddha sia apparso o non apparso in questo mondo. Queste verità sono certe ed evidenti a tutti; Buddha si è limitato a prenderne atto ed è per questo che ha predicato il Dharma, affinché ne traessero giovamento tutti gli uomini.
Teoria dell'unicità della mente 1. Sia l’illusione/delusione che l’Illuminazione sono originate dalla mente, e ogni esistenza individuale o fenomeno scaturisce dalle funzioni della stessa. La mente assomiglia ad un prestigiatore che fa apparire gli oggetti più strani e diversi tirandoli via, di nascosto, dalla manica. Le attività della mente non hanno limite: di fatto costituiscono il tessuto circostanziale della vita. Una mente impura si circonda di cose impure, mentre una mente pura dà origine a puri fenomeni e condizioni; dunque, il mondo fenomenico non ha altri limiti se non quelli posti dalle attività della mente. Come un artista rappresenta il mondo circostante fissandolo su una tela, così la mente espletando le sue molteplici funzioni dà vita al mondo fenomenico. Mentre gli oggetti fenomenici creati da un Buddha sono puri e liberi da sozzure e contaminazioni, quelli posti in essere dagli uomini ordinari non lo sono. Tramite l’immaginazione la mente dà sostanza a forme di vario genere come un pittore esperto rappresenta immagini multicolori di mondi surreali. Nulla vi è in questo mondo che non sia creato dalla mente. Un Buddha è come la nostra mente; e gli esseri senzienti sono della stessa natura di Buddha. Quindi la mente, i Buddha e gli esseri senzienti sono esattamente sullo stesso piano per quanto concerne la facoltà di dar vita al complesso degli oggetti fenomenici. Buddha ha una giusta, chiara comprensione di tutti i fenomeni così come sono raffigurati e delineati dalla mente dei mortali. Pertanto, chi riesce ad avere piena consapevolezza di ciò è in grado di vedere la reale Buddha-natura. 2. Ma la mente che dà forma al suo mondo circostante non è mai completamente libera da ricordi, paure o pene, non soltanto riguardo al passato ma anche rispetto al presente e al futuro, giacché esse sono germogliate fuori dall’ignoranza e dall’avidità. È dall’inconsapevolezza e dal desiderio smodato che si è formato il mondo della delusione, e tutta l’enorme complessità delle cause e condizioni concomitanti esiste nella mente e a causa di essa, in nessun altro luogo e nessun altro modo. Sia la vita che la morte sono un fatto mentale ed esistono in quanto condizionate dalla mente. Pertanto, quando la mente che guarda a sé stessa in termini di vita e di morte passa oltre, il mondo della vita e della morte svanisce con essa. Una vita priva di illuminazione si sviluppa da una mente confusa, avviluppata nei molteplici lacciuoli del mondo di delusione da essa immaginato. Se impariamo che il mondo di delusione è soltanto una fantasticheria della mente e non ha alcuna concretezza reale, le tenebre che ci costringono da ogni parte, d’improvviso, divengono chiare; e nel momento in cui cessiamo di creare condizioni e circostanze impure, otteniamo l’Illuminazione. In questo modo il mondo della vita e della morte esiste in quanto prodotto della mente, prigioniero della mente, schiavo della mente; la mente è il signore assoluto di ogni situazione. Il mondo della sofferenza è posto in essere da una mente illusa e delusa. 3. Quindi, tutte le cose sono innanzitutto controllate e dominate dalla mente, e sono posto in essere da essa. Come le ruote seguono il bue che tira il carro, così la sofferenza segue da presso colui che parla ed agisce con mente impura. Ma se un uomo parla ed agisce con mente pura, la serenità lo segue come la sua ombra. Chi agisce in malafede è perseguitato dal pensiero, "Sono stato ingiusto", e il ricordo di quell’azione rimane impresso nella coscienza e si tramanda insieme alle sue inevitabili conseguenze di vita in vita. Ma coloro la cui condotta è dettata da un retto giudizio e da una giusta motivazione si rallegrano pensando, "Ho fatto bene", e ancor più felici considerano che la purezza di quel singolo gesto influirà positivamente sulle azioni future e come un dono trapasserà di vita in vita. Una mente impura ci costringe ad arrancare lungo i sentieri della vita come se si stesse percorrendo una strada ripida e disseminata di asperità; continuamente si inciampa e si cade a terra e ogni volta ci si rialza con immensa fatica. Una mente pura, invece, ci conduce su un percorso piano e facile e fa sì che il viaggio sia il più sereno possibile. Chi si rallegra nella purezza del corpo e della mente e ne fa lo scopo della sua vita, costui segue il cammino che porta alla Buddhità, infrangendo la rete dell’egotismo, tagliando con una spada affilata i pensieri impuri e cattivi desideri. Chi riesce a mantenere sotto controllo la mente, a placarne l’irrequietezza, conquista la vera beatitudine e così può coltivare la mente giorno e notte con maggiore diligenza.
1. Poiché ogni cosa in questo mondo è posta in essere da cause e condizioni, non c’è nessuna fondamentale distinzione tra gli essenti. Le apparenti differenze sono determinate esclusivamente dai pensieri illogici e discriminanti dell’intelletto umano. Nel cielo non vi è alcuna distinzione tra est ed ovest; è la gente che crea le distinzioni nella propria mente e dopo averle fantasticate più e più volte le prende per verità incontestabili. I numeri matematici da uno all’infinito, presi ciascuno per sé, sono oggetti completi, a tutto tondo, senza alcuna differenziazione in termini di quantità; sono gli uomini a discriminare questo da quello in base a un mero calcolo di convenienza personale, per poter indicare varie quantità. In realtà, non vi sono differenze sostanziali tra il formarsi della vita e il processo di distruzione della stessa; la gente crede si tratti di due fenomeni ben distinti, se non contrapposti, l’uno lo chiama nascita, l’altro morte. Nell’agire non vi è alcuna distinzione reale ed assoluta tra giusto e ingiusto, ma la gente è portata a dire "questo è giusto, quest’altro è sbagliato" a seconda delle circostanze, delle opinioni e dell’immediata convenienza. Buddha si tiene lontano da queste discriminazioni e con occhio sereno osserva il mondo come una nuvola soffiata avanti dal vento. Per Buddha ogni oggetto sostanziale, assoluto, è illusione; Egli sa che qualsiasi cosa la mente afferri e getti via è per sua natura insostanziale; in tal modo Egli trascende la caducità delle immagini e il pensiero discriminante. 2. La gente si attacca alle cose perché persuasa della loro immaginaria convenienza e comodità; si punta al benessere, al denaro, al prestigio sociale; insomma ci si afferra disperatamente alla vita mortale. Gli uomini pongono distinzioni del tutto arbitrarie tra esistenza e non-esistenza, bene e male, giusto ed ingiusto. Per i più, la vita si riduce ad una successione confusa di desideri morbosi ed attaccamenti, e quindi, a causa di ciò, sono costretti ad assumersi in maniera proporzionale il loro fardello di illusioni, ansie e sofferenze. C’era una volta un viaggiatore che, dopo aver percorso molta strada, giunse infine sulla sponda di un grande fiume. Riflettendo sul da farsi, pensò: "Questo lato del fiume è assai difficile e pericoloso da attraversare, mentre l’altra sponda sembra essere decisamente più facile e più sicura: qual è il modo migliore per guadarlo?" Così fabbricò una zattera legando insieme giunchi e canne e attraversò il fiume sano e salvo. Portata a compimento l’impresa, considerò: "Questa zatterina mi è stata veramente utile per guadare il fiume; non l’abbandonerò qui a marcire sulla riva, piuttosto me la porterò dietro." E fu così che si accollò un inutile e pesante fardello. Possiamo definirlo un uomo saggio? Questo racconto insegna che persino una cosa buona, quando è diventata un peso superfluo, dovrebbe esser gettata via; a maggior ragione se si tratta di una cosa nociva. Evitare le discussioni inutili e superflue: di questo Buddha fece una regola di vita. 3. Le cose non vengono e se ne vanno; né appaiono e scompaiono; pertanto, nulla si prende né si perde. Buddha insegna che gli oggetti fenomenici non appaiono né scompaiono, dal momento che essi trascendono sia l’affermazione che la negazione dell’esistenza. Ovvero, poiché ogni cosa non è altro che una concomitanza o una successione di cause e condizioni, una sostanza in sé non esiste realmente, cosicché non può neanche esser detta, ad un certo punto, non-esistente. Allo stesso tempo, poiché una cosa ha comunque un determinato rapporto con cause e condizioni, non si può dire neanche che sia non non-esistente. Attaccarsi ad un oggetto fenomenico per via della sua forma è fonte di delusione. Se la forma non è abbracciata e desiderata, questa falsa immagine mentale non prende corpo e la delusione che ne deriva non può manifestarsi. Illuminazione significa aver ben chiara dinanzi a sé questa verità e esser liberi da una tale, sciocca delusione. Il mondo, in verità, è come un sogno e i suoi tesori sono un allettante miraggio. Come la prospettiva, in un quadro, fa sembrare più o meno distanti le figure che vi sono ritratte ma si tratta solo di un’illusione ottica, così gli oggetti fenomenici non hanno alcuna realtà in sé: la loro consistenza ontologica è simile ad un denso vapore caldo. 4. Credere che le cose, create da un’incalcolabile serie di cause, possano durare per sempre è un grave errore, che si definisce teoria della permanenza; ma è un errore altrettanto grande pensare che le cose scompaiano completamente: è questa la cosiddetta teoria della non-esistenza. Queste categorie della vita e della morte assolute e durevoli, dell’essere e del non-essere, non si applicano all’essenza reale delle cose, ma soltanto alle loro apparenze così come sono osservate ed evocate dallo sguardo confuso e sognante dell’uomo. Per mezzo del desiderio, ci si relaziona con queste apparenze e si finisce con l’attaccarvisi sempre più strettamente; ma nella loro natura essenziale, le cose esistenti sono completamente avulse e libere da tutte le discriminazioni e le connotazioni allettanti che in esse pongono il desiderio e l’intelletto umano. Dal momento che ogni cosa si genera a partire da una serie di cause e condizioni, le apparenze degli oggetti fenomenici sono in continuo mutamento; ossia, non vi alcun sostrato permanente come ci si aspetterebbe di trovare in un’autentica sostanza. È per via di questo costante cambiamento delle apparenze fenomeniche che le cose del mondo si possono paragonare a miraggi e a sogni. Tuttavia, a dispetto della trascorrenza e della contingenza che è connaturata a tutto ciò che esiste, gli enti, nella loro essenziale natura spirituale, sono persistenti e durevoli al di là del flusso del divenire. Per un uomo un fiume ha l’aspetto di un fiume, ma ad un demone affamato, che vede fuoco nell’acqua, potrebbe sembrare fuoco liquido. Di conseguenza, parlare ad un uomo dell’esistenza del fiume avrebbe qualche senso, mentre non avrebbe alcun significato raccontarlo al demone. Allo stesso modo, si può dire che le cose sono come illusioni: di esse non è possibile affermare né che siano esistenti né che siano non-esistenti. Pertanto, è del tutto inverosimile il discorso che pone un ideale mondo dell’essere e della verità dietro questo mondo qui ove tutto è cambiamento e apparenza. La distinzione tra mondo temporale o del divenire e mondo reale o dell’essere è un’erronea fantasticheria. Ma comunemente la gente tiene per vero questo pregiudizio e argomenta sulla base di un fantastico mondo dietro il mondo. Ma trattandosi soltanto di un’illusione, le loro azioni, fondate su questo errore, conducono inevitabilmente ad ulteriori affanni e sofferenze. L’uomo saggio, riconoscendo che il mondo esiste solo come illusione, non agisce come se fosse reale, e così facendo sfugge l’inutile patimento.
1. Coloro i quali scelgono il sentiero che conduce all’Illuminazione dovrebbero far attenzione ad evitare due estremi contrapposti. Da una parte, vi è l’eccessiva indulgenza nei riguardi dei desideri corporali. Dall’altra, l’eccessivo, irragionevole accanimento nella disciplina ascetica, quando diventa una tortura per il corpo e la mente. Il Nobile Sentiero, che trascende questi due estremi e conduce all’Illuminazione, alla saggezza e alla pace della mente, può esser definito una Via Mediana. Cos’è la Via Mediana? Essa consiste nell’Ottuplice Nobile Sentiero: retta visione, retto pensiero, retto discorso, retto intento, retta condotta di vita, retto sforzo, retta consapevolezza e retta concentrazione. Come si è detto, tutte le cose appaiono e scompaiono in relazione ad un’interminabile serie di cause. La gente ignorante considera la vita in termini di esistenza o non-esistenza, ma gli uomini saggi al di là di essere e non-essere intravedono qualcosa che trascende entrambi; è questo il punto di vista che ispira la Via Mediana. 2. Immagina un tronco che galleggia nelle acque di un fiume. Se il tronco non si arena da qualche parte, non affonda, o non è tirato fuori da qualcuno, oppure non marcisce, alla fine raggiungerà il mare. La vita è come questo pezzo di legno trascinato via dalla corrente di un grande fiume. Se non ci si attacca ad una vita di autoindulgenza, oppure, rinunciando alla vita stessa, non ci si infligge un’esistenza di autoflagellazione; se non si diventa stupidamente orgogliosi delle proprie virtù o peggio delle proprie cattive azioni; se nella ricerca dell’Illuminazione non si cade preda della delusione, né la si teme, allora si può legittimamente affermare di seguire la Via Mediana. L’importante nel percorrere il sentiero che porta all’Illuminazione è evitare di rimanere intrappolati ed invischiati in qualsivoglia atteggiamento estremo, ovvero, occorre seguire con impegno la Via Mediana. Sapendo che le cose né esistono né non-esistono, ricordando che tutto in questo mondo è simile ad un sogno ad occhi aperti, ci si dovrebbe sottrarre dal pregiudizio orgoglioso di un ego-personalità da soddisfare e dall’autocompiacimento per le proprie buone azioni; oppure semplicemente dal farsi irretire ed intrappolare da qualsiasi altra passione. Se si vuole evitare di esser catturati dalla corrente impetuosa dei propri desideri, occorre imparare sin dal principio a non aggrapparsi alle cose onde evitare di trasformarle in abitudini o in affezioni nocive. Non bisogna appigliarsi all’esistenza più che alla non-esistenza, a qualsiasi cosa dentro o fuori di noi, non importa che la si ritenga buona o cattiva, giusta o sbagliata. Se ci si attacca ad una cosa, in quel preciso momento, istantaneamente, si dà corpo ad una delusione, quantunque non ce ne si avveda. Chi segue il Nobile Sentiero che porta all’Illuminazione non sente la mancanza di niente, non ha nostalgia di niente, non si aspetta niente, non desidera niente, ma con mente equanime e serena si appressa a ciò che viene, non importa cosa sia. 3. L’Illuminazione non ha una forma definita o una natura attraverso la quale possa manifestare sé stessa; così nell’Illuminazione in sé, non vi è nulla che necessiti d’esser illuminato. L’Illuminazione esiste esclusivamente a causa della delusione e dell’ignoranza; se si dissolvessero in una bolla di sapone, nello stesso preciso istante anche l’Illuminazione cesserebbe d’esistere. E sarebbe vero anche il contrario: non c’è Illuminazione separata da delusione ed ignoranza; né delusione ed ignoranza separate dall’Illuminazione. Quindi, occorre guardarsi bene dal pensare all’Illuminazione come ad una "cosa" che può essere afferrata, se non si vuol correre il rischio che anch’essa si trasformi in un ostacolo. Quando la mente che era nelle tenebre viene illuminata, passa oltre, e nel suo andare al di là, ciò che noi chiamiamo Illuminazione trapassa con essa. Fintantoché si desidera l’Illuminazione e ci si aggrappa ad essa come ad una speranza, ciò significa che la delusione è sempre in agguato dietro l’angolo; quindi, chi si è incamminato lungo il sentiero dell’Illuminazione non deve perseguire nessun obiettivo né coltivare futili speranze, e se si raggiunge alfine l’Illuminazione non bisogna soffermarsi su di essa né lasciare che sopravviva all’attimo ma consapevolmente vivere morendo. Quando qualcuno ottiene la vera Illuminazione, si rende conto che ogni cosa è in sé Illuminazione e l’Illuminazione è in sé ogni cosa; pertanto, occorre seguire la via che porta all’Illuminazione finché i pensieri, le passioni, gli slanci mondani dell’Io e la stessa quotidianità non diventino una sola cosa con l’Illuminazione, com’è nella loro più profonda natura. 4. Questo concetto dell’universale unità e coincidenza del tutto – che tutte le cose nella loro essenza sono uno e dall’uno tutte le cose discendono – è noto col nome di "Sunyata". Sunyata significa non-sostanzialità, non-dualità, ossia il non-nato, l’indifferenziato. Il che equivale a riconoscere che le cose in sé non hanno alcuna forma o caratteristica peculiare che le contraddistingua come sostanze separate a sé stanti soggette alla nascita e alla morte. Non vi è alcunché nella loro più profonda natura che ci consenta di definirle in termini di alterità e discriminazione; questa è la ragione per cui tutti gli enti vengono definiti non-sostanziali. Come si è messo più volte in evidenza, tutto ciò che esiste si manifesta e sparisce per via di cause e condizioni. Nulla esiste interamente a sé stante; ogni cosa è in rapporto con ogni altra cosa. Dove è luce, vi sono tenebre; dove è lunghezza, vi è brevità; dove è bianco, lì è nero. Queste coppie di contrari intrinsecamente esistono soltanto nella loro reciproca relazione: per questo diciamo che il singolo preso a sé stante è non-sostanziale. In base al medesimo ragionamento, l’Illuminazione non può esistere separata dall’ignoranza, né l’ignoranza separata dall’Illuminazione. Poiché le cose nella loro essenza non differiscono, non vi può essere dualità. 5. Di solito gli uomini pensano a sé stessi in termini di nascita e di morte, come opposti irriducibili, ma a ben guardare queste parole non hanno alcun riscontro nella realtà. Quando si è capaci di afferrare e realizzare questa verità, allora di fatto si è colto il significato della non-dualità di nascita e morte. Il pensiero comune si basa sulla credenza in un ego-personalità e sull'attaccamento all'idea di possesso; ma dal momento che, di fatto, non vi nulla al mondo che assomigli ad un "ego" sostanziale, non ha alcun senso desiderare di possedere ciò che per sua natura è insostanziale. Comprendere questo fatto essenziale significa realizzare la "non-dualità". Un'altra credenza diffusa oppone i concetti di purità ed impurità; ma nella vera natura delle cose, tale distinzione non ha alcun senso, ad eccezione di quello che viene dato a queste parole da false ed assurde immagini mentali. Nella stessa maniera la gente distingue tra bene e male, ma bene e male non esistono separatamente. Chi se è incamminato lungo il sentiero dell'Illuminazione si rende conto dell'inconsistenza di tale dualità: per questo non vi è nulla che lo spinga ad elogiare il bene e a condannare il male, piuttosto che ad avversare l'uno in favore dell'altro. Naturalmente si è portati a temere la sfortuna e ad augurarsi la buona sorte; ma se si osserva attentamente tale distinzione, la cattiva sorte spesso si volge in buona sorte e, viceversa, la fortuna spesso si cambia in disgrazia. L'uomo saggio impara ad andare incontro alle mutevoli circostanze della vita con spirito equanime, a non entusiasmarsi troppo per i successi e non lasciarsi abbattere dai fallimenti. Anche in questo si realizza la verità della non-dualità. Dunque, nessuna delle parole che esprimono relazioni di dualità e di contrasto - come esistenza e non-esistenza, passioni mondane e vera conoscenza, purezza ed impurità, bene e male - nessuno di questi concetti pensati separatamente l'uno dall'altro corrisponde a qualcosa di reale. Se ci si mantiene liberi dalle opinioni basate su tali parole, e solo di parole si tratta, e dalle emozioni caotiche che esse possono ingenerare in ciascuno di noi, allora si realizza qui ed ora la verità universale della Sunyata. 6. Come un puro e fragrante fior di loto spunta fuori dal fango di una palude piuttosto che dalla buona e grassa terra di un campo coltivato, così dalla sporcizia delle passioni mondane nasce la pura Illuminazione della Buddhità. Persino le opinioni erronee degli eretici e le delusioni che scaturiscono dalle passioni mondane possono fungere da fertilizzante per la Buddhità. Se un pescatore subacqueo vuol pescare delle perle deve immergersi sino a toccare il fondo del mare e dev’esser pronto a correre il rischio di ferirsi con coralli taglienti o di imbattersi in squali feroci. Allo stesso modo occorre affrontare a viso aperto i pericoli legati alle passioni umane se si vuole, infine, impadronirsi della preziosa perla dell’Illuminazione. Bisogna innanzitutto vagare smarriti tra i rocciosi crepacci dell’egoismo e dell’autostima, prima che si risvegli in noi il desiderio di trovare il sentiero che ci condurrà all’Illuminazione. C’era una volta un eremita che aveva un così forte desiderio di trovare la strada della verità che si arrampicò su una montagna di spade e si gettò nel fuoco, senza arrendersi mai aggrappato le unghie e i denti alla sua speranza. Chi ha deciso fermamente di percorrere la stessa strada dovrà affrontare il gelido vento che soffia impetuoso sulle montagne di spade affilate dell’egotismo e le fiamme divampanti dell’odio e del pregiudizio, e solo alla fine si renderà conto che l’egotismo e le passioni ribollenti contro le quali si è così accanitamente battuto, soffrendo e facendo soffrire, sono l’Illuminazione stessa e nient’altro. 7. L’insegnamento del Buddha ci conduce alla non-dualità, partendo dal concetto discriminante di due punti di vista in conflitto tra di loro. L’errore più comune consiste proprio nella ricerca spasmodica di un qualcosa che si suppone buono e giusto, in contrapposizione con qualcos’altro che si giudica cattivo ed ingiusto e che, con eguale determinazione, ci si sforza di evitare Se si considera attentamente che tutte le cose sono per loro natura vuote e transitorie, l’errore più grande che si possa commettere consiste nell’assumerle come un qualcosa di sostanziale, reale e con soggetto ad alcun cambiamento. Se ci si attacca alla credenza di un ego-personalità, in nessun modo si può evitare la delusione e la sofferenza che ne deriva. Se si crede che non vi è nessun ego-sostanza, si commette lo stesso un errore e la propria pratica della Via diventa egualmente inutile. Se ci si convince che tutto è sofferenza, si è comunque in errore; e lo stesso se si pensa che tutto sia felicità. Buddha insegna la Via di Mezzo, che trascende questi pregiudiziali concetti, facendo sì che la dualità si risolva nell’unità. (Traduzione di Francesco Dipalo)
Nota [*]
Nonostante il dibattito e il confronto tra Occidente ed Oriente non sia una novità dell’ultima ora e il Buddhismo, nei suoi variegati aspetti ed implicazioni, abbia fatto ingresso nella cultura europea ed italiana da almeno trent’anni, la filosofia buddhista non è stata mai presa seriamente in considerazione nell’ambito dei programmi scolastici. Proponendo alla vostra attenzione questo lavoro, non ci aspettiamo certo di rimediare ex abrupto ad una mancanza che non spetta certo a noi giudicare tale e che richiede ben altro impegno e profondità d’intenti. Ci accontenteremmo di aprire una finestra su un altro modo di concepire il mondo e il posto che in esso spetta all’uomo, un modo così diverso e nello stesso tempo così dialetticamente ricco rispetto alla nostra tradizione filosofica e culturale che non potrà esimerci dal provare quella meraviglia, su cui, come insegnano gli antichi, poggia ogni progresso intellettuale e spirituale. Di esposizioni del pensiero buddhista, sia a livello divulgativo che accademico, sono piene le librerie e le biblioteche. Chi volesse accostarvisi per semplice curiosità o per più fondati motivi di studio, in mancanza di una guida sicura, sarebbe costretto ad affidarsi al caso o al proprio personale intuito. A complicare la questione, contribuisce senz’altro la grande messe di scuole e discipline più o meno coerenti nell’ispirazione dottrinale e contigue nella dimensione spazio-temporale della storia del Vicino e Lontano Oriente. Il Buddhismo, come movimento religioso e spirituale, o semplice stile di vita e di pensiero, nel corso dei secoli si è diffuso da un capo all’altro del continente asiatico, dall’India, alla Cina, alla Thailandia, al Giappone, dando vita a civiltà e culture tradizionali diverse, in un arco di tempo lungo 25 secoli. Rintracciarne i comuni fondamenti non è impresa delle più semplici. Ogni civiltà nel tempo ha collezionato una propria tradizione testuale e letteraria, prima in pali, un dialetto della sub-continente indiano derivante dall’antico sanscrito, poi in cinese e nelle altre lingue asiatiche. Dalla congerie di documenti a disposizione degli studiosi emergono con una certa chiarezza, tre punti fondamentali: la storicità del Buddha, vissuto intorno al VI secolo a.C.; il costituirsi alla morte del Buddha di una vasta comunità di discepoli in grado di fondare una solida tradizione orale del suo insegnamento; il confluire di questa tradizione orale in una documentata tradizione scritta tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C. Siddharta, il Buddha storico, apparteneva alla nobile famiglia dei Shakya, regnante su un distretto dell’India nord-orientale alle pendici della catena hymalaiana nell’attuale Nepal. La sua vita si svolse in questa regione. Più tardi, quando il Buddhismo si diffuse verso sud, le testimonianze tramandate per secoli da generazioni di monaci e fedeli laici, furono raccolte nel cosiddetto Canone Pali, dal nome della lingua in cui fu redatto. A tutt’oggi il Corpus degli scritti conosciuto come Canone Pali è in uso, come raccolta di testi sacri, presso i monaci buddhisti di Ceylon, dell’India meridionale e del Sud-Est asiatico, Thailandia e Birmania, rappresentanti del Piccolo Veicolo (Hinayana), termine col quale si indica la prima, originaria espansione del Buddhismo storico (in contrapposizione col Grande Veicolo (Mahayana), la successiva espansione della religiosità buddhista nelle regioni nord-orientali dell’Asia, in particolare Cina e Giappone). Si tratta, pertanto, della più antica e più autorevole fonte scritta in nostro possesso. Il Canone è immenso: consta di migliaia e migliaia di pagine, ordinate in volumi e ‘ceste’ di volumi. Era nostra intenzione partire da una raccolta di testi, una piccola antologia da sottoporre all’attenzione del lettore principiante, invertendo la tendenza assai diffusa, per evidenti ragioni divulgative, di presentare commenti ed esposizioni ‘manualistiche’ a prescindere completamente dalla lettura dei testi originali, oppure includendone brani scelti nel corpo testuale dell’esposizione. Una tendenza seguita pedissequamente, soprattutto nelle scuole, anche per la filosofia occidentale, e che solo da alcuni anni a questa parte è stata combattuta con successo col ribadire la centralità del testo filosofico rispetto alle sovrastrutture argomentative e critiche. Durante un viaggio in un paese dell’Estremo Oriente, chi scrive è venuto in possesso, per puro caso, di un libro edito dalla Buddhist Promoting Foundation, un’Associazione nipponica senza scopo di lucro che da molti anni persegue il fine di diffondere la conoscenza del pensiero buddhista attraverso un’antologia di testi, ricostruita sulla base del Canone Pali. Il libro in questione, pubblicato con testo a fronte inglese-giapponese nel 1992 (ma la prima edizione risale al 1966) e intitolato The Teaching of Buddha, fa esattamente al caso nostro, poiché unisce il lavoro sulle fonti, che non saremmo in grado di svolgere, date le insormontabili barriere linguistiche, con quello preziosissimo della selezione e della riproposizione delle stesse in un tessuto espositivo organico e ben strutturato. I testi che seguono sono stati tradotti dall’inglese. Trattandosi di una traduzione di una traduzione e non potendo accedere altrimenti alle fonti originali (accuratamente citate passo per passo dagli autori) non possiamo accampare alcuna pretesa di scientificità, per quanto il libro in questione e l’Associazione da cui è stato pubblicato sembrino offrire buone garanzie di affidabilità ed autorevolezza. Nella traduzione italiana, grazie all’esperienza acquisita nel corso degli anni dalla lettura di altre opere filosofiche buddhiste, si è cercato di riprodurre, per quanto possibile, lo stile e le cadenze letterarie proprie dell’originale, senza trascurare di utilizzare un lessico comprensibile per il lettore italiano che si intenda di filosofia. Col tempo, fatta salva la centralità del testo, ci si sforzerà di costruirgli intorno un reticolo di note e commenti allo scopo di chiarire alcuni concetti chiave del pensiero buddhista e di proporre all’attenzione del lettore alcune questioni teoretico-comparative condivise con la tradizione filosofica occidentale.
Da: http://www.ilgiardinodeipensieri.com/testi/canonepali.htm
|
|