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Tributo a Pier Cesare Bori, un uomo
straordinario (Elisabetta Laganà)
Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2012
Che qualcuno possa scrivere finalmente un libro, che tutti possano leggere, in
cui si insegni chi, dove, quando e perché ha fatto cose veramente buone per il
carcere in questi anni.
Pier Cesare Bori ha lavorato per allargare a tutti il confine dell’ethos, del
silenzio riflessivo, portandoli in uno dei luoghi più improbabili.
E lo ha fatto con una intelligenza, discrezione e naturalità eccezionali,
rovesciando l’ottica imperante di tanti che, come scribi, rincorrono la
visibilità ed i primi posti. Che sarebbe successo se molti di più avessero fatto
altrettanto, invece che seguire le vie dello scontro e della provocazione.
L’esperienza didattica svolta da Bori nella casa circondariale Dozza
dall’ottobre del 1998, soprattutto con stranieri, privilegiava, paradossalmente,
il silenzio come strumento di partecipazione vicendevole, la meditazione
riservata come la più alta forma di comunicazione, armoniosa come una musica
virtuale che, tuttavia, tutti potevano udire per accordarsi ad essa come
componenti di un coro muto ma profondamente sincronico ed espressivo.
È evidente come nell’inesauribile dibattito sul carcere e sul sistema penale si
possano scorgere laceranti contraddizioni tra ciò che dovrebbe essere e ciò che
di fatto viene realizzato dal sistema. Nel suo libro "L’idea di giustizia",
Amartya Sen cita più volte Wittgenstein, sostenendo la tesi che un mondo più
intelligente è senz’altro un mondo migliore, e che nella lotta per un mondo meno
ingiusto dobbiamo riconoscere la pluralità delle domande di giustizia. Questa
era una delle strade che Bori aveva percorso, individuando l’etica come fattore
fondante, nel contempo domanda e risposta di giustizia, e nella "Regola aurea",
l’antico principio presente in tante tradizioni "non fare ad altri quello che
non vorresti fosse fatto a te", come il punto d’approdo di un percorso condiviso
finale tra persone che, prima di tutto, si ascoltano tra loro.
L’etica della responsabilità personale, del prendersi cura diventa così un
esempio di relazione, un modello per reintrodurre la dignità nella società
attraverso le azioni quotidiane e, contemporaneamente un potente fattore
terapeutico di cambiamento.
La profonda fiducia che esprimeva nell’essere umano lo spingeva a incontrare
ciascuno per quello che è. Non basta amare l’umanità in generale, bisogna
incontrarli uno ad uno, gli uomini, le donne.
I suoi "Passi verso un ethos condiviso" sono diventati strada illuminante per i
suoi tanti compagni di viaggio rimasti dietro le sbarre della Dozza, che lo
hanno potuto fisicamente seguire, a volte, solo attraverso la fantasia o il
sogno.
La sua delicatezza, mista alla tranquilla forza che sapeva emanare, permettevano
alle persone, anche le più diffidenti, di raccontarsi, e la sua straordinaria
capacità relazionale lo guidava in questa delicatissima impresa, mai richiesta,
sempre spontaneamente offerta da chi aveva avuto il privilegio di conoscerlo.
Perché Bori aveva una particolare dimestichezza con alcune tra le componenti
fondamentali della relazione, il silenzio e l’attesa, che significa che l’altro
può veramente raccontarsi a me quando sono diventato qualcuno per lui. Sapeva
che è necessario amministrare nei tempi lunghi quell’apparente sensazione di
sincerità immediata che si può ricevere da una persona. Uno spazio
delicatissimo, da tutelare, perché il giorno che quella persona ci farà
veramente entrare nella sua intimità dobbiamo entrarci con lo stesso
atteggiamento con cui si entra in un luogo sacro; possiamo solo sederci e non
fare domande e rispettare in silenzio quello che ci fa vedere. Valgono le regole
di qualsiasi relazione: quanti anni ci vogliono per costruire un vero rapporto?
Molti anni, molti sospetti, perché il sospetto è la capacità di delimitazione
verso l’altro. Perché allora dovremo avere una grande familiarità con una
persona che viene da noi, per la quale non siamo nessuno? Abbiamo diritto di
violare l’intimità di un altro solo perché è in carcere, o in stato di
necessità?
Sovente, la caratteristica centrale dell’istituzionalizzazione è la perdita
della responsabilità (definibile anche come perdita di contrattualità sociale e
di potere), è un processo che priva le persone delle parti più attive del
proprio io. La chiave del trattamento dovrebbe stare, in primis, nella capacità
da parte dell’istituzione di attivare processi di responsabilizzazione della
persona, se si desidera realmente perseguire le finalità della riabilitazione.
Alla domanda "Che cosa insegni?" aveva risposto: "la disciplina, la liberazione
e l’innalzamento del desiderio, in sé e negli altri, attraverso la cultura, nel
senso più alto (lettura dei grandi testi e auto-coltivazione: Bildung). È la
dignità dell’uomo, come viene insegnata dall’umanesimo. La fede nella
conoscenza, la liberazione attraverso il sapere, la fiducia in se stessi:
essenziali strumenti per i costruttori di pace. Un vero messaggio rinnovatore
questo, avveratosi alla Dozza, mentre si continua ad investire in strumenti di
morte, pensando che spendere denaro pubblico nell’acquisto di F-35 garantirà
maggiore sicurezza alle persone, mentre si riduce all’osso la scuola, si decurta
la sanità e si prosciugano al minimo le risorse per la riabilitazione,
ragionamento che equivale a costruire la pace con gli armamenti.
Di questo tipo di pensiero e tanto altro siamo debitori a Pier Cesare Bori, la
cui scomparsa ci rende più soli nel perseguire, senza indugio, quei Passi che
portano ad un’etica ed al rispetto, che è dovuto ad ogni persona, di non è
possibile fare a meno, come norma fondante di ogni relazione e di ogni
istituzione nelle quali ci sono uomini affidati alla responsabilità di altri
uomini.
Da:
www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/tributo-a-pier-cesare-bori-un-uomo-straordinario
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