|
|
Sed nec desperes de solutione non invenienda. (Pietro Cantore)
I. Nei giorni della scomparsa di Pier Cesare Bori sono stati pubblicati due suoi libri, costruiti con slancio e fatica nell’anno della malattia. Due libri tanto diversi nei contenuti, l’uno teorico l’altro autobiografico, quanto inconfondibilmente suoi nella forma essenziale e nello spirito: un’antologia di testi di tradizione cristiana selezionati intorno al tema biblico dell’uomo creato a immagine di Dio, introdotta con uno scambio epistolare tra l’autore e due allievi cinesi ai quali è spiegata un’antropologia religiosa così diversa dalla loro1; e un racconto della sua vita ripercorsa non tanto di per sé, quanto come “punto di partenza di un insieme di relazioni” con i molti che hanno intersecato la sua umana avventura2. Gesti dunque di amicizia, carichi di attenzione dialogante e di memoria affettivamente carica. Qualche anno prima Bori aveva già tracciato il suo percorso biografico, ma allora seguendo le letture che in ordine di tempo erano state importanti per la sua crescita e l’espressione di ciò che in lui andava maturando, e anche allora nella consapevolezza che, certo, “parlare di sé fa piacere, ma non sarebbe bastato se non ci fosse stato il desiderio di regalare qualcosa di nuovo e di utile in cambio di quanto ricevuto da maestri, familiari, amici, allievi”3. Peraltro, che la vita e l’opera si siano in tal modo combinate a conclusione della sua esistenza non è accaduto, a ben guardare, del tutto fortuitamente, tanto era forte in lui il desiderio di lasciare di sé il ritratto di “una vita consapevole che deve imparare a dar forma a se stessa e al mondo circostante attraverso la conoscenza e l’operosità”, come scriveva a conclusione dello scambio epistolare con la giovane Shiling4. L’antologia giungeva a corollario di una ricerca lunga oltre un decennio nata a seguito di una complessa quanto insistita riflessione “intorno alla possibilità e alle modalità di una lettura secolare della Bibbia (…) in vista di una costruzione etica comune”, che il grave momento storico, vale a dire “il diffuso sradicamento etico-culturale e d’altro canto l’antagonismo e lo scontro anche estremo tra grandi blocchi culturali-religiosi”, rendeva agli occhi di Bori “essenziale e urgente”5. Se ne trova una prima sostanziale traccia nello studio dedicato sul finire del secolo scorso al Discorso di Pico della Mirandola sulla dignità umana6,all’origine del quale Bori scopriva un modello di universalismo fondato sulla pluralità delle vie spirituali, distinto dall’universalismo che propone una sola via come universalmente valida7. Modello che aveva lui stesso teorizzato a partire dalle tesi di Per un consenso etico tra culture, laddove proponeva, a proposito degli studi biblici, una forma di ricerca storico critica capace di “operare dentro l’ineliminabile paradigma linguistico biblico risvegliandovi la consapevolezza della pluralità delle lingue e delle culture, della loro traducibilità, delle continuità storiche che le collegano e della propria e altrui potenziale universalità”8. Di questa innovativa operazione ermeneutica Pico fu, agli occhi di Bori, un precursore nella misura in cui il suo umanesimo religioso lo rese “capace di articolare gli stessi contenuti in due linguaggi diversi, quello biblico e quello filosofico”, senza subordinazione dell’uno all’altro, facendosi così promotore di “un universalismo intensivo che accosta, nella stessa persona, l’adesione alla propria via e il riconoscimento della pluralità delle vie”9. Di una siffatta capacità interpretativa, Pico darebbe in particolare prova allorché, per stabilire ciò che a suo avviso è costitutivo della dignità dell’uomo, muove da una reinterpretazione del racconto genesiaco della creazione, in cui la fonte biblica è intrecciata con Platone e Dionigi Areopagita e sviluppata con riferimento alle testimonianze dei “misteri” sia mosaici che ellenici e caldaici. Ne risulta che, a differenza di tutte le altre creature, Adamo non è stato creato secondo un determinato archetipo; la sua “immagine”, e perciò quella di ogni individuo, è stata lasciata da Dio indefinita in modo tale che egli fosse libero di foggiare se stesso secondo la sua preferenza, degenerando negli esseri inferiori oppure rigenerandosi negli esseri superiori fino all’unione mistica con la divinità. Come nel mito platonico della nascita di Eros da Póros e Penía, anche la creatura umana si trova collocata in uno stadio intermedio tra ignoranza e sapienza, sempre carente e sempre desideroso di attingere le realtà supreme: “Tanto nel Simposio come nel Discorso, il dinamismo del desiderio costituisce la sostanza ultima dell’essere umano, cui è dato avere quel che desidera, di essere ciò che vuole”10. Ne consegue un’inversione rispetto alla proibizione biblica di perseguire la conoscenza; qui l’ammonizione concerne piuttosto l’invito a orientare la conoscenza verso la sapienza più alta, secondo il modello dell’ascensione mistica a tre stadi: vita attiva disciplinata, vita intellettuale, unione mistica nell’amore, mutuato da Dionigi Areopagita.11 Il fatto è, osserva Bori, che a Pico interessava dimostrare “la costante e universale connessione tra dignità-compito e piena esplicitazione della vita intellettuale, vista come momento intermedio tra l’istanza etica preliminare e il compimento nella visione e nell’amore”.12 Di qui la centralità dell’esercizio intellettuale-contemplativo attestato in una pluralità di itinerari spirituali diversi e paralleli, senza il quale non si dà né vita attiva né unione estatica. Una concezione, dunque, fondamentalmente filosofica, che se in Pico non si oppone alla cultura biblico-teologica tradizionale, tuttavia stabilisce con questa un rapporto dialettico nella misura in cui la fa confluire in una stessa modalità espressiva in cui trova collocazione con pari valore la “teologia degli antichi”. Cade perciò il riferimento esclusivo alla tradizione cristiana “prospettivistica”, che da Paolo ad Agostino aveva proceduto piuttosto nel senso del passaggio dalla “figura” alla realtà che la compie e dunque in termini di teologia della storia. La novità dell’Umanesimo consisterebbe in questa centralità restituita alla filosofia, che aveva condotto Ficino a riconoscere al platonismo valore di teologia alternativa e complementare alla teologia veterotestamentaria, parimenti adombrante i misteri cristiani;13 ma che in Pico assurge a momento autonomo inteso alla “contemplazione a tutto campo del mondo nella sua varietà e unità”, capace, secondo il modello del Simposio, di coniugare desiderio del sapere ed ermeneutica delle fonti; una pluralità di fonti, poiché, nota Pico, “Non c’è stato mai nessuno, prima o dopo di noi, cui la verità si sia data a comprendere tutta”.14 Dunque vocazione e compito che egli intese in vista dell’affermazione della dignità umana, la quale non si dà da sé, ma “dipende dalla capacità di portare a compimento un itinerario che dal disciplinamento morale, attraverso l’esercizio della contemplazione, conduce all’identità col divino”.15 Prende così forma nella ricostruzione di Bori la lettura moderna di “a immagine e somiglianza”. Diversamente dalle letture antiche che insistevano ora sull’analogia della natura umana con la natura divina, ora al contrario sull’incomparabilità dell’umano col divino, i moderni testimoniano di una diversa sensibilità, in cui l’istanza teologico-politica prevale su quella teologica in chiave storico-salvifica. La riflessione non si applica più in prevalenza sull’operazione della grazia (Agostino) o sul processo che conduce all’assimilazione a Dio (Origene), bensì sul ruolo di rappresentanza sulla terra del potere divino assegnato all’uomo, poiché anch’egli, sostiene Pico, “contiene tutte le cose, non come causa, ma come ‘medio’, come microcosmo posto al centro dell’universo”.16 In altri termini, l’immagine divina impressa nella natura umana da parte di Colui che è per definizione senza immagine, viene compresa come assegnazione di un ruolo di rappresentanza del divino nel mondo e perciò di dominio sull’insieme della creazione, che trova espressione nella razionalità e socialità che la contraddistingue. È il caso di Locke che pone il primo capitolo di Genesi a fondamento del principio di uguaglianza, poiché il dominio conferito da Dio non ha carattere privato, in modo tale che possa tradursi in un privilegio del monarca su quelli della sua specie; si tratta bensì di “un diritto in comune con tutto il genere umano”.17 I due piani, quello biblico-esegetico e quello filosofico, finiscono col sostenersi a vicenda a tutto vantaggio dello spirito di tolleranza, che Locke vede parimenti comandato dal Vangelo, dalla ragione e dalla naturale comunanza in cui siamo nati. A sua volta Spinoza non dubita che “sia la stessa ragione sia l’insegnamento degli apostoli testimonino apertamente che la parola eterna di Dio, il suo patto e la vera religione sono scritti a caratteri divini nel cuore degli uomini, ossia della mente umana, e che in essi consiste la carta di Dio, alla quale egli appose il suo sigillo, e cioè l’idea di sé, come immagine della sua divinità”.18 Ed ecco altresì letture della creazione e dell’immagine di Dio che dai quaccheri nel Seicento fino a Martin Luther King sono poste a fondamento del rifiuto della guerra, della schiavitù, della disuguaglianza tra uomo e donna, prefigurando una società più giusta e più libera. Sarebbe pertanto il principio di razionalità congiunto alla coscienza della rappresentanza del divino nel mondo a specificare la sensibilità religiosa dei moderni, determinando la messa in questione della prospettiva monoteistica, sia biblica che coranica, nella misura in cui appare contrassegnata dall’esclusivismo religioso conseguente alla distinzione rigida tra vero e falso, e dall’autoritarismo che esclude i discorsi a carattere argomentativo e razionale, a scapito di quel senso di mistero, di ineffabilità e di apertura all’infinito che invece caratterizza le culture religiose orientali.19 Tuttavia il rilievo di questo limite grave, acutamente sollevato dagli studi di Jan Assmann,20 non si risolve per Bori in una valutazione senz’altro critica, bensì in un esercizio interpretativo volto innanzitutto a discernere nelle religioni monoteistiche la tendenza profetica, certo minoritaria, e che tuttavia rimane, a suo avviso, “la più adatta a fornire una descrizione sintetica e convincente dello specifico delle religioni monoteistiche, in particolare dell’Islam”21. Si tratta evidentemente di una opzione ermeneutica che punta a cogliere nell’ethos profetico l’essenza del monoteismo malgrado l’esclusivismo teologico o l’assolutismo politico, i quali certo “costituiscono sviluppi storicamente importanti, ma non sono deduzioni intrinsecamente necessarie al paradigma monoteistico”.22 Così pure, è vero che, a confronto con il carattere dialogico dell’argomentazione dei filosofi antichi, le formulazioni dei profeti appaiono marcatamente autoritarie, e tuttavia non sono prive di “una sostanza di razionalità etica” che le accomuna ad altre tradizioni sapienziali antiche, con in più “la potente semplificazione, la concentrazione dovuta al fatto che la divinità stessa vi si impegna, esigendo dagli uomini un impegno parallelo”.23 In altri termini direi che Bori, preso atto negativamente della pretesa monoteistica di detenere il monopolio della rappresentanza della divinità, si applica a distinguere nel patrimonio scritturistico delle religioni del “libro” una pluralità di voci più o meno contrastanti,24 tra le quali assegna valore preminente all’ethos profetico in vista di una più vera comprensione della natura stessa del monoteismo. È infatti grazie alla profezia che le tradizioni monoteistiche hanno potuto, a suo avviso, “distinguersi nettamente dalle religioni fondate sulla tradizione e i miti primordiali”, a cominciare dalla stessa religione primaria d’Israele; d’altra parte il contenuto etico della profezia è di per sé suscettibile di traduzione filosofica o sapienziale e di attualizzazione nel presente del lettore.25 In tal modo il pluralismo storico ed ermeneutico, una volta riconosciuto come carattere costitutivo della Scrittura rivelata, dispone al riconoscimento della veridicità di altre concezioni, che nell’antichità hanno espresso proposte etiche non dissimili da quelle enunciate dai profeti: la saggezza degli egizi, il pensiero morale ellenistico, la cultura religiosa del Medio Oriente e della Persia, e potrebbe costituire nel mondo moderno “la base di un incontro e di un vero dialogo tra culture”.26Questo non in vista di risoluzioni sincretistiche, ma come itinerari paralleli nel loro svolgimento e tuttavia miranti ad una stessa meta, di modo che “l’adesione alla propria via e il riconoscimento della pluralità delle vie” coesistano nella stessa persona.27 Non sorprende che in questa lunga, difficile ricerca, Pier Cesare Bori abbia trovato sintonia e supporto nel pensiero di Simone Weil, la cui riflessione gli appariva “una testimonianza esemplare della capacità di “pensare al plurale”28. Al termine della parabola moderna aperta da Pico, ella ne riproponeva ai suoi occhi l’esigenza intellettuale e morale di fondo, ma oramai disperatamente nell’epoca del crollo della civiltà europea.29 Anche a lei infatti l’universalismo vero, contrapposto a quello falso del cattolicesimo e perciò impotente a far fronte alla catastrofe, non si presentava come “il risultato di una “sintesi”, ma come l’assunzione nella stessa persona di due punti di vista, di due linguaggi”: il linguaggio filosofico che postula un nucleo essenziale comune, nel suo caso l’idea di Dio come bene, e il linguaggio religioso di “coloro che proclamano vera e bella solo una certa fede, (…) perché essi la hanno guardata con tutta l’anima”.30 Il fatto è che l’incontro con Weil non può avvenire altrimenti che sotto il segno della crisi e di una risoluzione critica, e così è stato, per quel che capisco, anche nel caso di Bori. Certo, l’esito del suo pensiero etico-religioso appare meno radicale, più comprensivo di una pluralità di punti di vista; nondimeno anch’egli a suo modo punta a un superamento della crisi nella direzione di un trascendimento di istanze culturali che egli considerava ancora di per sé legittime ma insufficienti al compito attuale. Più volte negli ultimi tempi della sua vita egli ha insistito nel tentativo di ricomporre in una unità superiore orientamenti intellettuali contrastanti o, peggio, tenuti insieme artificiosamente. Così, nella Lettera sui monoteismi ha indicato puntigliosamente nel profetismo la “componente “razionale”, o meglio “sapienziale”, e talvolta perfino razionalistica ante litteram” della Bibbia e del Corano; un “principio di razionalità che ha consentito l’acquisizione dell’eredità greca in momenti differenti della storia delle tre culture monoteistiche, (…) che può giustificare l’acquisizione delle scienze moderne nell’ermeneutica religiosa nel rispetto della loro coerenza interna, (…) che oggi può costituire la base di un incontro e di un vero dialogo tra culture”. Tuttavia neppure così si esaurirebbero le potenzialità implicite nel paradigma profetico; finché il principio di razionalità non “si apre al discorso mistico”, non “spinge i postulati dell’unicità divina sino in fondo, sino alla totalità dell’esistenza”, l’esclusività originaria impedirà “l’ammissione di una pluralità di vie che conducono al mistero che è al di là di ogni comprensione e definizione”.31 Lo stesso per ciò che concerne la questione ermeneutica, dal momento che la comunicazione profetica è sì un fatto storico da indagare come tale, e tuttavia esige di “essere ascoltata al di là della particolarità storica delle sue origini e di parlare qui e ora”.32 Una questione antica che nella modernità si è riproposta in termini di alternativa: o la lettura storico critica o la lettura storico salvifica, che Bori ritiene invece entrambe “vere” se contenute in una lettura “ancor più vera”, in grado di tenere insieme i due estremi in un modo ulteriore di verità, il modo mistico, appunto, inteso non come “la conclusione di un sillogismo o di una dialettica speculativa, ma di un atto spirituale e vitale, di un rivolgimento-spostamento di tutto l’essere verso la Realtà, una e totale”.33 Nel territorio ampio della ricerca teorica e pratica di Pier Cesare Bori, la traccia di cui si è riferito fin qui segna il percorso principale,34 ma non certo il solo. Direi anzi che esso stesso è adeguatamente compreso nella sua sostanza e nelle sue implicazioni solo se letto nell’intreccio delle altre strade o sentieri che ne disegnano la mappa.35 A cominciare dalle indagini storiche ed ermeneutiche perseguite nei vent’anni che precedettero la pubblicazione nel 1991 delle succinte tesi di Per un consenso etico tra culture,36 la cui illustrazione è fatta in buona parte di richiami a tali ricerche; quelle iniziali sull’ecclesiologia antica e contemporanea a confronto con il dato scritturistico, poi quelle relative al profetismo, con particolare riferimento alla figura di Mosè, alle radici storiche dell’antigiudaismo cristiano, all’ermeneutica biblica; come pure, su un altro a prima vista incongruo versante, gli studi dedicati all’interpretazione freudiana del monoteismo, alla spiritualità russa precedente la rivoluzione e ai coevi movimenti spirituali negli Stati Uniti. Una problematica complessa sostenuta da una riflessione critica e teorica di ampio respiro, che tiene presente la vicenda cristiana nel suo complesso posta in relazione al tempo presente. Tale è il movimento che caratterizza ricerche storiche evidentemente nate ogni volta da una specifica esigenza di comprensione del proprio passato piuttosto che da progetti occasionali e contingenti, e di conseguenza il loro essere ad un tempo così personali e così disponibili allo scambio intellettuale con i contemporanei. All’inizio degli anni settanta era forte in Bori l’esigenza di rifondare l’idea di comunione con Dio sulla “permanente esemplarità e rilevanza della testimonianza apostolica”, preservandola da mistificazioni e strumentalizzazioni ideologiche “al servizio del potere ecclesiastico”;37 esigenza riscontrabile altresì nell’interesse per le modalità in cui l’immagine della comunità delle origini è stata di volta in volta coniugata con le condizioni attuali della vita della chiesa nel corso dell’antichità.38 Ma destinata a declinare nella misura in cui avrebbe preso forma una riflessione orientata più all’aspetto etico e mistico che non a quello comunitario, nel crescente convincimento che il futuro del cristianesimo sarebbe dipeso dall’etica e dalla mistica, se “pensate radicalmente nel rapporto sapienziale con culture diverse dal cattolicesimo”.39 Sono invece determinanti per cogliere la direzione della nuova via imboccata con le tesi sulla lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane i due studi, in qualche misura complementari, dedicati negli anni ottanta rispettivamente alle radici storiche della controversia antigiudaica e alla storia dell’ermeneutica cristiana, a cui vanno aggiunti i saggi coevi raccolti sotto il titolo L’estasi del profeta.40 Nelle pagine conclusive di Il vitello d’oro si trova in effetti enunciato il nucleo tematico che sosterrà fino alla fine la riflessione di Bori. Egli muove dalla critica a “una certa lettura spirituale” della Bibbia in senso antigiudaico, che se inizialmente fu indispensabile a consentire il distacco del cristianesimo nascente dalla religione madre,41 si mutò presto in strumento di accusa e condanna operate in forza dell’alterità carne-spirito, corpo-anima, che relegava l’ebraismo fuori dal cerchio di luce di una nuova, superiore elezione tutta spirituale, e avrebbe altresì informato l’ermeneutica antica e medievale abolendo ogni distanza storica dal testo, cosicché “tutto l’Antico Testamento viene restituito al suo senso spirituale e mistico e viene svuotato e pulito di tutto ciò che sa di terra, di carne e di sangue”.42 E questo, precisa Bori, non perché egli intenda “costruire un’apologia del giudaismo”, né “restituire al cristianesimo un’essenza autentica, sostanzialmente prossima al giudaismo”, né sottoporre a critica la religione e in particolare la mistica, ma per porre in piena luce “la costruzione, assai precoce, dell’immagine astratta, funzionale ai bisogni della cristianità, del giudaismo come esponente della carnalità, e garanzia e rassicurazione sulla superiore, spirituale estrazione cristiana”; costruzione che in definitiva si è risolta in “un caso particolare di quel fenomeno più generale di autoestraniazione e di estirpazione delle proprie radici, con cui gli uomini ‘migliori’ della cristianità si precludono gli esiti più naturali della procreazione, dell’operosità, della cultura, del gioco”.43 Di qui il rovesciamento a favore di una interpretazione secolare della tradizione giudaica e della stessa Scrittura, la cui origine Bori individuava nello “zelo dell’interprete ebraico per la legge”, che guarda ad essa come a un dono per regolare ogni aspetto della sua esistenza quotidiana; interpretazione che avrebbe connotato la predicazione stessa di Gesù, non intesa ad annullare il comandamento, ma a “riproporlo con forza nella sua essenza in modo che esso divenga nuovamente accessibile, comprensibile, praticabile in qualsiasi situazione e a chiunque accetti l’invito a cambiare vita”. Dunque secolarità come disposizione a “interrogare il testo a partire dalla concretezza della situazione mondana, in cui si è posti a operare”.44 Tale è in sostanza l’enunciato della prima tesi di Per un consenso etico tra culture, con un rimando esplicito alla posizione assunta in L’interpretazione infinita a proposito dell’interpretazione mistica,45 la quale ritrova il suo significato proprio e originario se coniuga carne e spirito, e perciò senso storico e polisemia, con un riferimento costante all’esperienza vitale dell’interprete, secondo la formula, resa celebre da Gregorio Magno, che stabilisce una correlazione tra crescita spirituale del lettore e crescente comprensione dei significati molteplici della Scrittura.46 Su tale atteggiamento interpretativo, già diffuso in precedenza ma destinato a mutare già in epoca scolastica,47 Bori fa leva per dare spessore e credito all’opzione ermeneutica fondata antropologicamente sull’idea di una progressione della vita spirituale che, senza negare la realtà storica, riconosca alla formazione etica la base indispensabile “ad ogni passo ulteriore verso la contemplazione, per non correre il rischio di una carnalità che si traveste di spiritualità”.48Ovviamente egli sa bene che altra è la formula preferita dall’ermeneutica che punta a “un’ascesi e una mistica di impronta cristologica, ecclesiastica e sacramentaria”, come nel caso eminente di Henri de Lubac, che con qualche forzatura ne ha fatto la chiave di lettura dell’intera esegesi medievale.48 Ma egli è altresì fermamente convinto che “se l’affermazione della priorità della legge, spinta all’estremo, degenera in moralismo, la sua totale postposizione o la sua dimenticanza taglia il cristianesimo alle sue stesse radici e lo lascia sospeso nell’aria come puro spiritualismo”.50 In altri termini ciò che Bori intende salvaguardare, seguendo il modello di Gregorio, è la piena circolarità tra azione e contemplazione, dunque un movimento che parte dalla corporeità e a essa ritorna, potenziato dalla crescita spirituale e dalla comprensione di significati sempre nuovi: “La formula dei quattro sensi è appunto soltanto una formula, per dire che la parola biblica va espansa sino a significare tutta la realtà, da quella primordiale, come le costellazioni, sino al momento attuale, inteso come realizzazione di profezie e di modelli biblici, e avanti sino alla fine dei tempi”.51 Non è qui il caso di seguire la ricostruzione che Bori offre degli sviluppi della formula gregoriana nell’alto medioevo, quindi la sua trasformazione nella scolastica a vantaggio della ragione teologica, il suo declinare con il prevalere della preoccupazione filologica degli umanisti e, soprattutto, con l’inconciliabile opposizione luterana tra lettera che uccide e spirito che vivifica; fino alla radicale presa di distanza dalla fonte biblica stessa da parte della nuova razionalità europea opposta al “pregiudizio teologico”.52 Tuttavia occorre rilevare quello che egli segnala come il punto di passaggio “tra aree ermeneutico-teologiche profondamente diverse”, vale a dire dall’esegesi antica, ma anche erasmiana, che cerca nel testo il “mistero”, all’esegesi della Riforma con l’affermazione della perspicuità della Scrittura interprete di se stessa, destinata presto a risolversi spinozianamente in uno studio che non segue “altri principi e altri dati se non quelli che si ricavano dalla Scrittura e dalla sua storia, dove storia non è più la storia sacra della tradizione antica, ma è storia al pari di ogni storia umana”.53 Ne conseguiva sia sul fronte teologico che sul fronte dell’esegesi storico-critica l’affermazione dell’interpretazione letterale privata del suo complemento spirituale, generando il divario, di cui in quegli stessi anni scriveva Michel de Certeau, tra i discorsi del mistico che “fonda l’esistenza esattamente su ciò che gli sfugge” e gli studi storiografici deputati a “produrre una ragione delle cose, una “spiegazione”.54 Ma con un approdo diverso rispetto a quello del grande studioso della mistica, malgrado alcune sintonie di fondo. Comune è stata in particolare l’opinione circa il ruolo critico svolto dall’esegesi luterana fondata sull’idea della chiarezza della Scrittura e perciò deputata a ritrovarne il senso originario, mentre l’esito storico sarebbe stato piuttosto di aprire la strada alla critica erudita e alla messa in discussione della possibilità stessa di pervenire a una siffatta leggibilità del testo sacro, ricondotto pertanto alle comuni regole d’interpretazione.55 Tuttavia ciò che a de Certeau si presentava come una frattura incolmabile tra scienza e fede,56 è stato vissuto positivamente da Bori come una ricollocazione dell’interprete “nel mezzo della situazione secolare”,57 che restaura, come si è visto, il punto di vista ebraico e con esso la relazione corpo-spirito. Non che tale risultato consegua senz’altro dall’affermazione della metodologia storico-critica, poiché questa consente, certo, “la riappropriazione della storicità del testo biblico e di tutta la sua dimensione legale-normativa”, ma le sue pretese di neutralità la isolano e non mettono l’esegeta in condizione di “rispondere alle domande più radicali e più semplici”.58 Al contrario i risultati conoscitivi saranno tanto più omogenei al testo quanto più le domande poste ad esso nascano dalla concretezza della propria collocazione storica, cosicché “la verifica e la correzione della situazione vitale dell’interprete è un passaggio inevitabile anche sotto il profilo epistemologico”.59 Non sorprende allora che il lungo percorso intrapreso da Bori per seguire i mutamenti storici dell’ermeneutica scritturistica termini con un capitolo dedicato alla “secolarizzazione romantica del paradigma antico”, nel convincimento che il recupero romantico della mistica della Scrittura avesse segnato una ripresa secolarizzata dei tratti dell’antica ermeneutica religiosa, poiché nel porre “i fondamenti più profondi per il superamento dell’ermeneutica classica”, i protoromantici avevano fatto un uso talmente massiccio della terminologia teologica da produrre un effetto di nuova sacralizzazione.60 Ne era stato consapevole Friedrich Schlegel quando aveva riconosciuto l’importanza della storia dell’ermeneutica patristica, talmudica e infine anche protestante per caratterizzare la filologia che egli definiva “progressiva”, cioè radicata nella lettera ma culminante nella “critica” storica e filosofica”. In tal modo era riproposta la distinzione tra lettera e spirito, ma non più nel senso del superamento, poiché in questa nuova concezione lo Spirito aderisce a tal punto alla lettera che “si può parlare di una mistica della lettera, di una magia della lettera, di una onnipotenza della lettera”. E questo riferito non solo al testo sacro, ma all’insieme delle opere passate intese come un tutt’uno in crescita, cosicché interpretare significa “cogliere e concentrare nell’opera presente la totalità della poesia”.61 Di qui l’emergere di un nuovo concetto di critica, che già Walter Benjamin aveva scorto nell’impegno dei romantici a “portare a un grado superiore di consapevolezza la riflessione presente nell’opera”,62 e che a Bori sembrava altresì risolversi in una forma di sacralizzazione dell’intero patrimonio letterario e artistico dell’umanità, poiché “attributi di origine sacrale, quali ispirazione, infinità di senso, lettera e spirito, sono applicati non solo più alla Scrittura, ma a qualsiasi testo compiuto, perdendo evidentemente in specificità e intensità religiosa”.63 Come esempio emblematico di una siffatta intelligenza critica, Bori riferisce la leggenda romantico-tedesca di Raffaello pittore visionario, che per dipingere la Vergine avrebbe trovato ispirazione in una esperienza mistica. Tale sembrò essere in effetti il caso per la stupenda Madonna di San Sisto, contemplata nel 1798 da un gruppo di romantici nella galleria di Dresda ed elevata a quadro rivelazione tale da suscitare esperienze estatiche anche negli spettatori. Leggenda successivamente destinata a svolgere un ruolo rilevante nella riflessione poetica e filosofica degli intellettuali russi, da Puškin, il cui nome finì coll’essere associato a quello di Raffaello, fino, tra gli altri, a Herzen, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, Solov’ëv, Bulgakov, Florenskij. A questa vicenda culturale Bori ha dedicato uno dei suoi saggi più appassionati, seguendo la lunga traccia lasciata nella cultura russa dalla discussione intorno al quadro dagli anni venti dell’Ottocento fino a metà del Novecento.64 Ma qui importa soprattutto cogliere le implicazioni ermeneutiche sottese alle riflessioni dei romantici tedeschi riprese e approfondite nelle pagine che concludono L’interpretazione infinita: “Nei discorsi ammirati sulla Madonna di San Sisto come immagine ispirata, rivelata, infinitamente ricca, capace di interpellare chi la contempla, e di trasportarlo nell’estasi, riconosciamo dunque l’affiorare di atteggiamenti caratteristici dell’antica ermeneutica religiosa”; non senza il contributo della reviviscenza di altre idee antiche: platonismo, neoplatonismo, ermetismo, mistica dionisiana; tutti influssi che hanno avuto importanza nella definizione della filosofia religiosa di Schelling, che non a caso vide in Raffaello colui che tra i pittori “meglio seppe raggiungere la perfetta fusione tra ‘l’idea’ e ‘la storia’ attraverso il simbolo estetico”.65 È pertanto grazie a questo rinnovato atteggiamento interpretativo che l’istanza razionalistica – che dalla scolastica all’illuminismo, passando per la Riforma, aveva scommesso sulla possibilità di pervenire a una lettura univoca del testo e infine a una comprensione oggettiva fondata sul possesso delle lingue e la conoscenza del contesto storico –, trovava un bilanciamento nella percezione soggettiva di un senso ulteriore, di un secondo senso emergente dal testo come un contenuto di pensiero non compiutamente espresso dall’autore e quindi suscettibile di ulteriori esplicitazioni. Qui di nuovo la posizione di Bori incrocia quella di de Certeau contraria all’oggettivismo della scienze contemporanee che favorisce la propensione dell’interprete a collocarsi con il suo carico esistenziale al di fuori e al di sopra del soggetto indagato, invece di “mantenersi nel presente della sua storicità”.66 Per entrambi la questione capitale è la questione del soggetto, che tuttavia si definisce per l’uno nei termini di un sapere altro rispetto a quelli costituiti sulla razionalità sociale, per l’altro in termini prioritariamente etico-dottrinali con un richiamo esplicito alla storiografia liberale e modernista,67 a cui è riconosciuto il merito di avere avviato “una decisa ristoricizzazione della figura di Gesù nel contesto del giudaismo del suo tempo, e in modo particolare del giudaismo normativo, rabbinico”.68 Ne sarebbe conseguita la ripresa dell’interesse per l’insegnamento di Gesù inteso come “atto d’interpretazione secolare, ‘intramondana’, della tradizione legale ebraica”;69 e con questo, si augurava Bori, la possibilità per la ricerca di “tornare ad abbracciare nella comparazione, sotto lo stesso profilo etico-dottrinale, altre scritture extrabibliche”, nel convincimento che i tempi impongono la costruzione di un’etica comune, a cui la cultura ebraico-cristiana è chiamata a dare un contributo decisivo, ma non esclusivo, per il futuro della nostra civiltà.70 L’intento che orienta il pensiero di Bori e ne qualifica il movimento in questa fase centrale della sua ricerca è dunque di mostrare, prolungando l’ermeneutica romantica, la possibilità di assumere il testo biblico come paradigma per ogni altra tradizione, e perciò senza tentare di uscire dal proprio linguaggio, ma dilatandone lessico, concettualità e sensibilità interpretative in modo da disporsi a riconoscere l’identità essenziale delle diverse tradizioni pur nella loro specificità;71 il tutto con una forte attenzione alle continuità e agli intrecci storici piuttosto che alle rotture epocali, così da consentire di riconsiderare sul lungo periodo anche la svolta illuministica e la rivoluzione scientifica.72
II. Due percorsi collaterali giovano a cogliere meglio tale movimento di pensiero: il percorso breve sulle tracce della composizione di Mosè e il monoteismo, ultimo libro di Freud, e quello lungo alla ricerca del Tolstoj filosofo religioso e del ruolo che egli ebbe nella discussione religiosa del primo Novecento, non solo in Russia. Entrambi imboccati da Bori nella seconda metà degli anni settanta, un periodo di difficoltà esistenziali ma anche di rinnovato slancio conoscitivo.73 Lo studio dell’accidentata composizione del Mosè di Freud, nato occasionalmente nel 1976 e mai approdato per ragioni personali all’edizione critica dell’opera,74 va iscritto come un momento alto nell’itinerario culturale che condusse Bori a una personale “scoperta dell’ebraismo”.75 Partito dalla visione che la propria generazione ne aveva ricevuto nell’epoca del cosiddetto rinnovamento biblico – in realtà più interessato a un ritorno alla teologia antica e, dunque, alla lettura spirituale dell’Antico Testamento che non a un ritorno alla Bibbia come tale – si era d’altra parte dovuto misurare con la ricerca scientifica oramai consapevole dell’indipendenza linguistica e religiosa del patrimonio scritturistico ebraico. Ne sarebbero conseguite nuove consapevolezze teologiche e storiche, vissute da Bori come progressive scoperte dell’ebraismo man mano che andava riflettendo sul rapporto tra le due Scritture sacre, quindi sul rapporto tra giudaismo e cristianesimo storico, infine e in modo decisivo sul rapporto tra ebraismo e modernità. Riguardo a quest’ultimo punto, la sua tesi è che se “la modernità è inseparabile dalla secolarizzazione, cioè dall’organizzarsi della cultura e delle società in base a principi razionali distinti da quelli della religiosità confessionale, il contributo dell’ebraismo storico è fondamentale”. Lo è quanto meno a partire dall’operazione con cui Spinoza per emanciparsi “mette in discussione radicale la tradizione, compresa la propria” e poi, soprattutto, con la critica di Marx a una emancipazione dell’ebreo che si risolva in “assimilazione a un cristianesimo spiritualistico, illuminista o idealista”, mentre il compito è trasformare la critica del cielo in critica della terra, e perciò del diritto e della politica.76 Su questa linea, intesa ad affermare “il ruolo delle basi materiali e corporee dell’esistenza concreta, storica, individuale e collettiva”, che rendeva inoperante il tradizionale binomio carne-spirito, va collocata anche l’istanza critica di Freud. Bori coglie acutamente il movimento fondamentale col quale il padre della psicoanalisi, nell’atto stesso con cui, facendo derivare il monoteismo mosaico da quello instaurato da Amenophi IV, “dissolveva l’ebraismo nella grande tradizione filosofico-religiosa dell’umanità”, rivendicava la superiore spiritualità ed eticità del monoteismo ereditato dagli egizi e fedelmente trasmesso alla cultura occidentale.77 In questo modo Freud “attribuiva al giudaismo una nuova, diversa, più universale legittimità. Tolto lo scandalo del particolarismo, eliminata la pretesa indebita ad una esclusività che si appella ad una rivelazione storica separata, l’ebraismo viene connesso ad una civiltà antica le cui acquisizioni sono, appunto, patrimonio ecumenico: giacché l’antichità stessa onora nell’Egitto il paese che racchiude le cose più mirabili, le opere più straordinarie e ne ammira l’antichissimo magistero religioso”.78 Cosicché Mosé e il monoteismo per Freud non rappresenterebbe affatto, come per lo più si pensa, il congedo definitivo dal giudaismo, ma piuttosto la riscoperta della sua “essenza” in forza di una considerazione secolare della Bibbia che poneva l’accento sulla valenza universale di una spiritualità ispirata a “una ricerca di giustizia, come istanza assoluta nella concretezza delle situazioni e nella lealtà verso l’“eredità dei padri”.79 In questo Freud seguiva un’istanza ermeneutica prossima a quella che aveva condotto Harnack a interrogarsi sull’”essenza del cristianesimo” nel tentativo di ricondurlo a un nucleo semplice e sublime, che per lui è “vita eterna nel mezzo del tempo nella forza e davanti agli occhi di Dio”,80 mentre per l’altro è affermazione di un’immagine di Dio estremamente purificata assunta a “garante di un altissimo impegno etico, calato nella concretezza dell’esistenza”.81 In definitiva due esercizi di astrazione storica che avevano la loro ragion d’essere nella posizione personale dell’interprete e più ampiamente “nell’ansia di pervenire, a partire dalla ricognizione storica, ad una riproposizione attualmente plausibile della propria tradizione religiosa”.82 Ansia tanto più acuta negli anni trenta, quando per l’ebreo Freud la questione teorica delle origini dell’ebraismo s’intrecciava con la domanda di nuovo all’ordine del giorno su “come mai l’ebreo è diventato ciò che è e si è tirato addosso un odio così inestinguibile”,83 la cui risposta egli era convinto di aver trovato nel “carattere” del fondatore del giudaismo. Lo studio amplissimo e di lunga durata dedicato a Tolstoj contrasta con quello concentrato su una singola opera dedicato a Freud per un breve periodo; tuttavia comune è stato l’interesse “religioso” che ha mosso Bori a battere terreni più o meno distanti dal suo originario ambito di studi nonché dal suo profilo accademico. Inoltre, nell’uno e nell’altro caso, egli si è mosso controcorrente nella misura in cui si è applicato a indagare approdi considerati con freddezza e diffidenza in ambito psicoanalitico o in ambito letterario, ancor più in ambito storico-religioso, per non dire delle ortodossie religiose. L’altro Tolstojs’intitola significativamente il volume col quale Bori portava a compimento nel 1995 una ricerca iniziata quasi vent’anni prima con un’antologia, curata insieme a Paolo Bettiolo, di testi tratti dalle opere dei teologi, filosofi ed ecclesiastici che più avevano contribuito al dibattito religioso nella Russia del primo Novecento; antologia che si apriva con una sezione dedicata al radicalismo evangelico tolstojano.84 “Altro”, s’intende dunque rispetto al Tolstoj scrittore,85 i cui interessi filosofico-religiosi, sebbene pervicacemente perseguiti negli ultimi trent’anni della sua vita, non avevano ancora destato pressoché alcun interesse né, va da sé, in Unione Sovietica, né in Occidente, a motivo di “una prospettiva religiosa estremamente critica verso la tradizione, ed estremamente impegnativa e dura nella valutazione della civiltà occidentale”.86Anche se a ben guardare neppure c’era stata vera discontinuità, a tal punto l’elemento letterario e quello teorico si erano in Tolstoj “sempre più profondamente intrecciati, prima e dopo il 1880”, l’anno della svolta religiosa attestata da Confessioni; e perciò già nel periodo di Guerra e pace e di Anna Karenina, capolavori letterari che andrebbero illuminati anche a partire dalla produzione filosofica,87 così come la successiva produzione letteraria fino a Resurrezione risentono del travaglio teorico testimoniato dalle opere saggistiche di quegli anni.88 Ma stando così le cose, s’imponeva all’interprete una ben più articolata e comprensiva valutazione dell’opera tutta di Tolstoj, inseparabile cioè dalla comprensione delle inquietudini radicali e delle esigenze vitali che hanno segnato dall’inizio alla fine la sua vita.89 Tale è stato l’impegno di Bori, profuso in una quantità di saggi, articoli e traduzioni, realizzati sulla base di uno studio complessivo dell’opera filosofico-religiosa e della letteratura sapienziale tolstojana nel contesto della cultura religiosa russa tra Otto e Novecento, in gran parte svolto nelle biblioteche di Mosca e in quella stessa di Tolstoj a Jasnaja Poljana.90 Di questo ampio lavoro non è qui il caso di dare conto in dettaglio, come pure meriterebbe, ma vorrei almeno rilevarne l’importanza che ha avuto nello sviluppo del pensiero etico-religioso dello studioso e per le sue stesse pratiche di vita. Non a caso l’interesse di Bori si è concentrato prevalentemente e ripetutamente sul lungo, travagliato processo che condusse il grande scrittore non tanto ad una conversione, dato che cristiano lo era stato da sempre, quanto a un cambiamento nel modo di intendere il cristianesimo.91 Ciò che ha occupato Tolstoj a partire dalla metà degli anni settanta è stata, nella ricostruzione di Bori, la ricerca di un chiarimento del senso della vita, di una filosofia, distinta dalla scienza e sostanzialmente identificata con la religione, intesa vitalisticamente come “conoscenza che dà le migliori risposte possibili alle domande concernenti la vita e la morte umana”.92 Una strada, che una volta imboccata, lo avrebbe necessariamente condotto a “una religione intesa come sapienza etica”, e perciò con un carattere universalistico che lo distanziava enormemente dal cristianesimo ortodosso con la sua teologia dogmatica, la sua ecclesiologia, il suo culto sacramentale.93 Ne conseguirà l’approdo a “una fede, frutto della riflessione di tutta l’umanità sin dai tempi più remoti, che ci fa intendere la vita come un dono e un compito che ci viene da una volontà infinita, inaccessibile nella sua essenza, e al tempo stesso coincidente con la vita stessa”, per cui, afferma Tolstoj in Confessioni, “Conoscere Dio e vivere è la stessa cosa. Dio è la vita”.94 Una fede che pertanto non si risolve in pura contemplazione, ma esige un fare in obbedienza alla volontà che sostiene la vita dell’universo e gli dà senso.95 Tale è, secondo Bori, la chiave di lettura fondamentale per intendere dagli anni ottanta in poi il linguaggio di Tolstoj e quindi la sua rilettura delle fonti bibliche, storico-religiose e filosofiche, in definitiva l’intero patrimonio culturale dell’umanità, chiamato a dare conferma alla sua posizione. Di qui l’enorme lavoro dedicato per un verso alla traduzione e commento dei Vangeli, per l’altro alla compilazione di una serie di raccolte di letteratura sapienziale che ha occupato Tolstoj negli ultimi anni della sua vita. L’Unificazione e traduzione dei quattro vangeli, composta nello stesso periodo di Confessioni e di Indagine sulla teologia dogmatica, l’opera con cui si congedava dall’Ortodossia,96 ha come scopo principale quello di ricondurre all’insegnamento stesso di Gesù la tradizione etica cristiana, in gran parte deformata e falsificata dalle dottrine della diverse confessioni, tutte parimenti persuase di essere l’unica vera, ma riconosciuta nella sua bellezza e verità da quanti la professano con le opere, “tanto da non poter vivere senza di essa”. Presso costoro, che identificava con il popolo lavoratore, egli riteneva di aver trovato la risposta alla sua domanda sul senso della vita, meglio, sul “come vivere”.97 Una risposta che si rivela alla ragione senza contraddirne le leggi proprie: “La rivelazione – scrive Tolstoj – è la conoscenza di quello cui l’uomo non può giungere con la ragione e che tuttavia viene ad ogni uomo da quel principio che è nascosto nell’infinito. Tale per me deve essere la proprietà della rivelazione che produce la fede; e questo io cerco nella tradizione che riguarda Cristo e per questo io mi rivolgo a essa con le più rigorose esigenze della ragione”.98 Una razionalità, pertanto, non astratta, ma pratica e vitale, che tende a coincidere con “quella sapienza di vita che è incorporata nella religione fattiva” e rappresenta “il patrimonio comune dell’umanità”.99 Per quanto si è detto fin qui del pensiero di Bori, non sorprende che egli si sia ritrovato per l’essenziale in una nozione di razionalità che Tolstoj aveva maturato sul terreno della filosofia moderna tra Kant, Rousseau, Pascal, Schopenhauer, e aveva infine coniugata in termini sapienziali,100 applicandola dapprima ai Vangeli quindi a testi di ogni tempo e di ogni cultura101 nel convincimento che “nell’uomo vive una luce divina, che è scesa dal cielo, e che questa luce è la ragione e occorre servire essa sola e in essa sola cercare il bene”.102 Per altro è lui stesso a riconoscere di aver fondato anche sulla lettura tolstojana della Bibbia la sua proposta di una rilettura delle Scritture “valorizzandone la base sapienziale, quindi direttamente universalistica e transculturale”, distinta dall’aspetto profetico,103 e di aver trovato supporto nelle tesi ermeneutiche soggiacenti al Ciclo di lettura, a cui Tolstoj “aveva affidato il compito di trasmettere e diffondere in termini critici e pluralistici, i testi fondamentali della sapienza dei popoli”.104 In questo senso si esprime la terza tesi di Per un percorso etico tra culture, snodo decisivo della concezione etico-religiosa ed etico-politica di Bori.105 Vi si afferma che la lettura spirituale delle Scritture deve darsi “oggi” in senso sapienziale piuttosto che mistico, cosicché l’accento non cada più sull’esplicitazione da parte dell’interprete della “virtus oggettiva del testo, che già in sé contiene ogni significato”, bensì su “un’interpretazione retta da una comunione di vita tra testo e lettore, che prolunga le concezioni precedenti, secolarizzandole e salvandone l’essenziale”; laddove la continuità è dovuta al riconoscimento che “l’interpretazione di qualsiasi testo, e primo fra questi il testo biblico, non è possibile senza comunione spirituale con esso”, mentre la novità consiste nell’assunzione della nozione di “lettura spirituale” in accezione sapienziale.106 Tale lettura peraltro trova fondamento nel carattere evolutivo delle grandi tradizioni culturali, passate da conoscenze funzionali al vivere ordinato secondo i precetti divini (“la legge e i profeti”), a un sapere più ampio che affronta criticamente il mondo dell’esperienza e le sue leggi accentuando il carattere concettuale e insistendo sugli aspetti etici e pragmatici. Senza mettere in discussione la presenza di Dio nel mondo, tale modalità di pensiero determina uno spostamento dell’attenzione sulla coscienza, sul perfezionamento morale, sulla conoscenza delle cose ultime non scissa dall’agire etico e politico. Tale sarebbe stato il caso per la letteratura biblica sapienziale assunta a vertice della rivelazione, per la predicazione stessa di Gesù, per l’insegnamento di Socrate, per la filosofia stoica, per l’interpretazione esoterica del Corano promossa da al-Ghazali, e per quanto riguarda le tradizioni orientali, lo stesso movimento si può cogliere negli insegnamenti di Confucio, nel Tao-te-ching, nella Bhagavadgītā.
III. “Nel grave momento attuale, il compito più urgente non è teologico, ma quello di superare la separazione tra etica e politica e di contribuire all’elaborazione di un’etica che, offrendo la base consensuale e tendenzialmente universalistica della moderna irrinunciabile cultura dei diritti, sia l’alveo in cui la pluralità delle tradizioni, accolta criticamente, converga in un complesso di convincimenti fondamentali”.107Difficilmente Pier Cesare Bori avrebbe potuto esprimere più chiaramente e compiutamente ciò che egli andava concependo e vivendo come il compito della propria generazione; un compito principalmente etico, reso ineludibile dalla prospettiva secolare che egli aveva assunta attraverso un personale processo di riflessione critica, di chiarificazione interiore e di assunzione di responsabilità nei riguardi dei contemporanei. La scansione della tesi “Etica” evidenzia i passaggi cruciali della sua ricerca teorica, di cui ho provato fin qui a individuare alcuni svolgimenti, ma che necessitano di una ulteriore esplicitazione con riferimento alle pratiche di vita attraverso le quali egli ne ha di tempo in tempo cercato la verifica. Bori ha dunque avvertito un compito urgente verso il proprio tempo che ha tradotto innanzitutto nella “decisione di sviluppare a fondo la prospettiva ‘secolare’”, subordinando perciò l’elaborazione teologica alla “costruzione etica comune, in cui la cultura ebraico-cristiana tornasse ad avere un ruolo essenziale”.108 E questo, chiarisce, non per indifferenza verso la teologia, ma a motivo della piega da essa assunta nel Ventesimo secolo contro i tentativi di interpretazione razionale, progressista, liberale, modernista della generazione precedente il 1914, erede della “grande cultura storico-religiosa dei secoli XVIII e XIX”,109 e a difesa dei valori dell’appartenenza religiosa intesa come “presupposto necessario ad ogni possibile discorso o presenza nel mondo”.110 Non è difficile cogliere in questa critica l’esito delle riflessioni e discussioni che nel 1968 avevano maturato in lui la decisione di chiedere la riduzione allo stato laicale e di avviarsi verso la condizione “comune” di marito e di padre.111 Non più dunque divisione tra Dio e Cesare, laici e cattolici, filosofia e teologia, natura e grazia e, in definitiva, tra carne e spirito, che aveva sortito l’effetto di spezzare il legame di continuità che pure era appartenuto alla cultura ebraico-cristiana finché non si era imposta la lettura mistica e spiritualistica dell’Antico Testamento a scapito, come si visto, della carnalità.112 Il compito, teorico e pratico a un tempo, si è in seguito ulteriormente chiarito nel senso della ricomposizione dell’unità dell’individuo contrastando la separazione tra spirituale e temporale e perciò tra etica e politica, che ha condotto ad “ammettere la connaturalità al politico della non verità, della corruzione, della coazione e della violenza, in varie forme, a seconda dei sistemi politici”.113 La via perseguita da Bori per rendere manifesta e praticabile una “sintesi vitale e militante tra religione, etica e politica” è stata quella dell’insegnamento,114 sia in sede universitaria, dove già l’attivazione nel 1987 dell’insegnamento di Filosofia morale accanto a quello preesistente di Storia delle dottrine teologiche segnala il precisarsi dell’impegno pedagogico in conseguenza della maturazione intellettuale,115 sia al di fuori, con la promozione di gruppi di lettura con amici e studenti dei cui frutti fruirono gli stessi corsi universitari, che assunsero a loro volta il carattere di una formazione fortemente partecipata.116 Il centro dell’attività pedagogica è stato dunque occupato dalle pratiche di lettura, soprattutto di testi antichi appartenenti a tradizioni culturali occidentali e orientali, scelti con l’esplicito intento di costituirli come parti di “una ricerca dei fondamenti antropologici delle rispettive differenti posizioni etiche”;117 in definitiva come parti di un canone costruito sui presupposti ermeneutici enunciati nelle tesi di Per un consenso etico e pertanto caratterizzato come pluralistico e critico, nonché aperto a quanto la creatività personale è in grado di aggiungervi come esito di una, per quanto parziale, ricomposizione della propria unità spirituale. Né, all’occasione, Bori si è sottratto al tentativo di stabilire un più diretto rapporto con la politica militante, portando nelle sue stesse sedi l’esercizio della lettura condivisa;118 tentativo che se fu ingenuo nella pretesa di riorientare in qualche misura l’azione politica, e perciò destinato a breve durata, fu tuttavia per molti giovani, ma anche per qualche vecchio militante, l’occasione in cui misurarsi con un modello di cultura politica fondato su un’etica che, pur “conservando il nucleo essenziale e radicale della tradizione religiosa”, si distanziava drasticamente dalle “modalità eteronome dell’etica tradizionale, con il rinvio ad autorità esterne alla coscienza”.119 D’altra parte questo singolare esperimento di militanza politica nella sinistra di provenienza marxista consumato nei primi anni novanta, deve essere letto in continuità con l’impegno, non meno connotato in senso politico, a sostegno della cultura dei diritti nelle file di Amnesty International, che nei primi anni ottanta si era tradotto per Bori in corsi di formazione per i volontari e nell’organizzazione di due convegni internazionali, uno sulla pena di morte, l’altro sull’intolleranza.120Rilevantissimo fu al riguardo l’apporto di Norberto Bobbio col suo richiamo ai valori della cultura dei diritti e il convincimento che i diritti non si fondano, ma si praticano. Tuttavia a sostenere l’impegno di Bori c’era altresì “il problema di argomentare a favore dell’universalità dei diritti umani al di fuori della cultura europea”;121 di qui “l’ipotesi di una elaborazione etica collettiva in cui la pluralità delle tradizioni, ivi compresa quella ebraica e quella ebraico-cristiana, tutte accolte criticamente, confluisca in un complesso di convincimenti fondamentali, comunemente condivisi”, vale a dire i convincimenti etici che “molta parte dell’umanità ha posto e pone a fondamento del vivere sociale”.122 Negli stessi anni in cui si era messo apertamente alla prova dell’impegno politico (fu iscritto per qualche anno al Pds a partire dalla sua fondazione nel 1991), Pier Cesare Bori maturava la risoluzione di dare vita a un gruppo di meditazione religiosa “nello spirito delle riunioni della ‘Società degli Amici’”, i cosiddetti Quaccheri, ai cui meeting silenziosi era stato condotto per la prima volta da Massimo Lollini nel 1990 a New Haven.123 Risoluzione che segnava il definitivo distacco dal cattolicesimo dopo un ultimo tentativo di riavvicinamento condotto, non a caso, per la via della messa in pratica dei precetti evangelici.124 Tuttavia non certo spinto da spirito settario, bensì come gesto necessario per uscire “dall’ambiguità tutta italiana: tutti cattolici, tutti miscredenti”, ma soprattutto e in definitiva per realizzare un ideale religioso fatto di silenzio e di prassi, in cui le istituzioni si relativizzano e si potenzia invece la possibilità di far convivere in se stessi e nel gruppo “ispirazione profetica biblica e liberalismo religioso”, nonché la possibilità di comunione e di incontro con credenti di altre religioni, i musulmani innanzitutto.125 Va da sé che un siffatto impegno non abbia trovato sempre comprensione e talvolta abbia prodotto tensioni nei rapporti amicali. Nodi che sono ancora da sciogliere, non certo per ciò che concerne l’affetto e la stima, quanto relativamente alle questioni di fondo, intellettuali e spirituali, da lui sollevate e testimoniate. Così, è facile provare ammirazione per la lunga pratica di letture in carcere insieme a un gruppo di studenti, con implicazioni importanti sia sul versante pedagogico, per la peculiarità della didattica, che sul versante umanitario, per la qualità e permanenza nel tempo di rapporti con persone provate da miseria, solitudine, ignoranza, sofferenza e tra queste molti stranieri, soprattutto maghrebini. Più difficile riconoscere la portata della rottura culturale e politica che una siffatta pratica ha comportato. Intanto per la continuità tra il “dentro” e il “fuori”; il dentro del gruppo, che non era già più quello della Società degli amici, ma “una cosa più leggera, libera, senza identità deliberate”, per stare insieme, leggere, conversare, stare in silenzio, e il fuori del carcere, nel convincimento che le stesse cose mancavano agli uni e agli altri, che comune era “l’aspirazione ad una vita diversa, degna, onorevole” e “il bisogno di sapere e di luce”.126 E perciò il venir meno di una di quelle barriere protettive che per lo più permangono, o addirittura si potenziano in analoghi impegni “religiosi”, a tutto vantaggio di una autoeducazione alla parità effettiva, senz’altra motivazione che il riconoscimento della comune condizione umana. Inoltre il dover riconsiderare il privilegio culturale per lo più vissuto, consapevolmente o meno, come un possesso elitario a fronte dell’esperienza che i vertici del pensiero, ovunque e comunque espressi, sono disponibili a tutti; si tratta perciò di mettersi al servizio della polis “confidando nella potenza conoscitiva che è ognuno”.127 Basta sfogliare le pagine del volume che attesta tale pratica, scorrere i rendiconti delle riunioni settimanali, prima in Facoltà poi in carcere, con i testi o le indicazioni delle letture fatte, le questioni pratiche affrontate, ciò di cui si è discusso con le indicazioni e puntualizzazioni di Bori, a volte i nomi dei partecipanti, per cogliere il potenziale di un sapere condiviso che cresce facendo leva su alcuni vertici del pensiero universale senza mai sospendere la coscienza dell’implicazione personale, rispetto al sapere codificato che seguita a costruirsi seguendo regole accademiche, metodologie precostituite, interessi sociali ed economici.128 Direi perciò che le “letture in carcere” realizzano compiutamente l’idea lungamente maturata di una trasposizione in forma secolarizzata del paradigma teologico legato alla “lettura del libro sacro a opera di una comunità di lettori mossi dallo stesso spirito”,129 ma ora in un contesto socio-culturale che con le sue molte nazionalità, lingue, religioni e confessioni riflette gli immani mutamenti di un tempo carico di incertezza, crisi culturale, insicurezza esistenziale, violenza fisica ed economica, antagonismo religioso, che spinse Bori a procedere oltre l’approccio, inizialmente portato anche in carcere, della “pluralità e unità dei percorsi morali”. La situazione sperimentata richiese che a esso venisse accostato l’approccio della “pluralità e unità spirituale dei percorsi religiosi”, assegnando al “fare silenzio insieme, con diverse motivazioni, e al di là di queste”, la possibilità di una effettiva comunicazione tra confessioni e religioni diverse.130 Questa, mi sembra, sia stata la cifra ultima del complesso, a tratti complicato, percorso intellettuale e operativo di Pier Cesare Bori; in tal modo la pratica del silenzio condiviso ritrovava pienamente la sua radice mistica: una capacità di comunicazione oltre la parola, oltre l’azione, in definitiva oltre la morte.
IV. A voler tentare infine un primo, del tutto approssimato bilancio critico di un impegno umano che ha coniugato capacità d’interrogazione, libertà di movimento e aderenza alla realtà del proprio tempo, mi sembra che alcune questioni vadano rilevate. Questioni con cui soprattutto chi di Pier Cesare è stato amico, chi con lui ha condiviso scelte esistenziali o anche solo attività culturali, chi su di lui si è interrogato, riconoscendosi o opponendosi a certi esiti del suo pensiero, a certe opzioni religiose o pratiche pedagogiche – ha dovuto in qualche misura confrontarsi. Occorre innanzitutto interrogarsi intorno a significato e limiti dell’opzione ermeneutica, proposta da Bori da un punto vista storico con il saggio che già nel titolo, L’interpretazione infinita, suona programmatico; quindi posta al centro della costruzione teorica di Per un consenso etico tra culture, soprattutto a seguito dell’aggiunta nell’edizione del 1995 di una tesi del tutto nuova, intitolata senz’altro Sulla lettura e collocata al primo posto, laddove in precedenza si trovava quella dedicata alla “Storia dell’interpretazione” biblica, spostata al sesto posto con il più esplicito titolo: “Lettura secolare della Bibbia”. Un cambiamento che non modifica la sostanza della concezione, ma rende la sua formulazione più netta; in prima battuta l’attenzione non verte più sul processo storico di secolarizzazione dell’interpretazione della Scrittura, bensì sull’affermazione che il recupero dell’antico modello di lettura, sia filosofico che spirituale, riconosciuto come “sommamente necessario” per il presente, è tuttavia “possibile solo sulla base di un atteggiamento ermeneutico critico, pluralistico e creativo”.131 L’accento è quindi posto decisamente sul rapporto testo-lettore, vale a dire per un verso “sull’oggettiva potenza di un testo cui il lettore si riferisce e si conforma”, sia esso sacro o profano, e per l’altro sulla capacità del lettore d’“imparare a leggere”, ovvero di entrare in un rapporto tale col testo da diventare egli stesso parte integrante dell’universo testuale.132 Tuttavia con l’avvertenza che tale rapporto non discende più dalla “costruzione di nessi allegorici, ma come elaborazione e traduzione a livello essenzialmente etico-razionale, come scoperta cioè della permanente validità di certi modelli, dell’esemplarità di certe figure, della pertinenza di determinate risposte, perché universali sono le domande, e universale è fondamentalmente la costituzione umana”.133 In altri termini, il passaggio dalla lettura spirituale alla lettura secolare della Bibbia è presentato più esplicitamente come parte costitutiva di una attitudine interpretativa che ha investito la modernità e la cui direzione nel senso di una nozione di universalità ispirata a pluralismo e tolleranza va oramai riconosciuta, senza per questo proporsi la costruzione di metalinguaggi finalizzati a unificare surrettiziamente tradizioni culturali e religiose storicamente diverse. In tal modo Bori iscriveva la sua ricerca nella controversa corrente dell’ermeneutica contemporanea, sebbene con dei correttivi intesi principalmente sia a preservare un primato, non di principio ma di fatto, al “paradigma biblico”, in quanto costitutivo del nostro linguaggio e quindi tale da rappresentare per noil’ineliminabile terreno a partire dal quale prendere coscienza “della pluralità delle lingue e delle culture, della loro traducibilità, delle continuità storiche che le collegano e della propria e altrui potenziale universalità”;134 sia a riconoscere piena validità alla storiografia critica, ma richiamata all’esigenza, già acutamente colta dagli studi storico-teologici liberali e modernisti, di pervenire a “una sintesi che colga l’assolutezza di taluni valori non malgrado, ma all’interno dell’incessante e imprevedibile processo storico”.135 Correttivi tuttavia non sufficienti a dissipare il sospetto e forse anche l’irritazione verso una posizione che stentava o rifiutava di riconoscersi senz’altro nell’universo della storiografia d’ambito cattolico, ma neppure in quello di una ricerca storico-religiosa mirante ad un oggettivismo che mette l’interprete fuori gioco, isolandolo in una neutralità sterile.136 Può allora darsi che, almeno all’inizio, la condivisione con la tendenza ermeneutica abbia voluto significare per lui anche una certa legittimazione epistemologica in funzione del contrasto con potenti apparati culturali.137 Preoccupazione che non aveva certo più quando nella Premessa alla seconda edizione di Per un consenso etico scriveva che “il compito più urgente non è quello teorico, né tanto meno metodologico, ma è quello di imparare a leggere simultaneamente, in senso pieno, da soli e con altri, la pluralità delle tradizioni, nella consapevolezza dell’orizzonte biblico”.138 Il fatto è che Bori si è a lungo mosso su un terreno in gran parte ignoto e il riferimento all’ermeneutica fu, a mio avviso, più una segnalazione di direzione che non la definizione di una collocazione culturale. A posteriori si può cogliere il movimento, ora sicuro ora cauto, con cui egli si è inoltrato in quel territorio, piantando sempre nuovi segnali fino a disegnarne una forma leggibile,139 un po’ come un tempo gli aborigeni australiani, nel tracciare i loro territori sacri, utilizzavano “ogni tratto rilevante del paesaggio, un albero, una cava d’acqua, una bassa cresta o un’alta vetta montana”.140 Tale è stata, mi sembra, la funzione assegnata da Bori a una quantità di testi, biblici innanzitutto e poi le fonti patristiche, le opere capitali del pensiero moderno, ma anche le testimonianze di movimenti spirituali considerati marginali, i capolavori della letteratura russa dell’Ottocento, le difficili ricerche dei pensatori del Novecento, e d’altra parte le opere fondamentali delle grandi tradizioni religiose d’Oriente. In un certo senso per lui tutto seguitava a ruotare intorno alle Scritture cristiane, come le tribù Aranda intorno al palo sacro per eccellenza, che “rappresenta, per così dire, i totem collettivamente”,141 ma non perseguendo un movimento verticale, bensì orizzontale, con cui una molteplicità di culture religiose e profane penetrano nel paradigma biblico secolarizzandolo. Osservando a ritroso il percorso fatto, Bori stesso ha riconosciuto che non aveva seguito un disegno esplicito, ma piuttosto “una spinta a cercare in sé e negli altri e con gli altri un’immagine dell’uomo degna e completa, comprensiva e rispettosa dello spirito ma anche della carne, senza fratture tra naturale e cristiano, perché proprio negli aspetti più bassi, naturali, corporei paradossalmente si celavano cose nobili e mirabili, senza fratture tra ceti spirituali e ceti dediti alle cose materiali. Aspirazioni confuse, forse, che avevano il pregio di essere proposte nel rapporto diretto con le fonti, con testi e figure e lingue diversi e lontani, senza tentare sintesi. Questa venne a poco a poco, ponendo al centro la questione etica e del consenso tra culture”.142 Occorre allora ulteriormente chiedersi quali ragioni, innanzitutto esistenziali, sono all’origine di un movimento rischioso che poteva apparire, e forse così è stato per taluni, segnato da intellettualismo o, al contrario, da volontarismo. Penso che dopo il passaggio critico che alla fine degli anni sessanta lo ha visto lasciare il sacerdozio, Bori abbia sentito la necessità di ricomprendere il significato del suo essere cristiano nella condizione secolare, che egli non intendeva certo vivere come esito di un fallimento, bensì come accettazione della condizione comune, dunque semplicemente umana, entro la quale ritrovare il senso stesso della vocazione cristiana. Vent’anni dopo nello schizzare i tratti della figura storica di Gesù, egli ne sottolineava la preoccupazione, che ebbe in comune con i Farisei, di “andare verso il popolo per recuperarlo alla legge”, ma non riproponendo come quelli “una concezione sacrale dell’adempimento legale”, bensì attraverso “uno spostamento dell’attenzione e della responsabilità verso la coscienza, verso il ‘segreto’, il ‘cuore’ dell’uomo: un richiamo intransigente ai contenuti essenziali della legge, che però al tempo stesso si trasformava un una accoglienza di quanti potevano essere esclusi per motivi puramente formali: e questo non mediante le dichiarazioni apodittiche, delle formule di diritto sacro, o con l’autorità della parola rivelata al profeta, ma piuttosto con argomentazioni la cui efficacia viene in sostanza dal loro spiccato carattere ‘moralistico e razionalistico’, anche se avvalorate da gesti carismatici”.143 Era l’approdo oramai maturo a una concezione cristiana in cui la dimensione specificamente dottrinaria, ecclesiastica, sacramentaria passava in secondo piano nell’atto stesso di recuperare i “contenuti etico-dottrinali essenziali” della predicazione itinerante di Gesù, assunto a modello fondante di una nuova capacità interpretativa nutrita da una potenza sapienziale, “una sapienza che grida nelle piazze”, che in lui sarebbe prevalsa sulla potenza carismatica e la percezione escatologica.144 In questa lettura Bori si riconosceva prossimo alla teologia liberale, come si è visto, “salva una nuova attenzione alla collocazione di Gesù nel suo contesto più proprio, quello del giudaismo”, ma la investiva altresì di una comprensione cristologica in chiave sapienziale, che privilegiava esplicitamente la teologia giovannea a scapito della tradizione sinottica, con l’obiettivo di “restituire al cristianesimo la sua dimensione sapienziale, etico-dottrinale, subordinando a questa gli aspetti carismatici, misterici”; condizione ritenuta indispensabile per “istituire un confronto con altre sapienze”.145 Trova dunque conferma il convincimento, anche a costo di tagli rilevanti, che la nozione di sapienza costituisse per lui l’asse portante della Bibbia ebraico-cristiana, al pari delle espressioni più alte sia della tradizione classica a partire da Socrate sia delle culture orientali, a patto che la si intenda, sulla scia di Tolstoj, “come principio di conoscenza non metafisico, legato alla prassi, come sapienza che orienta correttamente il desiderio dell’uomo e mira alla felicità: la quale, nella sua essenza consiste nel non resistere al male, nel perdonare e nell’amare il prossimo”; una sapienza di vita universalmente attestata.146 C’è tuttavia in quest’ultimo passaggio un’esplicita forzatura intesa a rendere l’insegnamento di Gesù funzionale all’universalismo religioso, che sembra contraddire il privilegio di fatto accordato al paradigma biblico, il quale comporterebbe per noi di riconoscere nella cristologia quel fondamento dell’etica che Albert Schweitzer riteneva indispensabile alla sua messa in pratica.147 Se capisco bene, Bori ha inteso compiere un passo ulteriore nella direzione di un distacco senza residui dalla concezione cristiana articolata sulle nozioni di peccato, trascendenza e salvezza, liberando così il terreno per la costruzione di una proposta cristiana compiutamente secolarizzata e perciò in grado di iscriversi in quelle tradizioni antiche e moderne, occidentali e orientali, ivi compreso l’insegnamento di Gesù, che “distinguono tra un conoscere scisso e astratto e una sapienza che cerca di cogliere il nesso tra parti e tutto, tra pensare e agire, e concordano nel considerare quest’ultima l’unica degna di essere perseguita”.148 In tal modo egli perseguiva il duplice obiettivo di una risposta efficace al grave momento attuale, segnato dalla frattura tra etica e politica, e di una ridefinizione in termini etico-sapienziali della figura umana, che esigevano entrambi il superamento dell’istanza teologico-salvifica. Nel primo caso egli prendeva commiato dalla teologia nel convincimento che il tempo attuale richiede oramai di sporgersi oltre l’orizzonte della rivelazione ebraico-cristiana in vista del riconoscimento di una pluralità di scritture, rivelate o meno, sulla cui base operare nel senso di una comune costruzione etica, che avrebbe di necessità comportato una ricomprensione della stessa vocazione cristiana in cui l’idea di salvezza si risolvesse nella disposizione ad uscire da sé, ad adottare linguaggi e comportamenti “non religiosi” e perciò tanto più parlanti alla comune condizione umana.149 Come Tolstoj, Schweitzer, Emerson, Simone Weil, Bonhoeffer, de Certeau, anche Bori ha avvertito l’urgenza di un mutamento radicale del modo di vivere da cristiani in un’epoca di disintegrazione delle culture tradizionali, di atomizzazione degli individui, di crescenti conflitti etnico-religiosi. Ha ritenuto che tale mutamento dovesse misurarsi innanzitutto sulla disponibilità della cultura ebraico-cristiana a superare il particolarismo dell’appartenenza religiosa, e a promuovere su base razionale una cultura del consenso etico intorno ad alcuni convincimenti fondamentali,150 in vista di “una sintesi orientata alla prassi e dalla prassi, una sintesi che partisse dalle tradizioni bibliche e si allargasse congiungendosi con altre tradizioni”.151 Una forma di cristianesimo che nel suo caso si presenta perciò come sintesi vitale e militante di religione, di etica e di politica che non presuppone una fede salvifica, ma piuttosto una fede nell’“umano compiuto” da perseguire, secondo l’indicazione di Pico, “attraverso la riforma di se stessi e la piena espansione della conoscenza, verso l’identità con l’Assoluto”.152 In questo mi sembra si debba cogliere l’originalità, e il limite, dell’acquisizione intellettuale di Bori rispetto ad autori come quelli appena citati, che pure hanno costituito per lui a diverso titolo dei punti di riferimento. Direi che nella definizione, lungamente perseguita, di un proprio disegno in grado di dare senso al movimento dell’esistenza, l’apporto decisivo gli sia venuto, a complemento di quello tolstojano, dalDiscorso di Pico. Di questo testo epocale Bori coglieva, come si è visto,153 innanzitutto “l’universalismo intensivo”, vale a dire la capacità di “parlare della trasformazione spirituale (a partire dalla sua stessa trasformazione) sia nei termini della conversione biblica sia nei termini del Simposio e dell’ascesa verso la bellezza”;154 quindi l’itinerario iniziatico universale in vista del pieno raggiungimento della dignità umana scandito da precisi passaggi, dal momento che essa “nell’universo non è un dato scontato, ma appartiene alla sfera dinamica della possibilità e della libertà, è una vocazione e un compito”.155 Se dunque il riferimento privilegiato a Tolstoj è stato decisivo nel guidare Bori verso una concezione della religione come sapienza etica capace di rispondere alla domanda fondamentale sul senso della vita,156 la sua riflessione sul Discorso lo ha condotto a concepire un modello di vita ispirato all’imago Dei, in cui interpretazione cristologica e interpretazione ontologico-filosofica avrebbero dovuto confluire in una terza prospettiva in grado di tenere insieme i due estremi, quella “dell’omnia in omnibus modo suo, tutto è in tutto a suo modo, secondo Pico della Mirandola”, vale a dire un’antropologia universalistica, filosoficamente rilevante, che non per questo si priva “del dramma e della bellezza della storia della salvezza biblica”; in definitiva un modo mistico di assumere la verità.157 Credo non possa sfuggire il fascino di queste pagine ultime di Bori, rese più significative dalla nota drammatica allorché rileva che una siffatta visione delle cose “presuppone un preliminare lavoro su di sé, un esercizio preliminare sul piano non solo della theoria (sia essa strettamente religiosa oppure no), ma anche dalla prassi (sia essa religiosa in senso stretto, come obbedienza ai comandamenti, sia essa un’etica del dovere) nella direzione di un distacco – l’abbandono dell’io-mio e il ripudio della forza – per spostarsi su un piano spirituale, in senso proprio (secondo l’antico modello ternario di itinerario spirituale presente ancora in Pico). Senza questi preliminari non si tratta di intelligenza spirituale, ma di stato confusionale”.158In altri termini, non si perviene all’umano compiuto senza aver seguito per intero il percorso dall’immagine alla somiglianza. È vero, ma è anche vero che le vite umane sono per definizione interrotte, anche quando sono state lunghe e lungamente impegnate nella ricerca della verità, e che perciò nessun lavoro su di sé, benché indispensabile, garantisce il raggiungimento della “somiglianza”. Simone Weil, da parte sua, avrebbe detto che si tratta di pervenire già in questa vita all’unione dell’anima con Dio, ma pensava che la sua realtà poteva esserle rivelata soltanto da lui stesso, cosicché all’anima era chiesto essenzialmente l’orientamento verso la verità e la pazienza di un’attesa perseverante nella certezza che non sarebbe andata delusa. Resta che l’esistenza individuale è un mistero il cui senso può essere svelato a se stessi soltanto dal “tacito genio di accettazione che tutto abbraccia, che è anche il genio della vera fede”;159 di una siffatta consapevolezza Pier Cesare Bori ha dato prova ripercorrendo da ultimo la vicenda della sua vita, offerta ad altri come attestazione di una ricerca in itinere della propria forma interiore.
Note 1Dall’immagine alla somiglianza. L’umano come progetto nella tradizione cristiana, Marietti 1820, Genova-Milano 2012.2 CV 1937-2012, Il Mulino, Bologna 2012, p. 8. Il DVD in cui Bori ripercorre a voce il suo Curriculum Vitae sfogliando fitti album fotografici è scaricabile dal sito della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII (www.fscire.it/it/piccola-officina/laboratorio/cv/).3 Incipit. Cinquant’anni, cinquanta libri (1953-2003), Marietti, Genova-Milano 2005, p. 11.4 Dall’immagine alla somiglianza, cit., p. 28.5 Per un consenso etico tra culture. Tesi sulla lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane, Marietti, Genova 1991, pp. 9 e 83. Una seconda edizione ampiamente rielaborata e priva del sottotitolo è stata pubblicata nel 1995 dallo stesso editore. Le citazioni da quest’ultima sono accompagnate dalla dicitura “1995”.6 Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano 2000. L’incontro col testo di Pico risale al 1995 (Incipit, cit., pp. 212 sgg.; CV, cit., pp. 142 sg.)7 Si veda Universalismo come pluralità delle vie, saggio del 1998 ripubblicato in P.C. Bori, Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, p. 29.8 Per un consenso etico, cit., p. 7 (1995, p. 23).9 Pluralità delle vie, cit., p. 91. Si veda l’appunto, in cui Bori nel 1995 aveva fissato i temi salienti del Discorso subito dopo una prima lettura, riportato in Incipit, cit., pp. 213 sgg.10 Ibid., p. 40. Il Simposio ha segnato una tappa fondamentale nel pensiero di Bori; in Incipit egli ne ricorda una lettura condotta insieme a un gruppo di amici e di studenti che segnò ciascuno in modo diverso: “Nella vita di chi si affidò veramente alla certezza che ‘eros è il maggior collaboratore della natura umana’ ci furono non pochi sconvolgimenti” (cit. pp. 151 sg.).11 Ibid., pp. 40 sgg..12 Ibid., p. 53.13 Ibid., pp. 62 sg.14 Ibid., p. 68.15 Ibid., pp. 71 sg.16 P.C. Bori, Immagini di Dio, immagini dell’umano. Letture di Gen. 1,26-28 tra Pico e Locke, in “Annali di storia dell’esegesi” 24/1 (2008) p. 183.17 Dall’immagine alla somiglianza, cit., p. 181.18 Ibid., p. 180.19 Si veda P.C. Bori, Lettera sui monoteismi, in “Lo straniero” 85 (2007) p. 38. Una versione francese è presente in “Annali di storia dell’esegesi” 25/1 (2008) pp. 9-17; l’intero fascicolo è dedicato alla discussione di questo testo scritto come prefazione all’edizione araba di Per un percorso etico fra culture, Beirut 2007.20 Si veda in particolare La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monoteismo, Adelphi, Milano 2011.21 P.C. Bori, Quattro tesi sui monoteismi, in Universalismo come pluralità delle vie, cit., p. 48.22 Ibid., p. 53.23 Ibid., pp. 53 sgg.24 Una siffatta pluralità è riconosciuta anche da J. Assmann: «La Bibbia ebraica è un testo a più voci. Per ogni voce esiste praticamente una controvoce» (La distinzione mosaica, cit., p. 51).25 Quattro tesi sui monoteismi, cit., pp. 57 sg.26 Lettera sui monoteismi, cit., p. 39.27 Pluralità delle vie, cit., p. 91.28 Per un consenso etico, cit., p. 29 (1995, p. 26). I titoli degli interventi dedicati da Bori a S. Weil nei primi anni novanta sono indicativi di ciò che del suo pensiero lo aveva soprattutto interessato: Simone Weil e la Bibbia ebraica, in Politeia e sapienza. In questione con Simone Weil, a cura di A. Marchetti, Patron, Bologna 1993, pp. 33-46; “Ogni religione è l’unica vera”: L’universalismo religioso di Simone Weil, in «Filosofia e Teologia» 8 (1994) 393-403.29 L’accostamento delle due personalità è di Bori stesso (Dall’immagine alla somiglianza, cit., p. 30).30 Pluralità delle vie, cit., pp. 90 sg.31 Lettera sui monoteismi, cit., pp. 38 sg.32 Ibid., p. 39.33 Dall’immagine alla somiglianza, cit., p. 31. Si veda anche P.C Bori, Ad imaginem Dei. Proposals, Conjectures, in In the Image of God. Foundations and Objections within the Discouse in Human Dignity in Hounor of Pier Cesare Bori, a cura di A. Melloni e R. Saccenti, LIT, Berlin 2010, pp. 41 sg.34 Lo riconosceva lui stesso nella Premessa a Per un consenso etico tra culture: in quanto storico, il suo interesse e impegno primario andava «a una lettura simultanea e a una traduzione, plenariamente intesa, di una pluralità di tradizioni, all’interno e fuori dell’orizzonte biblico» (cit., p. 9); si veda la diversa formulazione nell’edizione del 1995, p. 7.35 Un primo tentativo di identificare i nuclei tematici della ricerca di Bori e di seguire per intero il tracciato dei suoi studi è stato offerto da F. Borghesi, «Al posto della morte c’era la luce»: l’etica della lettura di Pier Cesare Bori, in In the Image of Got, cit., pp. 9-24.36 Sulla genesi laboriosa e contrastata di questo testo si veda CV, cit., pp. 123 sgg., dove si può leggere il primo abbozzo delle tesi. L’impianto dell’opera è stato notevolmente modificato in vista della seconda e definitiva edizione Le tesi sono diventate otto da cinque, si presentano in una diversa sequenza e hanno subito alcuni ampliamenti di rilievo (si veda qui di seguito p. 21).37 Koinonia. L’idea della comunione nell’ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972, p. 10.38 Chiesa primitiva. L’immagine della comunità delle origini – Atti 2,24-47; 4,32-37 – nella storia della chiesa antica, Paideia, Brescia 1974. Di questo lavoro Bori rileverà in definitiva “la novità di metodo e soprattutto un approccio di storia dell’esegesi biblica che era nuovo e si doveva dimostrare fecondo” (CV, cit., p. 95).39 Così Bori scriveva nella Premessa al suo ultimo lavoro rilevando la distanza dall’amato de Lubac (Dall’immagine alla somiglianza, cit., p. 10).40 Il vitello d’oro. Le radici della controversia antigiudaica, Boringhieri, Torino 1983; L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1987; L’estasi del profeta ed altri saggi tra ebraismo e cristianesimo, Il Mulino, Bologna 1989.41 Il riferimento è in particolare a Paolo e al Vangelo di Giovanni, impegnati in «operazioni essenziali a una esperienza religiosa in cui il centro si spostava dall’“essere in Israele” all’“essere in Cristo, mediante lo spirito”» (Una scoperta dell’ebraismo, inL’estasi del profeta, cit. p. 164 sg.).42 Il vitello d’oro, cit. pp. 78 sg.43 Ibid., pp. 79 sgg.44 Per un consenso etico, cit., pp. 17 e 18 (1995, p. 85).45 Ibid., p. 18, nota 9 (1995, p. 85; in questa edizione la tesi è collocata al sesto posto).46 “Divina eloquia cum legente crescunt”; il brano di Gregorio è citato in L’interpretazione infinità, cit., p. 44 sgg. sulla genesi di questo studio si veda CV, cit., pp. 118 sg.47 A partire dal XIII secolo, scrive Bori, «all’istanza mistica viene sostituita quella teoretica e spesso controversistica che intende assumere come base il “senso letterale”, come “senso inteso dall’autore” producendo spesso «l’effetto di un ulteriore scollamento dalle esigenze vitali» (Per un consenso etico, cit., p. 14; 1995, p. 82).48 L’interpretazione infinità, cit., p. 56.49 Tra le due formule rinvenibili nella riflessione ermeneutica di Origene, de Lubac dà senz’altro la preferenza a quella che propone i «sensi» della Scrittura nella sequenza storico, allegorico, morale, escatologico, piuttosto che a quella che posponeva l’interpretazione allegorica a quella morale (ibid., p. 54 sg.)50 Ibid., p. 56.51 Ibid., p. 69.52 Si veda ibid., Capitolo settimo.53 Ibid., pp.125 sgg.54 Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra XVI e XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, p. 47.55 La fable mystique. XVIe-XVIIe siècle, II, Gallimard, Paris 2013, p. 288 sg.56 “Esiste una relazione necessaria tra lo statuto del vero nella scienza (…) e il carattere impensabile di ciò che non gli è conforme” (La frattura instauratrice, in Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Città aperta, Troina 2006, p. 189).57 Per un consenso etico, cit., p. 16 (1995, p. 84).58 Ibid., pp. 16 e 19(1995, pp. 84 e 86).59 Ibid., p. 17 (1995, p. 85).60 L’interpretazione infinità, cit., p. 138.61 Ibid., pp. 139 e 140.62 Ibid., pp. 141. Il riferimento è a Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Einaudi, Torino 1976, p. 62, in cui Benjamin riconosce ai romantici l’idea dell’infinito potenziamento della coscienza nella critica: “La critica è il medium in cui la limitatezza della singola opera si rapporta metodicamente all’infinità dell’arte”.63 Ibid., p. 154.64 La Madonna Sistina di Raffaello nella cultura russa, in La Madonna di San Sisto. Studi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 11-51; in particolare p. 19. Il saggio, pubblicato originariamente in “Intersezioni”, è del 1985. Tra gli ultimi a contemplare il capolavoro di Raffaello a Mosca poco prima della restituzione del quadro alla galleria di Dresda nel 1955, ci fu Vasilij Grossman che ne fu sconvolto per aver sentito riaffiorare il ricordo di Treblinka; lo splendido racconto fu pubblicato in russo soltanto nel 1989, troppo tardi per essere preso in considerazione da Bori (si veda La Madonna sistina in V. Grossman, Il Bene sia con voi!, Adelphi, Milano 2011, pp. 42-51).65 L’interpretazione infinita, cit., p. 160.66 L’invenzione del quotidiano, Edizioni del lavoro, Roma 2001, p. 38.67 I riferimenti sono a A. von Harnack, A. Schweitzer, E. Troeltsch, A. Loisy. Si veda l’Introduzione di Bori a L’essenza del cristianesimo di Harnack, Queriniana, Brescia 1980, pp. 36-62, riproposta in L’estasi del profeta, cit., pp. 91-116.68 Per un consenso etico, cit., p. 23 (cfr. 1995, p. 46).69 Per un consenso etico, cit., pp. 14 sg. (1995, p. 82).70 Ibid., p. 83 (1995, p. 101)71 Significativo è il riferimento alla riflessione di Emerson sul rapporto tra libro rivelato e libro della natura (si veda la Postfazione a R.W. Emerson, Teologia e natura, Marietti, Genova 1991, pp. 185-208 e la scheda a lui dedicata in Incipit, cit., pp. 169-173).72 Per un consenso etico, cit., pp. 30 sg. (1995, pp. 28 sgg).73 Si veda Incipit, cit., pp. 107-135.74 L’occasione fu la richiesta di collaborare alla traduzione de L’uomo Mosè e la religione monoteistica, edito da Boringhieri nel 1977 con una «Avvertenza storica» dello stesso Bori; ma l’ulteriore studio per il quale Bori aveva ricevuto l’appoggio di Anna Freud e lo aveva condotto a lavorare ai manoscritti seduto alla scrivania che era stata di Freud a Londra, risultò presto incompatibile con la terapia analitica nel frattempo intrapresa (Incipit, cit. pp. 108-111; CV, cit. pp. 103 sg.). Restano peraltro tre importanti saggi dedicati a quest’opera e alla fonti storico-religiose di Freud, scritti tra il 1976 e il 1979 e riediti in L’estasi del profeta, cit. pp. 177-258.75 Una scoperta dell’ebraismo è il titolo del saggio con cui Bori tira le somme di una lunga, appassionata riflessione intorno alla questione ebraica; apparso nel 1988 sulla rivista “Il Mulino”, è uno dei saggi più significativi tra quelli compresi in L’estasi del profeta, cit., pp. 161-176.76 Ibid., pp. 166 sg.77 Ibid., pp. 168 sgg.78 Il “Mosè” di Freud: per una prima valutazione storico-critica, in L’estasi del profeta, cit., pp. 219 sg. In questo senso la nascita stessa della psicoanalisi potrebbe essere riconsiderata come «secolarizzazione di antiche visioni del mondo» (Per un consenso etico, cit., pp. 32), tema sviluppato nel saggio dedicato al rapporto tra Freud e il pastore Pfister (Oskar Pfister, «Pfarrer im Zürich» e analista laico, in “Psicoterapia e Scienze umane” 3 (1990) pp. 3-36).79 Una scoperta dell’ebraismo, cit., p. 176.80 A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1980, p. 69.81 Il “Mosè” di Freud, cit., p. 216.82 P.C. Bori, Sviluppi e dibattiti intorno a «L’essenza del cristianesimo» di A. von Harnack, in L’estasi del profeta, cit., pp. 110 sg.83 Lettera di Freud a A. Zweig, citata in ibid., p. 240.84 L’altro Tolstoj, Il Mulino, Bologna 1995; Movimenti religiosi in Russia prima della rivoluzione (1900-1917), Queriniana, Brescia 1978.85 Tolstoj, oltre la letteratura (1875-1910) s’intitola l’ampio saggio costruito sulla base di una selezione di passi tratti dall’enorme produzione non letteraria di Tolstoj e posto ad introduzione di una raccolta di testi tolstojani attinenti al tema della pace a cura di A. Cavazza (Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1991).86 Tolstoj., p. 6.87 L’altro Tolstoj, cit., p. 7. Un eccellente contributo in questo senso, Bori lo ha dato con il saggio introduttivo alla riedizione diGuerra e pace (Einaudi, Torino 1998, pp. XI-LVIII, in particolare il capitolo dedicato alla storia dell’interpretazione del romanzo). Si veda inoltre l’introduzione ad Anna Karenina (La Biblioteca di Repubblica, Roma 2004, pp. VII-XVI).88 Si veda al riguardo la riflessione di Bori a proposito del divieto di giudicare illustrato da Tolstoj in Resurrezione (Io sono io, in Universalismo, cit. pp. 200 sgg.)89 Senza una siffatta comprensione, insiste Bori, «il lavoro esegetico e la critica antidogmatica di Tolstoj parrà, come è parso a Citati, il prodotto di “un mediocre ragionatore, di un noioso sofista e polemista, di un cattivo autore di parole d’ordine per folle”», indegno dunque del grande scrittore (Tolstoj, cit., p. 97).90 Oltre ai titoli citati qui sopra, vanno menzionati il volume, scritto insieme a Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino, Bologna 1985; i saggi dedicati a S. Bulgakov, G. Florovskij, V. Solov’ëv e S. Averincev, oltre che a Tolstoj, raccolti nel volume La Madonna di san Sisto di Raffaello, cit.; le introduzioni a I quattro libri di lettura, Einaudi, Torino 1994 e aConfessioni, a cura di M.B. Luporini e P.C. Bori, Marietti 1820, Genova 1996 e ancora introduzione e traduzione di Pensieri per ogni giorno, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1995. Sulla biblioteca di Jasnaja Poljana si veda L’altro Tolstoj, cit., pp. 119 sgg.91 L’altro Tolstoj, cit., p. 14.92 Lettera a N. Strachov, citata in ibid., pp. 21 sg.93 L’altro Tolstoj, cit., pp. 24 e 37.94 Ibid., p. 37.95 «Quando dico “la volontà di Dio” esprimo quel che capisco, cioè che io non sono tutto il mondo, ma dipendo da qualcuno, e che inoltre esiste una legge secondo la quale devo vivere» (da una lettera a Čertkov citata in Tolstoj, cit., p. 21).96 Le tre opere furono scritte tra la fine del 1879 e la metà del 1881.97 Si veda la “Premessa” all’Unificazione, ampiamente tradotta e commentata da Bori in L’altro Tolstoj, cit., pp. 48-67, in particolare p. 52. Il terzo capitolo di questa opera illustra inoltre l’esegesi tolstojana applicata al Prologo del Vangelo di Giovanni, all’episodio della Samaritana e al Discorso della montagna.98 “Premessa” all’Unificazione, in L’altro Tolstoj, cit., p. 56.99 Ibid., p. 32.100 In definitiva Tolstoj connette fede e rivelazione alla razionalità, ma la sua razionalità significa saggezza di vita (ibid., p. 54).101 Bori dà conto di ben quattro raccolte di pensieri organizzate secondo criteri ora temporali ora tematici, pubblicate tra il 1903 e il 1910 (L’altro Tolstoj, cit., pp. 116 sg.).102 L. Tolstoj, La mia fede, citato in L’altro Tolstoj, cit., p. 116. Convincimento che guida la sua interpretazione del Prologo giovanneo, in particolare di 1,9, che egli traduce: “Questa [il logos sapienza di vita] divenne la vera luce, che illumina ogni uomo che viene al mondo», invece della versione tradizionale che intende la venuta nel mondo del logos-luce; interpretazione condivisa da Bori, che vi riconosce la possibilità per tutti di «diventare figli di Dio (non diversamente da Gesù), se disponibili a una seconda nascita, un secondo venire alla luce, non secondo la carne ma secondo lo spirito” (L’altro Tolstoj, cit., p. 81 sg.).103 Incipit, cit., p. 183.104 Per un concorso etico, cit., p. 60 (cfr. 1995, p. 16). A Tolstoj è riconosciuto lo sforzo maggiore fatto nell’enucleare e documentare la nozione di sapienza, con particolare riferimento alla sua interpretazione del logos giovanneo (ivi, p. 58).105 Questa tesi, dedicata a “La sapienza”, ha la stessa collocazione nelle due edizioni, ma gli svolgimenti sono in buona parte diversi. Un lavoro filologico sulle due edizioni potrebbe rivelarsi fruttuoso.106 Ibid., pp. 42 sg. (cfr, 1995, pp. 35 sgg.)107 Così suona l’ultima delle tesi, dedicata all’etica in ambedue le versioni di Per un consenso etico tra culture, cit., p. 83 (1995, p. 101).108 Ibid., p. 83.109 Le citazioni da Resistenza e resa di D. Bonhoeffer dicono chiaramente cosa, anche per Bori, si sarebbe dovuto trarre da quella cultura per il tempo presente: “Un linguaggio, forse completamente non religioso, ma capace di liberare e redimere, come il linguaggio di Gesù, tanto che gli uomini ne saranno spaventati e tuttavia vinti dalla sua potenza, il linguaggio di una nuova giustizia e di una nuova verità, il linguaggio che annuncia la pace di Dio con gli uomini e la vicinanza del Regno” (ibid., p. 85; 1995, pp. 102 sg.).110 Ibid., p. 84 (cfr. 1995, p. 102).111 Si vedano le note sugli anni 1965-1970 in CV, cit. pp. 67-87, in particolare, p. 70.
112 Si
veda sopra, p. (7-8).
|
|