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La sapienza alchemica fra
immaginario e filosofia (Michela Pereira)
Introduzione (Mauro Mugnai)
Parleremo
di Alchimia, argomento quanto mai oscuro alla maggior parte di noi, argomento
fantasioso che è entrato nel luogo comune come per esprimere un concetto astruso
fondato su niente, frutto di menti bizzarre e non scientifiche. Ebbene uno dei
motivi per cui siamo qui è proprio per cercare di sfatare questo luogo comune e,
soprattutto, cercare di creare interesse o almeno curiosità per un argomento che
sta ritrovando nuove interpretazioni, che ha influenzato e influenza la
Psicologia, l'Arte, la Letteratura, la Religione e da pochi anni,
sorprendentemente, perfino il mondo scientifico e in particolare la Fisica
Ufficiale che ha elaborato addirittura un nuovo approccio metodologico. L'idea
dei "Frattali", come espressione dinamica e geometrica del Caos, della
"Meccanica Quantistica" e della "Relatività", fanno parte di questo nuovo
metodo. I frattali espressione grafica della congiunzione del mondo matematico e
il mondo puramente estetico della natura, possiedono una caratteristica, quella
di essere dotati di "ricorsività infinita". Ciò significa che la loro struttura
geometrica si ripete continuamente in natura, con qualsiasi scala di
ingrandimento li si voglia vedere, sempre uguale e tuttavia sempre diversa a se
stessa. La fisica quantica abolisce la distinzione fra energia e materia,
dimostra come in realtà l''osservatore' sia un partecipante all'esperimento
atomico, che può esercitare degli effetti sulle particelle stesse. Fritjof Capra
nel suo libro "Il Tao della Fisica" ad un certo punto dice: "La teoria dei
quanti rivela un'unicità di base dell'universo. Mostra che non possiamo
scomporre il mondo in unità piccolissime dall'esistenza autonoma. Via via che si
penetra nella Materia, la natura non ci mostra nessun 'fondamento di edificio'
isolato, ma appare piuttosto come una rete complicata di relazioni fra le varie
parti del tutto. Il ruolo che l'osservatore riveste in queste relazioni è sempre
e necessariamente essenziale. L'osservatore umano costituisce sempre l'anello
finale della catena dei processi di osservazione, e le proprietà di qualunque
oggetto costituito da atomi possono essere comprese solo in termini di
'interazioni dell'oggetto con l'osservatore'. Questo significa che l'idea
classica di descrizione obiettiva della natura non è più valida [...]. Nella
fisica atomica, non si può mai parlare della natura, senza parlare, allo stesso
tempo, di noi stessi."
Non solo la fisica atomica porta avanti le idee di coscienza e di unità. La
teoria del 'Caos' apre la possibilità che una piccola azione possa determinare
effetti che si ripercuotono sull'universo intero, definito sinteticamente come
'effetto farfalla'.
I vecchi e rigidi confini fra mente e materia possono essere superati, perché
nulla si crea né si distrugge, ma si trasforma. Queste nuove premesse
scientifiche sono molto vicine a quelle su cui si basa l'Alchimia; per questo
pare possibile che essa possa ancora fornire nuove intuizioni scientifiche.
Da un punto di vista etimologico la parola Alchimia, secondo l'opinione più
diffusa, deriverebbe dall'arabo "Al-Kimiya". Con tale termine gli arabi
intendevano "l'arte di fabbricare l'oro e l'argento partendo da metalli diversi
o vili."
Nei testi che ho consultato, anche autorevoli, non c'è chiarezza sull'origine
del suo significato. Tutti insistono sull'origine araba dell'articolo
determinativo al, tradotto 'il', mentre molto meno chiara appare la
seconda parte della parola, Kimiya, di origine incerta, ma che comunque
non appartiene alla lingua araba, forse all'egiziano o al greco. All'egiziano
perché sarebbe da ricondursi al termine "Chem" che significa "nero" con
riferimento alla terra d'Egitto resa nera dal Limo alluvionale del Nilo (mi
sembra peraltro importante e non casuale l'accostamento tra l'arte della
trasmutazione e l'aspetto fertile della terra e quello fecondante del Nilo).
Altri invece ritengono che la derivazione più probabile sia dalla parola greca "Chyma"
con significato di "mescolare" collegata al processo di fusione del metallo.
Vorrei però proporre un'altra interpretazione, un'interpretazione "alternativa"
e un po' esoterica, nata da un'intuizione di René Guénon, che mi pare molto
stimolante e degna di essere ricordata. Tale parola, sembra solo apparentemente
di origine araba, ma meglio sarebbe dire che gli arabi hanno mantenuto il
termine che invece trae origine dalla radice greca che significava "mescolare".
Questa a sua volta sarebbe la traduzione greca di un termine egizio, Kemet,
che connota l'Egitto come 'terra nera', in opposizione alla 'terra rossa' del
deserto. Erodoto definisce l'Egitto 'dal terreno nero'. Si deve ricordare,
infatti, che "l'Egitto, - scrive Plutarco - che ha la terra così nera,
viene chiamato con lo stesso nome della parte nera dell'occhio, Chémia, e viene
paragonato al cuore: perché è caldo, umido e si insinua tutto a meridione, ossia
nel territorio di sinistra del mondo abitato, come il cuore sta nel lato
sinistro dell'uomo, poiché per gli Egizi l'Oriente rappresenta il volto
del mondo, il Settentrione il lato destro e il meridione quello sinistro".
D'altronde, secondo lo stesso Plutarco, il cuore mentre rappresentava l'Egitto,
al tempo stesso rappresentava il Cielo: "Gli Egizi - egli dice -
raffigurano il Cielo, che non può invecchiare perché è eterno, con un cuore
posto su un braciere la cui fiamma ne alimenta l'ardore". "Cosicché - scrive
René Guenon - il cuore (Chémia) è, ad un tempo, il geroglifico
dell'Egitto e quello del Cielo". "In Egitto si sostiene - scrive ancora
Plutarco - che Osiride è il Nilo che si congiunge con la Terra, simboleggiata
da Iside, fecondandola. [...] I sacerdoti più sapienti non solo chiamano
il Nilo Osiride [...], ma sono anche convinti che Osiride rappresenti
senz'altro il principio e la natura dell'elemento umido in sé, origine della
vita e sostanza fecondante. [...] Il mito vuole che Osiride avesse la
pelle nera, perché l'acqua scurisce ogni cosa in cui viene assorbita, terra,
vesti, nuvole". Egitto, dunque, come originale luogo di incontro tra Cielo e
Terra, luogo del sacro rapporto tra la terra Iside e il dio Nilo Osiride, dove
si può soltanto intuire che esso rappresenta il "sito recettoriale" della
divina, nera, forza fecondante e trasformante la Terra. È facile vedere, da
questo, l'omologia Cielo-Terra (ciò che è in basso così come ciò che è in alto)
e considerato che l'Alchimia vuole ristabilire questo contatto, mi sembra
evidente, salvo qualche ragionevole dubbio, il suo originale significato.
Comunque sia, l'Alchimia è l'Arte della Trasmutazione. L'Alchimista, con il suo
lavoro, cerca di produrre nel materiale su cui sta operando, cioè la Materia
Prima, una serie successiva di mutamenti per condurlo da uno stato grezzo a uno
stato perfetto e incorruttibile. Uno stato che può essere espresso, in una forma
semplice ed esemplificativa, come la trasmutazione del metallo vile in oro.
L'oro perché è il più perfetto dei metalli: è incorruttibile, non si ossida, né
è distrutto o alterato dal fuoco, che può soltanto raffinarlo e purificarlo.
Ma io non voglio entrare troppo nei dettagli più intimi dell'Alchimia, mi
limiterò a fare un'introduzione storico-culturale.
Innanzitutto vorrei premettere che non è assolutamente facile né, forse,
possibile, dare una definizione dell'Alchimia completa e non obbiettivabile.
Questa costituisce una tradizione sapienziale particolarmente difficile da
comprendere, sia perché si esprime principalmente con simboli mitologici che non
consentono mai una definizione precisa e univoca. Sia per la difficoltà di
constatare in modo oggettivo il frutto presunto delle straordinarie
trasformazioni alchemiche. Sia perché la storia dell'Alchimia investe un raggio
molto ampio, sia dal punto di vista spaziale che temporale essendo praticata
nella società orientale, araba e occidentale, da più di duemila anni. L'Alchimia
inoltre ha attratto una grande quantità di persone, animate dagli intenti più
disparati. Alcuni erano interessati dall'aspetto più scientifico o intimamente
chimico, altri erano attratti invece dall'aspetto simbolico o filosofico.
Per altri ancora si poteva aprire la possibilità di produrre farmaci realmente
efficaci o una ricchezza enorme. È per questo motivo che l'Alchimia non può
avere una trattazione univoca. Essa, anche se la sua struttura costitutiva
principale non si è modificata, ha subito nel corso dei secoli varie
modificazioni interpretative a seconda della cultura e delle motivazioni di chi
l'ha praticata. Ogni alchimista ha voluto dare del proprio, ha aggiunto immagini
non sempre coincidenti tra loro, e a volte ha detto e scritto tutto e il
contrario di tutto, sempre combattuto dalla necessità di tenere nascosti ai "non
iniziati" i segreti della "Grande Opera". Tutto ciò costituisce un aspetto
particolarissimo e importante dell'Alchimia, che io trovo basilare, perché come
gli alchimisti anche gli studiosi di Alchimia descrivono e definiscono la
Tradizione Alchemica in base alle proprie inclinazioni e alle proprie tendenze
culturali, ed è inevitabile che ciò avvenga, perché non esiste
un'interpretazione "obbiettiva" dell'Alchimia. È indispensabile,
nell'avvicinarsi ad essa, tener conto, contemporaneamente delle tre dimensioni
di cui è composta: la dimensione scientifica, la dimensione psicologica e quella
spirituale. L'Alchimia, infatti, per molti e forse anche per alcuni alchimisti,
è soltanto l'Arte di fare l'oro o tuttalpiù un tentativo iniziale di una chimica
irrazionale e magica. Ma se l'Alchimia non fosse altro che questo, in accordo
con le parole di Mircea Eliade, non potremmo darle credito e, soprattutto,
sottovaluteremmo l'intelligenza di chi per millenni ha vissuto per essa. Se
l'oro fosse stato l'unico fine perseguito dagli Alchimisti non sarebbe possibile
comprendere la loro pretesa saggezza. Sebbene, comunque, non sia possibile
sapere con certezza quali siano le cause storiche che hanno determinato la
nascita delle pratiche alchemiche, è certo però che l'Alchimia non si è
costituita, come disciplina autonoma, partendo dall'intenzione di fabbricare
l'oro. È noto infatti che, fin dal XIV secolo a. C., i popoli mesopotamici
conoscevano le tecniche metallurgiche per raffinare l'oro. Pensare di collegare
a questo una disciplina che ha ossessionato il mondo occidentale per duemila
anni significa non solo dimenticare la straordinaria conoscenza che gli antichi
avevano dei metalli, ma anche non riconoscere la serietà delle loro capacità
intellettuali e spirituali. Il pensiero scientifico greco possedeva, come tutti
noi sappiamo, una straordinaria capacità di sintesi e di analisi razionale,
mentre ciò che colpisce di più nei testi alchemici è proprio l'assenza di
spirito scientifico.
Se
dunque l'Alchimia non nasceva solo dal desiderio di produrre l'oro, né soltanto
dalla ricerca scientifica, dove dobbiamo cercare le origini e le autentiche
motivazioni di questa disciplina particolare? Essa, secondo un'interpretazione
tra le più affascinanti proposta dallo storico delle religioni Mircea Eliade,
sembra costituire il risultato dell'incontro di una corrente esoterica
rappresentata dai Misteri, come il Neopitagorismo e il Neoorfismo,
dall'Astrologia e dallo Gnosticismo, con le tradizioni delle tecniche
metallurgiche più antiche dei Fabbri, legati magicamente al Cielo e alla Terra
da conoscenze rivelate , e custodi dei segreti dei mestieri come è avvenuto
anche in Cina con il Taoismo e in India con il Tantrismo. È, presumibilmente,
nell'antica concezione della Terra Madre portatrice dei minerali 'embrioni' e
soprattutto con il lavoro dell'uomo impegnato a estrarre i metalli dalla
miniera, alla fusione e alla forgia che si deve cercare una delle fonti
principali dell'Alchimia, perché l'uomo arcaico modificando con il fuoco la
materia si sostituiva in qualche modo alla Madre Terra o, comunque, ne
continuava l'Opera.
La scoperta dei metalli ha contribuito a determinare un rapporto magico
tra l'uomo e la matrice della terra nella quale sono germogliati i
minerali. Ha influito considerevolmente sulla condizione dell'uomo arcaico,
determinando una modificazione profonda del concetto che l'uomo aveva di sé nel
Cosmo. Ha costituito uno dei più forti fattori di spinta dell'evoluzione
mentale, psichica e intellettiva, e della civiltà umana. Il metallo meteorico
caduto dal Cielo poi determinava un contatto altrettanto magico tra l'uomo e il
Cosmo rendendolo partecipe di una realtà eterna, permettendogli di compiere
magici tentativi di unificazione di quel Cosmo che la creazione aveva diviso.
L'uomo ha cominciato lentamente a prendere coscienza della disgregazione del
Reale determinata dalla Creazione e da questo momento, anche con metodi diversi,
mentali e religiosi come l'alchimia, tenderà sempre nella sua storia a ritrovare
quell'unione originale del Reale, quel momento di inizio adamitico che
condizionerà ogni simbolo, ogni mito, ogni cultura, sia in oriente che in
occidente. Si elaborarono delle tecniche metallurgiche che al tempo stesso
costituivano dei Riti, dei Misteri in quanto implicavano la sacralità del Cosmo
e si trasmettevano attraverso Iniziazioni. L'iniziazione ai Misteri consisteva
nel partecipare alla passione, alla morte e alla resurrezione di un dio, che il
neofita sperimentava direttamente in modo simbolico. La finalità dei Misteri era
la trasmutazione dell'uomo. Attraverso l'esperienza della morte e della
resurrezione iniziatiche, l'uomo come il dio diveniva immortale.
I simboli grafici architettonici
cominciarono ad esprimere una peculiare concezione della realtà rappresentata
dalla omologia totale tra il Cielo e il Mondo. Questo implicava non solo
che quanto esiste sulla terra esiste anche in Cielo, ma che a ogni
cosa presente in terra ne corrisponde una identica in Cielo sul cui modello
ideale è stata realizzata. E questo concetto ha seguito nei secoli un filo
comune che ha tenuto unita l'evoluzione mentale dell'uomo da Platone alla scuola
alessandrina con Ermete Trismegisto e la Tavola di Smeraldo, al Vangelo di
Giovanni, a Dante, a M. Ficino e alla filosofia neoplatonica, a Giordano Bruno,
alla tradizione indiana e cinese fino ai nostri giorni. I fiumi, le montagne, le
città, i templi, che non sono altro che l'immagine stessa del Cosmo, esistono
realmente a vari livelli Celesti. Una Gerusalemme Celeste è stata creata da
Dio prima che la città di Gerusalemme fosse costruita dall'uomo, è scritto
nell'Apocalisse del profeta Baruc. Tutto ciò che è conosciuto, tutto ciò che è
reale segue questa legge magica delle corrispondenze. Il cosmo è diviso in
regioni governate dagli Dei, regolate dai pianeti. Tutto ciò che succede in una
zona celeste succederà anche sulla terra e sull'uomo che si trova sotto la sua
influenza. Un certo metallo corrisponde a un certo pianeta. Anche gli oggetti,
in quanto creati dall'uomo, possiedono un significato magico. I fatti e i gesti
dell'uomo, poiché si ricollegano a oggetti considerati magici, saranno regolati
da leggi sacre. Gli atti sono trasformati in riti.
Poiché tutto ciò che esiste sulla terra esiste anche in Cielo, era inevitabile
una corrispondenza tra il corpo umano e il Cosmo, una corrispondenza
microcosmo-macrocosmo.
La cultura greca fu influenzata profondamente da queste magiche corrispondenze
mesopotamiche tra uomo, pianeti, dei e metalli.
Anche l'origine storica non è possibile fissarla con precisione. Essa fa la sua
comparsa nel mondo occidentale intorno al I - II secolo d. C., ma esistono
testimonianze, sempre secondo alcuni storici e in particolare Eliade, di
tecniche alchemiche o pre-alchemiche legate comunque alla fusione mistica dei
metalli almeno mille anni prima. Diventa quindi cruciale per gli storici capire
e scoprire quando ci fu tale separazione, quando cioè l'Alchimia diventò una
disciplina autonoma dalla semplice (si fa per dire) lavorazione e fusione dei
metalli.
Comunque sia, attualmente, la maggior parte degli studiosi ritiene improbabile
un'origine unica dell'Alchimia, anche se ci sono sostenitori dell'origine
Egizia, Cinese, o Ellenistica. Nonostante che i primi documenti alchemici
risalgano, come si è detto, intorno al I secolo della nostra Era è da presumere
che si sia sviluppata, prima di rendersi manifesta, anche e soprattutto,
attraverso la tradizione orale con un lento processo di affinamento e fusione di
teorie nate in tempi e in luoghi differenti, con il concorso scambievole delle
culture occidentali, o comunque Ellenistico-Alessandrina, e orientali.
Secondo la tradizione antica, infatti, le tecniche alchemiche furono rivelate
agli uomini da un dio o comunque da un personaggio semidivino come Ermete
Trismegisto o nella tradizione mitologica greca che, forse derivata e
trasformata da quella indiana o cinese, attribuiva alla dea Cibele la
rivelazione agli uomini dei "Misteri" della metallurgia. ( il cui rito, secondo
Mircea Eliade, servirà, con il "Mistero" della morte e della resurrezione di
Attis, da modello all'alchimista per operare anche sulla materia e determinare
la sua redenzione).
Una versione particolarmente
significativa di questa tradizione ci è tramandata da uno dei primi alchimisti a
noi noti, Zosimo di Panopolis, vissuto in Egitto nel II secolo d. C. che
attribuisce alla dea Iside la rivelazione agli uomini dei misteri dell'Alchimia
che le erano stati a sua volta svelati da un Angelo corrotto che si era
invaghito di lei. Un testo simile è possibile ritrovarlo anche nel libro di
Enoch, un apocrifo dell'Antico Testamento scritto nel II secolo a. C.
Più tardi, mentre in Oriente e particolarmente in Cina si continuò senza
interruzione a praticare le tecniche alchemiche come ritroviamo nel Taoismo, in
Occidente, con la decadenza dei Misteri dell'antichità, intorno al V-VI secolo
la Tradizione Alchemica Occidentale cadde in declino, rimase però e continuò
solo nel mondo arabo a cui dobbiamo la conservazione e la traduzione dei testi
antichi, soprattutto ellenistici che presumibilmente sarebbero andati
irrimediabilmente perduti per sempre. Gli Arabi svilupparono l'Alchimia e
riuscirono a influenzare l'occidente europeo del XII secolo (tracce di questo
fenomeno le ritroviamo nelle cattedrali gotiche), destando nuovamente
l'interesse per l'antica tradizione. Ma essi fecero molto di più. Svilupparono
la tendenza più razionale che avrebbe portato alle scoperte chimiche vere e
proprie. L'Islam rappresentò il custode e il punto di incontro delle diverse
correnti alchemiche orientali e occidentali antiche. Quindi l'Alchimia
medievale, che nel XII secolo divenne autonoma come scienza, non fu più la
stessa praticata mille anni prima, ma presumibilmente fusa con concetti
orientali e forse anche Taoisti. Dobbiamo a Marsilio Ficino nel 1463 la
traduzione per Cosimo dei Medici del Corpus hermeticum attribuito a
Ermete Trismegisto a cui si riferirà continuamente nei sui scritti. Ma l'opera
più importante del Ficino rimane: il "De vita coelitus comparanda", in
cui compendia la sua visione dei molteplici piani di una realtà, dove le
immagini celesti sono segni e non cause, espressioni dei divini concetti,
simboli dell'anima mundi, dell'armonia del mondo, dell'anima, delle
stelle, dei demoni.
Di questo gigantesco sistema l'uomo
diventa il "faber" che muta, che opera, che capta e imprigiona le forze
del cielo per restituire la vita, per creare magici effetti. L'uomo può arrivare
a vedere il cielo popolato di figure, a loro volta distribuite in altre immagini
corrispondenti a quelle stesse del mondo inferiore. A questi stessi scritti si
riferirà spesso G. Bruno, come nella sua opera, "Spaccio della bestia
trionfante".
I testi degli antichi alchimisti sono scritti in uno stile volutamente oscuro e
apparentemente sconclusionato, ornati di immagini simboliche stupefacenti
ricorrenti nell'immaginario collettivo di ogni epoca, espressione dell'enorme
potenza "magica" coinvolgente, presente nel processo alchemico. Sta di fatto che
l'Alchimia era definita da Ruggero Bacone: "La scienza che insegna a trasformare
ogni genere di metallo in un altro" e secondo un alchimista arabo del Medioevo:
"Per mezzo di quest'arte, quei metalli che sono imperfetti nella miniera vengono
ricondotti dall'imperfezione alla perfezione, dalla corruzione
all'incorruttibilità." Tale trasformazione si ottiene mediante la "Pietra
Filosofale" o "L'Elisir" la cui realizzazione costituisce quindi la meta finale
della "Grande Opera".
Ma a partire dal XIV secolo l'Alchimia assume anche un altro aspetto, perché
oltre a perfezionare i metalli, l'Elisir svolgerà un'analoga opera di
perfezionamento sul corpo umano.
Comunque sia, oggi sappiamo che non è giusto ridurre l'Alchimia alla pura e
semplice pretesa di fabbricare l'oro o di produrre una medicina per prolungare
la vita e sappiamo che gli alchimisti stessi, nel tramandarci quest'immagine
certamente bizzarra della loro Arte, hanno occultato coscientemente o
incoscientemente altri significati. Solo i numerosi studi compiuti negli ultimi
decenni ci hanno restituito una prospettiva più completa, consentendoci
finalmente di comprendere che l'Alchimia è stata qualcosa di diverso e molto di
più: una regola di vita, una ricerca di esperienze trascendenti, un modo
particolare di porsi nei confronti della Natura.
Dobbiamo forse al chimico francese
dell'800 Marcelin Berthelot la riscoperta dell'importanza di un approccio
diverso all'Alchimia.
Da
allora infatti si sono sviluppate molte ricerche di studiosi con obbiettivi e
metodi diversi che si distinguono, principalmente, in tre direzioni.
La prima considera l'Alchimia come sistema filosofico e religioso. I rapporti
tra l'Alchimia e il Taoismo, lo Yoga, l'Ermetismo , il Sufismo e il
Cristianesimo sono stati oggetto di studio di diversi autori come Mircea Eliade,
di Andrè-Jean Festugère, di Henry Corbin.
La seconda considera l'Alchimia come conoscenza magico-esoterica. Su questo
piano di interpretazione si collocano,tra gli altri, pur con posizioni personali
diversificate, Julius Evola, René Alleau, Titus Burckardt e René Guénon e più
recentemente da Antoine Faivre.
Una terza direzione di studi considera l'Alchimia come dimensione
dell'immaginario. Gli aspetti irrazionali dell'Alchimia hanno attirato
l'attenzione di alcuni studiosi della psicologia del profondo, da Herbert
Silberer a Carl Gustav Jung e Marie-Luise Von Franz.
Quindi l'Alchimia, l'Alchimia Tradizionale, consiste in una disciplina che
comporta un lavoro fisico, di laboratorio, psicologico e spirituale, in quanto
il metallo vile su cui si opera e l'oro prodotto possono anche essere
interpretati come simboli dell'uomo che è alla ricerca del perfezionamento della
sua natura.
Vorrei concludere con le parole di Paracelso, medico e alchimista del XVI secolo
: "La vera Pietra Filosofale si trova senza dubbio nell'inespugnabile fortezza
della verità [...]. Tale pietra sembra vile, disprezzabile ed esecrabile alla
gente comune, ma per i filosofi è più preziosa di qualsiasi gioiello [...]. E il
cammino della verità, che rigenera e rivitalizza ciò che non esiste più,
facendolo tornare ciò che era prima della corruzione, tramuta ciò che non è in
ciò che dovrebbe essere. L'oro dei filosofi che rende ricchi i Saggi non è
certamente l'oro con cui si coniano le monete".
Sono
una studiosa dell’alchimia medioevale. Mi occupo professionalmente di storia
della filosofia medioevale e il mio campo dunque è una parte, un settore, un
periodo di questa tradizione che, come l’introduzione di Mugnai ha mostrato, è
molto ampia, multiforme e che favorisce approcci diversi, che quasi – direi -
stimola la presa di posizione soggettiva dello studioso, della studiosa che
l’affronta, tanto che io avevo scelto come motto per un mio libro sull’argomento
una frase di Carl Gustav Jung che dice "l’oggettività scientifica è il manto
con cui l’occidente vela a se stesso il proprio cuore". Dunque non voglio
presentarvi una visione ‘oggettiva’ dell’alchimia, ma quello che io ho trovato
dentro a questa sapienza.
Un altro grande psicologo del profondo del nostro tempo, James Hillman, scriveva
una ventina di anni fa: "noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che
interroghiamo un’immagine per conoscerne il significato pretendendo che le
immagini siano tradotte in concetti". Tradurre immagine in concetti è una
buona definizione per il lavoro filosofico soprattutto è una buona definizione
della filosofia del tempo in cui l’alchimia ha conosciuto, nella nostra civiltà
occidentale, il momento della sua massima fioritura: il Medioevo.
Nell’età scolastica i filosofi, quelli ‘ufficiali’, quelli che stanno nei
manuali di filosofia, definivano la filosofia come la astrazione delle verità
universali dimostrabili che formavano il nucleo della dimostrazione, dalle
immagini mentali, da quelli che loro chiamava noi fantasmi. Dunque
definivano la filosofia come un abbandonare il campo delle immagini per
approdare al campo dell’universale. Ora, anche gli alchimisti si definivano
filosofi ma, come vedremo, intendevano questa definizione in senso molto diverso
dai filosofi della Scolastica. Gli alchimisti cominciano a lasciare traccia di
sé nella nostra cultura medioevale a partire dal XII secolo, quando i primi
testi tradotti in latino dall’arabo introducono nell’occidente un sapere che
viene recepito come novitas. Dall’arabo al latino si traducono in
quell’epoca molti testi filosofici e scientifici, e quando si traduce – per
esempio - un testo astronomico o astrologico si può risalire ad auctoritates
dell’età classica per collocare questo sapere. Quando si traducono testi medici,
anche lì ci sono autori della tarda antichità che hanno costituito il solco di
una tradizione. Quando si traducono invece testi alchemici, arriva qualcosa che
è assolutamente nuovo, qualcosa che è assolutamente inedito per quella cultura,
per quell’epoca. Ma, appunto, questo qualcosa è definito, dagli autori che ne
scrivono, ‘filosofia’.
Gli
alchimisti dunque si definiscono ‘filosofi’ ma, diversamente dai filosofi
scolastici, non vogliono astrarre l’universale dall’immagine, non vogliono
abbandonare il sostrato materiale dell’immagine. Si può prendere come motto
degli alchimisti una frase che ricorre spesso nei testi dell’elixir, quelli che
appunto all’inizio del ‘300, come vedremo in seguito, sembrano riportare alla
luce il significato più primitivo e più pieno del sapere alchemico. In molti di
questi testi ricorre una frase che in latino dice "Accipe nigrum nigrius
nigro" (prendi quella cosa oscura che è più oscura dello scuro). È
l’alchimista maestro che spiega al suo discepolo, perché il sapere alchemico si
trasmette in una iniziazione, in un contatto diretto, familiare fra il maestro e
il discepolo, e il suo discorso concerne la materia prima, il segreto centrale
dell’alchimia, il cui mistero e la cui indeterminatezza sono qualcosa che non
può essere tradotto in concetti. Eppure lo stesso alchimista, che insegna a
partire da questa oscurità più oscura dello scuro, si definisce filosofo. La
materia prima non può essere detta, non può essere definita, non può essere
ridotta in parole che esprimono concetti o appunto una definizione precisa, ma
deve essere indicata attraverso un paradosso per poter essere comunicata; può
solo essere mostrata, eppure si deve insegnare a raggiungerla, a lavorarla: la
conoscenza della materia prima deve essere veicolata da un linguaggio che però
non può essere il linguaggio della astrazione.
L’alchimia dunque non è una scienza dimostrativa, come invece la filosofia si
propone e riesce ad essere, in età scolastica. L’insegnamento alchemico è
comunicazione di una sapienza che si apprende attraverso un’esperienza
multiforme, il cui scopo iniziale è quello di mettere in contatto con il
substrato materiale della realtà, ed il cui scopo finale è quello di dare a
questo substrato materiale della realtà la massima perfezione.
L’incorruttibilità, appunto, di cui l’oro è un simbolo ed è anche una
realizzazione concreta ma parziale. Questa esperienza non esclude l’esperienza
intellettuale vera e propria, ma la ingloba insieme ad altri tipi di esperienza.
Gli
alchimisti insegnano ai loro discepoli a documentarsi sui libri, a leggere, anzi
a leggere molto perché un libro ne apre un altro, un libro dice le cose che
nell’altro sono rimaste nascoste. Ma insegnano anche ad abbandonare i libri nel
momento in cui non servono, nel momento in cui bisogna tacere e osservare quello
che fa il maestro, nel momento in cui bisogna raccogliersi e aspettare
l’illuminazione. Insegnano a non limitarsi semplicemente a leggere i libri
facilmente disponibili, ma ad andarli a cercare, in una ricerca che è un
viaggio, spesso figurato ma spesso anche no. Un alchimista della metà del ‘300,
Leonardo di Maurperg, ha lasciato un vero e proprio taccuino dei suoi viaggi,
degli incontri che ha fatto, delle ricette che ha imparato dall’uno, dei segreti
che ha appreso dall’altro e dunque ci racconta quasi dal vivo quello che
effettivamente era un coinvolgimento del corpo, un coinvolgimento non solo
intellettuale, in questa ricerca. Quindi la ricerca, il viaggio, l’incontro
casuale: tanti racconti alchemici narrano proprio della scintilla che scocca,
quando uno che va alla ricerca incontra l’altro che sa - ma non sapeva dove era
l’altro che sapeva, lo incontra quasi per caso, lo riconosce.
Lo riconosce perché, dice un altro trattato, il Libellus de alchimia
attribuito ad Alberto Magno, gli alchimisti dovunque siano si riconoscono fra
loro, e se ce ne sono due o tre in una grande città, si troveranno e
cominceranno a conversare fra loro. Quindi l’incontro; e poi la devozione
dell’apprendista al maestro e anche l’affinamento etico, e infine
l’illuminazione che può venire direttamente da Dio o può venire attraverso le
parole del maestro: sono tutti modi, un mosaico di modalità con cui gli
alchimisti entrano in possesso, o si potrebbe anche dire che vengono posseduti,
da una sapienza che non rinuncia a voler includere la materialità del reale.
Dunque la conoscenza alchemica non astrae il concetto dal fantasma, ma ne
riconosce l’irriducibilità a parole: eppure si dichiara filosofia.
Per
non far torto a questo carattere dell’alchimia, non riducibile, appunto, a
parole (per quanto possano essere non rigorosamente astratte o concettuali), ho
scelto di costruire questa mia conversazione con l’aiuto di una serie di
immagini. Questa scelta è anche legata al fatto che, come ho già anticipato,
ritengo che un momento cruciale nella storia dell’alchimia sia il passaggio fra
il ‘200 e il ‘300; perché in questo sapere, che i latini avevano ricevuto dagli
arabi e nel quale dapprima avevano soltanto confusamente creduto di riconoscere
una specie di super-metallurgia, l’arte di fare l’oro dai metalli vili (e questo
si mantiene vero per tutti i testi del ‘200), in esso a un certo punto - per una
serie di influssi interni e forse anche esterni - gli alchimisti occidentali
cominciano a riscoprire quello che è il senso più complessivo dell’alchimia.
L’alchimia arriva così ad essere compresa come ricerca della perfezione
materiale non solo dei metalli, ma anche del corpo umano: quindi una ricerca di
perfezione che coinvolge lo stesso artefice, in prima persona, e anche una
ricerca di perfezione che non può prescindere da un affinamento etico e dunque
da una crescita spirituale dall’inizio alla fine di questa ricerca. Questo
complesso di idee lo riconosciamo nei testi del primo ‘300, e in particolare in
quei testi dedicati alla ricerca dell’elixir, molti dei quali sono stati
tramandati sotto il nome di un filosofo che si chiamava Raimondo Lullo, una
filosofo catalano contemporaneo di Dante, che di per sé non aveva scritto niente
di alchimia, anche se nelle sue opere si vede che era al corrente dell’esistenza
di essa, ma anzi è diffidente nei suoi confronti.
E
tuttavia si cominciano a scrivere dei testi, attribuendoli a lui, che hanno,
rispetto ai testi precedenti e rispetto a tutta la successiva tradizione
dell’alchimia post quattrocentesca, una caratteristica estremamente
interessante. Vogliono infatti chiaramente mettere in comunicazione questo
sapere che nasce dal fare, da questa ricerca di un opus che produca un
agente di perfezione, con il sapere filosofico del loro tempo.
Il più importante, il primo di questi testi si chiama Testamentum, ed è
un esempio di questo tentativo di collegare questi due piani. Usa il linguaggio
dei filosofi per dire cose che un filosofo non potrebbe mai dire, per esempio
che "il vero temperamento, il vero equilibrio degli elementi lo si ottiene
attraverso un’operazione manuale". Un filosofo scolastico non avrebbe mai
pensato che l’operazione manuale fosse una via di accesso alla filosofia: al
massimo l’operazione manuale aveva una sua dignità come attività utile
all’umanità, ma non una dignità filosofica. Invece l’alchimista dice proprio
questo. Allora, ecco i testi dell’elixir, i testi attribuiti a Raimondo Lullo
come momento nel quale io vedo confluire tutti i temi dell’alchimia in una
formulazione particolarmente rilevante perché cerca il dialogo con il resto del
mondo, con il resto della vita intellettuale del suo tempo. In seguito il
rifiuto dell’istituzione universitaria, il rifiuto del sapere ufficiale, a
confrontarsi con questo sapere alchemico, cioè ad includerlo nel novero delle
discipline legittime - cioè insegnabili -, indurrà gli alchimisti a richiudersi
in un ambito, sempre più ristretto, ad occultare il proprio sapere che come dice
Gilbert Durand, è occulto, per noi, perché è stato occultato, in
quel momento storico.
Dell’alchimia
pseudo-lulliana, attribuita cioè a Raimondo Lullo, esistono molti manoscritti,
uno dei quali, conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, è un documento
splendido. È un manoscritto della fine del ‘400, che però riporta testi sull’elixir
scritti nel secolo precedente, un manoscritto probabilmente confezionato per un
medico, poiché sono molti in quell’epoca i medici che hanno interesse per
l’alchimia fra il ‘300 e il ‘400; è comunque chiaramente un manoscritto
commissionato da una persona molto danarosa e contiene una serie di miniature ,
dipinte dal celebre miniaturista Gerardo da Cremona, che accompagnano i testi.
Queste miniature stanno, in genere, nei capilettera iniziali dei testi; quindi
hanno una funzione esornativa, ma anche visualizzano dei motivi che sono, in
questi testi, motivi centrali. Ecco allora perché ho scelto questa serie di
miniature. Non ho portato tutte le miniature contenute in questo manoscritto, ma
una scelta che ho ritenuto particolarmente significativa.
La prima immagine è proprio il primo
capolettera della prima opera contenuta in questo manoscritto, il Testamentum,
e ha due settori, entrambi significativi (Figura 1). L’immagine di sinistra, la
donna bionda che si strappa i capelli, col volto palesemente in lacrime, è la
natura che si lamenta. Il motivo di natura lugens è un motivo che
percorre la poesia tardo latina e poi torna nel XII sec. e che ancora ritroviamo
in Jean de Meung. Natura si lamenta e dice all’alchimista che alcuni vogliono
strapparle i suoi segreti, vogliono lacerarle le vesti, afferma "morti me
tradere volunt" (mi vogliono ammazzare). Riecheggia in questo lamento
il titolo del libro di Carolyn Merchant, La morte della natura. La
Merchant ha analizzato un accadimento storico collocandolo nel momento in cui
proprio è arrivato a compimento, al tempo della rivoluzione scientifica in cui
la natura come grande dea, come figura divina era ormai decaduta a oggetto
dell’indagine e quindi torturabile, come diceva nel ‘600 Francesco Bacone.
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Figura 1 |
Nell’immagine del manoscritto abbiamo una natura che
ancora è vitale ed è in grado di lamentarsi, non è ancora stata definitivamente
uccisa, ma manifesta proprio nelle sue parole questo pericolo e si appella
all’alchimista perché solo l’alchimista potrà comprendere i suoi segreti in
maniera non lacerante, in maniera non violenta. L’alchimista infatti, come
vedremo in seguito, ha un modo di rapportarsi alla natura per cui la natura gli
svela volentieri i suoi segreti, perché sa che non ne farà cattivo uso, perché
ha raggiunto una consapevolezza etica che gli consente di fare buon uso dei
segreti di natura e una metodologia di approccio per cui interagisce con la
natura ma non "la mette alla tortura" – frase, quest’ultima, di Francesco
Bacone.
L’altra immagine, quella racchiusa nella lettera O, è invece un’illustrazione
sintetica di che cosa è l’alchimia. La scena illustra l’angelo che guida Tobia,
il Tobia biblico, nel ritorno verso casa, dove con il fiele del pesce guarirà la
cecità del padre. Tobia è raffigurato un po’ più giovane che nell’episodio
biblico, è un bambino (vedremo alla fine il perché di questa piccola figura di
puer), e il pesce è un simbolo dai molti significati, ma qui sta
chiaramente per il "farmaco’’. Dunque l’alchimia perché? Per ottenere il
farmaco, non ‘un’ farmaco, ma ‘il’ farmaco, il rimedio universale. L’angelo è il
segno della rivelazione, cioè indica che questo sapere alchemico è appunto un
sapere dalle caratteristiche particolari. Il francescano inginocchiato, a
sinistra, che ammira questa scena con devozione, è un’immagine di Raimondo Lullo.
Raimondo Lullo che non fu mai veramente francescano ma si accostò all’ordine
francescano e ne divenne terziario qui è raffigurato con il saio, e quindi
mostra l’alchimista nella veste di un francescano, di un francescano
probabilmente eremita perché il paesaggio è un paesaggio della campagna. Tutte
le scene sono sullo sfondo di un paesaggio di questo genere, un paesaggio
toscano, poiché Gerolamo da Cremona, l’illustratore, lavorava fra Firenze e
Perugia.
Il francescano alchimista indica anche un’altra cosa, e cioè il coinvolgimento
di questo ordine nell’alchimia. In verità entrambi gli ordini mendicanti, e
anche vasti settori della chiesa, si interessarono all’alchimia.
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Figura 2 |
Ma i francescani, soprattutto i francescani spirituali –
cioè appartenenti a quella corrente che voleva conservare la più rigorosa
adesione alla povertà e che accolgono idee tardo-gioachimite - sembrano
particolarmente interessati alla ricerca alchemica dell’elixir. Ci sono molti
nomi di francescani associati, leggendariamente o no, alla ricerca alchemica.
Passando alla seconda immagine vediamo, sempre sullo sfondo del
solito paesaggio, la fonte del sapere dell’alchimista: il raggio,
l’illuminazione divina che viene dall’alto in risposta a un chiaro atteggiamento
di preghiera (Figura 2). Dunque la devozione come atteggiamento che permette di
ricevere un sapere che, per quanto si definisca filosofico, percorre vie diverse
da quelle della filosofia aristotelica.
Come ho già detto, il sapere dell’alchimista, la metodologia che l’alchimista
segue per ottenere il suo prodotto, è una metodologia che lo mette in una
relazione non violenta e di collaborazione e di interazione con la natura e
quindi la prossima serie di immagini vogliono proprio far vedere alcuni aspetti
di questo sapere.
La terza immagine simboleggia l’opus
alchemico nel suo complesso (Figura 3). Opus è un termine che
propriamente si traduce con l’italiano "operazione", ma perde il suo sapore; e
quindi il processo alchemico si continua in genere a definire con il termine
latino. L’opus alchemico viene qui illustrato con l’esempio
dell’agricoltura. Il parallelo fra l’alchimia e l’agricoltura è presente in
alcuni testi alchemici e, prima che in essi, negli scritti di Ruggero Bacone, un
filosofo del ‘200 appartenente all’ordine francescano, che propose al papa
Clemente IV un progetto di riforma della cristianità incentrato sulla sapienza
alchemica, sull’astrologia e sulla scientia experimentalis in genere.
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Figura 3 |
Il paragone alchimia/agricoltura è
raffigurato con i due buoi che tirano l’aratro; l’eremita appare nella veste
dell’agricoltore che prepara i solchi. I due buoi sono uno d’oro e uno
d’argento, vera foglia d’oro e vera foglia d’argento ovviamente nella miniatura
(il manoscritto è una meraviglia). E il piccolo personaggio che sta sopra il
carro è Mercurio, con i piedi alati e con uno strumento musicale. È una delle
prime testimonianze del legame fra l’alchimia e la musica, che poi sarà
sviluppato soprattutto in età barocca. Probabilmente qui è un’allusione al fatto
che l’alchimia si inserisce in una visione del mondo basata sull’armonia, la
visione del mondo che noi conosciamo come dottrina della ‘simpatia universale’,
quella cioè per cui in un cosmo che è sostanzialmente unitario le cose si
collegano fra loro non in maniera meccanica, ma per influssi qualitativi, per
somiglianze, per affinità - appunto simpatie.
Di fatto questa è una dottrina ermetica e l’ermetismo, ovvero la filosofia che
fa capo alla figura mitica di Mercurio è lo sfondo filosofico dell’alchimia. La
Tabula Smaragdina, testo ellenistico che gli alchimisti considerano come
il fondamento del loro sapere, si narrava fosse stata ritrovata incisa in una
tavola di smeraldo che la statua di Ermete reggeva nelle mani, in un luogo
sotterraneo - quindi ritrovata al termine di un percorso iniziatico. Questo
testo comincia dicendo "ciò che è in alto è come ciò che è in basso e ciò che
è in basso è come ciò che è in alto per realizzare il miracolo della
realtà che è una". E quindi Ermete è presentato come il capostipite, il
padre, l’origine della sapienza alchemica.
L’alchimista, che nell’immagine precedente preparava la terra, ora la semina con
semi d’oro e d’argento, come d’oro e d’argento erano i due buoi che tiravano il
carro (Figura 4). Questi sono i semi della perfezione, e l’immagine sta a
significare che l’alchimista non lavora in maniera innaturale o contro natura,
ma prende ciò che già esiste a livello di perfezione embrionale, appunto di
seme, per portare a perfezione anche tutto il resto della realtà materiale, che
i processi naturali hanno lasciato imperfetto o incompiuto. Per poter compiere
ciò è necessario produrre un qualcosa, il famoso lapis philosophorum, che
non è una pietra, anche se il suo nome significa ‘pietra dei filosofi’’.
Come dice Morieno, un alchimista arabo
il cui testo fu il primo tradotto in latino nel XII secolo, "Ricordati bene
che le pietre non hanno nessuna parte in quest’opera". Quindi
lapis philosophorum è un nome emblematico per dire il prodotto
incorruttibile dell’opus (anche chiamato elixir), prodotto che è ottenuto
seminando la perfezione, che è come il frutto di perfezione che diffonde la
perfezione, moltiplicandosi e rendendo perfetto tutto ciò con cui viene in
contatto.
L’interazione fra l’alchimista e la natura non è dunque uno stravolgimento o un
intervento estrinseco sul corso naturale, ma è l’inserimento dell’intenzionalità
cosciente umana, che vuole portare alla perfezione totale l’intero cursus
naturae che, come dice il nostro alchimista nel Testamentum, talvolta
si distorce, cioè devia dalla originaria direzione verso la perfezione.
Questa direzione viene recuperata attraverso l’intenzionalità umana, la
coscienza: ecco dunque l’alchimista come ‘seminatore’. Ma l’immagine del
seminare è anche un’immagine che può passare dalla metafora agricola a quella
sessuale: e, come vedremo, c’è uno sviluppo di questo tema. L’interazione fra
l’alchimista e la natura, visualizzata come immagine femminile divina, viene ad
essere pensata in termini nuziali, nei termini della coniunctio. Su
questo torneremo più avanti.
Nella quinta immagine
vediamo l’alchimista che fa un’operazione curiosa, sta tingendo dei rami. Il
riferimento immediato è alla parte di testo che ora
comincia e che si intitola "rami della tintura", cioè la parte del testo che
tratta del ‘tingere’. Questa espressione ci riporta alla parte manuale in senso
stretto, artigianale dell’alchimia, a ciò per cui l’alchimia si definisce ed è
definita una ars, non nel senso di un’arte estetica ma di una techne,
cioè di un fare materiale.
L’alchimia è infatti una ricerca sui materiali e perciò ha piena legittimità
concepire l’alchimia anche come una madre della chimica o protochimica, come una
ricerca dalla quale poi discendono anche i procedimenti scientifici della
chimica. In questa ars, appunto il momento culminante si definisce tingere,
perché la compenetrazione di perfezione che l’elixir opera sulle cose con cui
viene messa a contatto è analoga a quella con cui una piccolissima quantità di
principio del colore, per esempio della porpora
diluita e lavorata e trattata in un certo modo, riesce a imbibire una grossa
quantità di materiale grezzo, per esempio di stoffa. Ora però questi rami che
l’alchimista sta tingendo sono rami di palma e la palma è un albero simbolico
dell’immortalità, che come vedremo ricorre in un’altra immagine che incontreremo
fra poco. Dunque questo suo tingere non è solo il tingere del tintore, ma ha un
doppio livello di lettura: e del resto in un testo dell’alchimia dell’elixir
contenuto anche in questo manoscritto, il Rosarius attribuito ad Arnaldo
da Villanova, la tintura è paragonata all’anima che, portata dall’acqua-spirito,
imbeve il corpo materiale, rendendolo perfetto.
Nella sesta figura vediamo invece un altro aspetto che è quello
della cottura e del raffinamento, della separazione delle impurità dal materiale
grezzo. Questa è una delle miniature più misteriose della serie (Figura 6),
perché questo materiale grezzo è raffigurato con due facce umane, chiaramente,
ma come vedete sono due ‘tartari’, che all’epoca in cui viene scritto il
Testamentum (più che a fine ‘400, quando vengono fatte le illustrazioni)
sono i popoli assolutamente al di fuori della civiltà. Questa immagine perciò
dice due cose insieme: una è che metalli, minerali, esseri viventi, sono tutti
una parte dell’unità del tutto. I metalli, dice un frammento attribuito ad
Ermete, sono anche essi animati, sono dotati di vita; ecco perché degli esseri
umani possono raffigurare i metalli posti nel fuoco a purificarsi.
Il testo a cui questa iniziale dà l’avvio si apre dicendo che la purificazione
che avviene nel fuoco dell’alchimista fa sollevare delle nubi nere piene di
mostri, che sono le impurità che si allontanano dalla materia prima che è stata
messa nel fuoco. Dunque il fuoco è presentato come lo strumento dell’alchimista,
e la materia prima è esemplificata da queste due teste umane ed il nero delle
impurità dai mostri (chimere, bestie strane e mitologiche che stanno
allontanandosi).
Dunque col fuoco l’alchimista separa le
componenti di una sostanza, le componenti impure, e poi distilla, cioè fraziona
una sostanza nelle sue varie componenti.
La settima immagine si riferisce alla distillazione vera e
propria, cioè non ad un lavoro fatto a partire da una materia prima minerale, ma
ad una materia prima che è chiaramente il vino (perché c’è un torchio: Figura
7).
Infatti questa iniziale si riferisce al Liber de secretis naturae, che è
un testo sulla distillazione della quinta essenza, distillazione della essenza
incorruttibile, luminosa, che sta nel cuore di tutte le cose ma che meglio di
tutte si estrae – come dicono lo pseudo Lullo e il francescano spirituale
Giovanni da Rupescissa nel 1350 - proprio dal vino. Il vino infatti deriva
dall’uva, dal frutto che racchiude in se stesso il calore vitale del sole; e
attraverso questa serie di trasformazioni (sole, uva, vino, quinta essenza)
l’opera dell’artefice ottiene il principio vitale, che nel calore del sole è
racchiuso e che è il principio quintessenziale, la quintessenza della realtà
elementare.
Che il frutto dell’opus sia l’anima dei metalli, o che sia la quinta
essenza del vino, è uno il principio di perfezione, che racchiude in sé due
caratteristiche: è "incorruttibile", sia che sia fatto raffinando metalli, sia
che sia ottenuto dal vino. La quintessenza è un prodotto che invece - dice
Giovanni da Rupescissa - è sovraelementare, non si corrompe, non è né freddo né
caldo né umido né secco, ma ha le funzioni di tutti gli elementi, di cui è
radice unica. Ma, oltre ad essere il principio della perfezione, questo prodotto
è un principio dinamico, perché questa perfezione che possiede può generarla in
ciò con cui viene in contatto, dunque ha in se stesso un dinamismo di ordine
vitale per cui cresce e si diffonde.
E’ chiaro allora che ciò che è stato ottenuto nell’opus alchemico è
un’unione degli opposti, della vita e dell’incorruttibilità, o del dinamismo e
della perfezione incorruttibile.
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Figura 8 |
C’è però un problema a cui gli
alchimisti sono sensibili, alcuni almeno: la distillazione, o comunque le
operazioni alchemiche in genere, permettono soltanto di estrarre il principio
vitale dalle realtà materiali in cui è già presente, o permettono di crearlo, di
farlo manualmente? E’ una problematica che nei testi arabi e nei testi latini si
esprime con il privilegiare o meno, come materia prima dell’opus,
sostanze che noi oggi definiamo organiche, oppure sostanze inorganiche. Cioè da
una parte piante, tessuti animali, per esempio il sangue, oppure sostanze invece
inerti, i metalli, i minerali.
Nell’immagine ottava, si vede l’albero della palma, che è
l’albero dell’opus alchemico; in esso tutte le foglie di destra, cioè le
foglie sostituite da lettere, raffigurano i diversi stadi dell’opus che
il testo descrive; alla base dell’albero c’è un vaso.
Un vaso molto particolare: chi conosce la medicina medioevale vi potrà
riconoscere un ‘orinale’, e dunque il liquido che contiene è urina umana che è
il principio, la materia prima da cui si parte, secondo l’alchimista che ha
scritto questo testo, il Liber de investigatione secreti occulti, per
fare il lapis philosophorum, perché si deve partire da una sostanza che
abbia già in sé il principio della vita.
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Figura 8 bis |
Questa però è l’opinione di una corrente
dell’alchimia dell’elixir, perché altri alchimisti invece sostengono che si può
partire da qualunque sostanza, anche dai metalli, anche dai minerali, perché il
principio vitale si ottiene attraverso le manipolazioni, attraverso l’estrazione
dell’anima (Figura 8bis).
Secondo questi ultimi alchimisti, l’alchimia permette in verità di estrarre da
qualunque cosa, da qualunque elemento, da qualunque materia prima, l’anima. Ed
essa è il filius, che l’alchimista ha ottenuto dalla gravidanza della
natura. C’è un passo, che ricorre in diversi testi quasi con le stesse parole,
in cui l’alchimista raccomanda al figlio: "quando avrai ingravidato la natura"
cioè quando avrai lavorato la terra e avrai seminato i semi della perfezione "aspetta
il parto perché è la natura che detta i tempi e non tu". Dunque si richiede
all’artefice non l’atteggiamento prometeico, del fare che è dominio sopra la
natura, ma la capacità di interagire con essa, saper aspettare. Si richiede
dunque all’artefice una virtù che è tradizionalmente una virtù femminile, ma che
è anche una virtù degli alchimisti: la pazienza cioè il saper patire, aspettare.
È perché l’alchimista sa aspettare che la natura non è violentata dal suo
intervento. È perché l’alchimista riconosce alla natura il suo ruolo di soggetto
vivente che non la riduce appunto ad un oggetto.
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Figura 11 |
Il testo introdotto dalla nona
immagine non è dello pseudo-Lullo ma è attribuito ad Arnaldo da
Villanova e si chiama Rosarius: ecco perché la miniatura raffigura le
rose (Figura 9). Ma la rosa d’oro è anche il dono che i papi, in età tardo
medievale e rinascimentale portavano alle città dove si trovavano in visita,
cioè è il segno del passaggio del sacro. La rosa d’oro è anche il simbolo della
perfezione materiale viva (fiore) e incorruttibile (oro). Viene spontaneo
l’accostamento con quel Segreto del fiore d’oro, testo di alchimia
taoista tradotto da Richard Wilhelm negli anni ‘20 del nostro
secolo e commentato da Jung, testo nel quale a un certo punto si dice "quando
col tempo l’opera è compiuta, è come se in mezzo al non essere ci fosse
un essere". Fin qui abbiamo visto che cos’è l’alchimia; ora vediamo come si
rapporta l’alchimista col sociale, chi è l’alchimista nel suo mondo.
La decima immagine ci mostra che l’alchimista, l’alchimia
interessa ai re (Figura 10).
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Figura 10 |
Il personaggio sulla destra è
chiaramente un re perché ha la corona; e si può anche riconoscere con esattezza
chi è, perché è il destinatario della copia di dedica del Testamentum
pseudo-lulliano, Edoardo III d’Inghilterra. Ma non è affatto l’unico sovrano
medievale che si interessi di alchimia: sono tanti coloro che se ne interessano,
ed in particolare i sovrani si mostrano interessati alla parte metallurgica
perché pensano di coniare moneta con l’oro alchemico. Da qui nasce il problema
degli alchimisti come falsari, che si collega a tutta una problematica giuridica
che tuttavia è articolata e complessa. C’è una tradizione, che è radicata
addirittura in un breve passaggio di Tommaso D’Aquino nella Summa theologiae
in cui si dice che "se gli alchimisti mediante l’opus riuscissero a fare
dell’oro vero, coniare moneta con quell’oro non sarebbe peccato, sarebbe
lecito"; su questa posizione si allineano diversi giuristi.
Un caso emblematico di rapporto fra l’alchimia ed il potere regio si ha
nell’Inghilterra del primo ‘400: l’alchimia è proibita fino a che, dopo la fine
della guerra dei Cento Anni, le finanze inglesi sono distrutte. A quel punto il
re Enrico IV comincia a dare delle deroghe al divieto che uno dei suoi
predecessori aveva istituito, e comincia a dare il permesso a singoli
alchimisti, come mostrano i documenti dell’archivio inglese pubblicati nei
Patent Rolls. Ci sono una serie di lettere-patenti che dicono press’a poco:
il tale può esercitare l’alchimia, purché lo faccia ovviamente per me, sotto la
mia giurisdizione. Quando poi gli alchimisti non riuscivano - le tecniche di
saggiatura dell’oro erano già ben conosciute e si poteva benissimo vedere che
quel che veniva fuori dalle loro manipolazioni non era oro -, se non fuggivano i
sovrani erano pronti a gettarli in galera e anche a ordinarne la messa a morte.
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Figura 11 |
Quindi le vicende degli alchimisti col
potere sono controverse. Interesse da una parte, per una potenza che si avverte
in questo sapere e che viene interpretata letteralmente come potenza di fare
ricchezze pressoché dal nulla; dall’altra parte diffidenza e quindi pronto
castigo. Esemplare è a leggenda di Lullo alchimista, che avrebbe fatto l’oro per
il re Edoardo ma, poiché questi l’avrebbe usato per combattere i Cristiani
anziché i Saraceni (scopo per cui Lullo lo aveva fatto) l’alchimista si oppone
al re e di conseguenza viene messo in galera: anche se poi proprio nel carcere
si narra che gli succedono cose meravigliose, riceve le rivelazioni degli
Angeli... però è in galera.
Nella successiva figura (Figura 11) vediamo invece che
l’alchimista ammaestra i dottori e i filosofi; dunque l’alchimia non come
potere, ma come sapere . L’alchimia si coniuga fra il ‘200 e il ‘300 con il
sogno del farmaco universale che nasce all’interno della ricerca medica e
farmacologica, forse sull’eco di ricerche orientali di cui Ruggero Bacone a
Oxford poteva ben essere a conoscenza e che trova ascolto anche nella curia
papale.
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Figura 12 |
C’è infatti molta attenzione da parte
dei pontefici, dei cardinali per il farmaco che ringiovanisce, per il farmaco
che mantiene il corpo efficiente. In un mondo cristiano non si può pensare al
farmaco dell’immortalità in senso stretto perché questo sarebbe hybris
eccessiva, ma si pensa ad un farmaco che consenta di vivere - dicono gli
alchimisti - fino al termine ultimo stabilito da Dio, evitando tutte le cause di
morte precoce. Questa ricerca del farmaco alchemico come medicina, panacea e
elixir contro tutti i mali, sfocia in una applicazione della distillazione alla
ricerca farmacologica, a metà del ‘300, con il francescano Giovanni da
Rupescissa che è uno dei precedenti di Paracelso della ricerca iatrochimica di
Paracelso. Ciò che spiega perché i medici rinascimentali sono interessati a
questo sapere.
Nella dodicesima immagine il medico che stringe la mano all’alchimista è una
persona particolare: è Arnaldo da Villanova, che compare in una versione della
leggenda di Lullo alchimista, in cui si dice che Arnaldo sapeva fare la
distillazione ma non ne conosceva il quadro di riferimento alchemico. Quando
questo gli viene insegnato dall’alchimista i due diventano socii,
condividono la stessa ricerca, e a questa comunanza di interessi allude il fatto
che si stringono la mano in gesto amichevole (Figura 12).
Nella figura successiva vediamo invece
raffigurato l’interesse dei religiosi per la ricerca alchemica (Figura
13). Il monaco vestito di bianco è un certosino; e infatti
l’illustrazione è riferita al Liber de secretis naturae, che l’alchimista
avrebbe scritto su richiesta di un monaco della Certosa Parigina. Quello che qui
viene illustrato è il momento in cui l’alchimista consegna al monaco il libro
che gli è stato richiesto. Di fatto ci sono numerosi divieti di praticare
l’alchimia rivolti dagli ordini religiosi ai propri membri; ma proprio il
ripetersi però di questi divieti mostra che in realtà i religiosi praticavano la
ricerca alchemica con tutte le implicazioni che questa ha relativamente alla
salvezza del corpo e alla salvezza spirituale, con la sua richiesta di
perfezionamento anche etico, di disposizione religiosa nei confronti della
natura e naturalmente anche di ricerca medica dell’elixir. Del resto tutti quei
liquori che nelle Certose, nelle fondazioni di antica memoria ancora si
producono, testimoniamo una tradizione di distillazione che poi si è certo
abbassata a scopi più utilitaristici, ma che è radicata in questo sapere.
C’era, in Italia, un ordine religioso che fu soppresso alla fine del ‘600,
fondato dal senese Giovanni Colombini dopo la peste nera verso il 1365/67 per
assistere gli ammalati di peste e i moribondi, che venne presto ribattezzato "I
Frati Speziali" o "I Fratelli dell’Acquavite". In tutte le fondazioni di questi
Gesuati, c’erano officine di distillazione, perché era coi farmaci distillati
che essi curavano i malati gravi e i moribondi. Un testo attribuito ad Arnaldo
da Villanova racconta del resto come si possa ottenere mediante la distillazione
un farmaco che è in grado di risuscitare i morti," vel quasi" – dice -,
insomma non proprio del tutto. Cioè si può far sì che una persona che sta
malissimo, che sta perdendo i sensi, che se ne sta andando all’altro mondo, ma
che non ha fatto in tempo a fare testamento o a confessarsi, si riprenda con
questo prodotto alchemico, detto appunto perciò elixir vitae, quel tanto
che basta per mettersi in pace con Dio e con gli eredi: e pare che i Gesuati di
questa possibilità vel quasi ne abbiano forse un po’ abusato.
Nella figura che segue vediamo l’autorità massima del mondo medievale, il papa.
Questa immagine però non è molto lineare come leggibilità, è la più misteriosa
(Figura 14).
Questo animale, volpe o furetto che fa
cadere il triregno dalla testa del papa, io (e gli altri studiosi che hanno
analizzato questo manoscritto) non riesco a interpretarla. Quello che si capisce
è che c’è una certa animosità fra l’alchimista e il papa. L’alchimista agita il
vaso della materia prima in maniera leggermente intimidatoria, mentre il papa –
pare - sta perdendo di fronte all’altro il simbolo del suo potere: ed ecco che
riappare quel piccolo puer, vestito come nella prima immagine, che mi
induce a pensare che questa immagine indichi una contesa sul sacro e indichi
dunque l’aspetto negativo che fa da pendant all’aspetto positivo
dell’alchimia come complemento ad un discorso religioso che ha trascurato il
versante della materia: ma su questo rinvio al testo di Carlo Cicali e Dario
Squilloni. Di fatto, nella perfezione alchemica della materia è possibile
innestare il rinnovamento della chiesa, come Bacone aveva auspicato, come il
puer dell’immagine sembra mostrare, ma anche leggervi la minaccia di
rovesciamento del potere temporale: e il legame della ricerca alchemica con i
movimenti spirituali del tardo medioevo – cui ho già accennato - sembra andare
piuttosto nella seconda direzione.
La conflittualità con la figura massima della cristianità si manifesta in alcuni
fatti storici: la condanna degli alchimisti come falsari che pronunciò Giovanni
XXII, la persecuzione contro gli alchimisti da parte dell’inquisitore della
corona d’Aragona Nicola Eimerich alla fine del ‘300, che contraddicono
l’interesse che i papi e i cardinali avevano mostrato per la ricerca dell’elixir
fra il ‘200 e il primo ‘300, che chiudono questa possibilità, forse perché
appunto è stato compreso che l’alchimia conteneva una visione del mondo che non
poteva andar d’accordo con quella che il potere ecclesiastico, alla fine del
medioevo, sosteneva. Ecco allora l’alchimia che, a quel punto, rifiutata dalle
università, osteggiata dall’autorità massima e ambiguamente favorita dal potere
secolare, si rintana, si rinchiude in una sua sfera di ricerca, si occulta e
diventa ciò che per noi oggi è una ‘scienza occulta’. E allora che vuol dire,
che senso ha riprendere oggi in considerazione una ricerca di questo tipo? La
risposta, o almeno la mia motivazione, è radicata sia nel discorso di Jung, su
cui però qui non mi soffermo, sia in un discorso che emerge da ricerche sulla
tradizione esoterica per esempio in Francia. Ritornare all’alchimia non vuol
dire dedicarsi a stranezze o concedersi delle divagazioni, per quanto
affascinanti, ma cercare di rimettere a tema del pensiero un materiale che non
si presenta così unilaterale, così astratto, così schematicamente universale
come la definizione di scienza e di filosofia nella modernità di fatto sono.
L’alchimia è stata definita da una studiosa francese contemporanea, Françoise
Bonardel "il continente nero del pensiero occidentale", riprendendo
coscientemente quella definizione che Freud ha dato delle donne e del femminile.
Continente nero in cui il pensiero occidentale ha cessato - dice Bonardel - di
volersi avventurare in un dato momento della sua storia. Ecco, tornare a questo
sapere significa fare un passo indietro rispetto a quel momento della storia in
cui il pensiero moderno ha messo le basi per l’unilateralità e per la violenza
contro la natura che lo caratterizzano, e ritrovare un sapere simbolico che -
per usare una frase di Paul Ricoeur - "dà da pensare". Il simbolo dà da
pensare. Il simbolo non è qualcosa da cui si astrae un concetto, ma è
qualcosa su cui si lavora anche col pensiero per andare oltre, per superare
questo atteggiamento prometeico unilaterale della coscienza occidentale. Dunque
l’alchimia come sapienza, che superando questo atteggiamento prometeico
suggerisce, indica, dà da pensare un nuovo rapporto possibile tra gli esseri
umani e il mondo. Un prendersi cura del mondo nella sua materialità,
un’interazione cosciente volta alla perfezione di entrambi i soggetti di una
relazione, quella fra esseri umani e natura, che costituisce anche la nostra
realtà.
Dibattito
- [Pubblico] Quando parlava sul tema
della distillazione, dell’estrazione di un’essenza che in qualche modo supera
l’aspetto materiale, mi sembra che facesse emergere degli echi in un certo senso
heideggeriani. Nel pensiero di questo filosofo, il tema del disvelamento
del naturale prefigurava un finale positivo, una techne positiva, mentre
la lettura, l’approccio di tipo ecologico è di segno opposto. Nell’ars,
nella techne, nell’atteggiamento di non violenza degli alchimisti nei
confronti della natura mi sembra di sentire in fondo una sorta di insegnamento
attualizzabile.
- [Pereira] Sì! È il tema della
trasformazione possibile e delle modalità possibili per trasformare. Gli
alchimisti non sono sostenitori del ‘non intervento’, anzi sono sostenitori del
fatto che la coscienza, il possesso dell’intenzionalità dà all’essere umano la
possibilità, anzi l’obbligo in qualche modo di portare l’opera di perfezione al
suo compimento. Opera di perfezione che gli alchimisti, come Cristiani,
ovviamente vedono iniziata da Cristo, ma rimasta incompiuta, perché Cristo ha
redento il piano spirituale, le anime, mentre è rimasto da redimere tutto il
piano dei corpi e della materia. Dunque la tecnica come una possibilità
positiva; e del resto Ruggero Bacone, che è appunto un personaggio chiave per
capire gli sviluppi dell’alchimia fra il ‘200 e il ‘300, è convinto che le
tecniche, anche quelle che oggi a noi sembrano le più astruse e quelle che anche
ai suoi tempi venivano identificate con la magia e quindi con le arti
dell’Anticristo, possano e debbano essere utilizzate dai Cristiani nella loro
guerra contro l’Anticristo e per lo sviluppo morale dell’umanità. Bacone colloca
l’alchimia nel sesto livello della sua enciclopedia delle scienze, in quei tre
testi che dedica al Papa Clemente IV chiedendogli di intervenire per riformare
gli studi e, attraverso gli studi, la cristianità; al settimo livello cioè al
più alto quello a cui introducono le conquiste della scientia experimentalis
(tra le quali c’è l’alchimia), c’è la morale. Dunque c’è una enciclopedia delle
scienze che parte dal dato rivelato, dalla conoscenza biblica attraverso le
lingue, attraverso la matematica, l’ottica (perché rivela il la modalità
radiante in cui con cui tutte le realtà si influenzano l’una all’altra) e poi
appunto le scienze sperimentali. E dopo il completo possesso di tutte queste
scienze, l’apertura ad un ‘sogno tecnologico’ che per l’epoca medievale appare
incredibile (si potranno fare – scrive Bacone - navi che possono
scendere sotto l’acqua con degli uomini dentro, carri che si muovono da soli
ecc.): ma tutto questo ha come scopo il perfezionamento morale dell’umanità.
Questa pagina di Bacone è stata ripresa all’epoca del secondo Bacone, cioè nel
‘600, per dimostrare come si può dominare la natura. Ma all’epoca del primo
Bacone non c’era una volontà di dominare la natura: nei testi alchemici di
quest’epoca non c’è la parola né il concetto dl dominio, c’è piuttosto l’idea
dell’interagire, del portare a una perfezione che è della natura e
dell’artefice, dell’artefice e della natura. Non si può distinguere, a
quell’altezza cronologica, fra una alchimia spirituale e un’alchimia operativa.
L’alchimia operativa chiede e dà perfezione spirituale, la chiede come esigenza
iniziale e la conferisce come sapienza accresciuta alla fine; e viceversa il
vero sapiente non può poi che, in qualche modo, esplicare la sua sapienza
operando, quindi facendo. Insomma si può vedere l’alchimia oggi come ‘cibo per
il pensiero’, nel senso di materiali che permettano di immaginare, prima ancora
che per pensare altre modalità di intervento umano sulla natura. Le operazioni
che gli alchimisti facevano oggi non sono più un lavoro sull’ignoto: sappiamo
cosa vuol dire, distillare, conosciamo le formule chimiche delle sostanze, in
pratica chiunque ne abbia un minimo di voglia si può comprare l’attrezzatura, i
libri e impara e fa le quintessenze di tutto quanto con risultati mirabili, più
che ai tempi di Paracelso. Ma il problema dell’alchimia – quello che si
manifesta nel discorso della materia prima - significa sapersi mettere in
contatto con ciò che è ignoto, con ciò che è più oscuro dello scuro e saperci
stare in relazione, sapendo che quella relazione è fruttifera per l’umana
coscienza e per l’oscurità della materia . Questo appunto non è oggi traducibile
forse nelle tecniche che per gli alchimisti erano innovative e misteriose, ma è
certamente pensabile nel rapporto fra gli esseri umani e questa cosa misteriosa
che è lo strapotere che il nostro stesso operare ha assunto su di noi.
- [Pub.] Io volevo fare una piccola
provocazione, a questo punto, visto che l’operare può determinare dei
cambiamenti sia nella materia prima sia nell’operatore. Ho letto che certe
ricerche di alchimisti hanno portato a delle scoperte straordinarie,
eccezionali, scoperte che anche alchimisti più moderni hanno cercato di
ricreare. Qualche studioso riferisce - e lo riportano anche dei fisici - che
probabilmente qualche cosa è successo e presumibilmente questo qualche cosa è
successo grazie a un certo potere dell’operatore sulla materia. Questo
significa, in pratica, che in qualche modo la mente può determinare una
alterazione o comunque che il soggetto non può essere completamente fuori dal
fenomeno alchemico che riguarda la materia. La mia provocazione consiste in
questo: ci sono studi che hanno cercato di dimostrarlo? Anche nell’antichità,
ovviamente… E, se ci sono, che cosa è stato visto? Quali sostanze sono state
ottenute? Si parla di oro che non è oro ma che è simile a oro; potrebbe esserlo
ma non è proprio oro…
- [Per.] Credo di capire che l’autore a
cui ti riferisci è Titus Burkhardt. La sua posizione a me appare irritante,
ancor prima che provocatoria, perché non da’ modo di capire alcunché, né della
disposizione psicologica, né di cosa effettivamente stesse facendo, né di cosa
effettivamente ha visto accadere; e se mi dice che è cosa che si dice solo ad un
iniziato, allora io gli chiedo perché l’ha scritto in un libro che è
regolarmente in commercio. Il problema è questo. C’è almeno un autore che è
passato nella cultura latina in maniera abbastanza limitata come numero di
scritti, ma che ha influenzato per l’appunto Ruggero Bacone, nell’opera in cui
presenta la teoria dell’irraggiamento, il De multiplicatione Specierum,
che sembra avere dei fili abbastanza solidi di collegamento con il tema
dell’agente di perfezione che perfeziona. Questo autore noi lo conosciamo come
addirittura " il filosofo degli arabi ", Al Kindi, il cui sapere risulta essere
radicato nella sapienza orientale dei Sabei di Harran; egli sosteneva che gli
astri e anche i corpi elementari e qualunque sostanza emettono dei raggi e che
questi raggi sono il collegamento fra le sostanze (cause) e gli effetti che si
producono. E però, secondo Al Kindi, non c’è un legame di uno a uno, fra causa
ed effetto, ma ogni effetto è determinato da tutti i raggi che convergono su di
esso e ogni causa, ogni sostanza irradiante emana raggi da tutta la sua
sostanza, quindi in ogni direzione. Questo significa che tutta la realtà è
determinata, ma che questo determinismo è talmente complesso che non possiamo
conoscerlo: dunque il determinismo ontologico produce indeterminismo
epistemologico. Significa inoltre che il mago, colui che conosce questo modo di
agire, può modificare se stesso come centro emanante raggi e può in questo modo
modificare la realtà senza uscire dal determinismo naturale, senza introdurre
quindi un elemento estraneo, agendo all’interno della natura e secondo le sue
leggi. Dunque questo autore, che pensava e scriveva nel IX/X secolo, pensava in
termini di feed-back ...Ecco, se questo sia la stessa cosa che dice Burckhardt
non lo so. Personalmente mi irrita meno Al Kindi di Burckhardt. Questo però non
vuol dire che la modifica di se stesso sia una modifica ‘spirituale’ (nel senso
di ‘mentale’), cioè quello che si intende banalmente quando si parla del valore
spirituale o addirittura metaforico dell’alchimia, come se l’alchimia fosse una
pia favoletta per cui gli alchimisti parlano delle cose che fanno, ma
vengono interpretati come se le loro operazioni come se fossero pensieri,
immaginazioni o addirittura fantasticherie. Non è così: il mago che si
trasforma, per trasformare fa qualcosa di se stesso, con se stesso, che non è
limitato al pensare di far qualcosa, cioè agisce a un livello materiale, anche
se il livello materiale dei raggi è un livello materiale sottile, ovvero non la
materia densa, dei corpi concreti. Certo è che Ruggero Bacone prende l’avvio da
qui quando parla non mi escono più le parole di moltiplicazione delle specie.
Quando poi gli alchimisti parlano di moltiplicazione dell’elixir o della
perfezione indotta dall’elixir, forse si muovono ancora su quel piano. E questa
concezione di fondo la possiamo forse riconoscere in una pratica che ha qualche
radice nelle ricerche post-paracelsiane, e cioè nella medicina omeopatica, in
cui si ritiene che il farmaco agisca a partire dall’assottigliamento che
corrisponde ad una capacità di potenza, quindi a una capacità di azione più
profonda e tendenzialmente più risonante (non voglio dire più ampia perché più
ampia è un termine troppo ‘spaziale’ e concreto). Anche in questo caso si può
pensare che siamo in un ambito di discorso che è sempre un discorso sulla realtà
naturale, ma in cui la realtà naturale non è soltanto, appunto, tavole e sassi
cioè non è soltanto il concreto materiale
- [Pub.] È energia.
- [Per.] È un modello probabilmente
energetico, si!
- [Pub.] A proposito dell’alchimia al
tempo medievale, cui si riferiva, in letteratura ci sono diversi esempi. Volevo
sentire da lei, non so… Dante…
- [Per.] Dante definisce l’alchimia come
imitazione della natura, e dunque sembra stare dentro la visione duecentesca
dell’alchimia come formazione di metalli perfetti, di metalli nobili a partire
dai metalli vili; e anche sembra non particolarmente favorevole all’alchimia,
dato che mette all’inferno i due alchimisti (Divina Commedia, Inferno,
XXIX, vv. 118-120 Griffolino: "nell’ultima bolgia delle diece / me per
l’alchimia che nel mondo usai /dannò Minòs"; 133-139 Capocchio: "sì vedrai ch’io
son l’ombra di Capocchio, / che falsai li metalli con alchimia: / e te dee
ricordar, se ben t’adocchio,/ com’io fui di natura buona scimia"). Però poi c’è
tutto un filone di letteratura esoterica, che interpreta Dante e la Commedia
come un poema alchemico che appunto, secondo me, va nell’ordine dell’intendere
l’alchimia come metafora di qualcosa d’altro. Si possono trovare delle
utilizzazioni della terminologia alchemica: per esempio termini della
distillazione nei trovatori; questo mostra che l’alchimia era un sapere più
diffuso di quello che noi pensiamo fra il XII e il XIII secolo. Ci sono scambi:
la cultura dei trovatori si svolge in ambienti che sono un secolo dopo,
certamente propensi ad aprirsi all’alchimia. Per il XII secolo e la prima metà
del XIII sappiamo poco, ma per esempio ci sono certamente interessi alchemici
alla corte di Federico II.
- [Pub.] Mi veniva in mente di quando si
fanno riferimenti alle influenze delle pietre sull’uomo; è un discorso che si
può riferire all’alchimia?
- [Per.] Quello delle pietre è un
discorso che fa parte sempre della filosofia ermetica però non coinvolge il fare
umano. Le pietre semplicemente si incastonano, si portano addosso ...
- [Pub.] Però si polverizzavano.
- [Per.] E poi si possono anche
ingerire, sì, quindi c’è tutto un settore di medicina magica, talismani ecc. che
fa parte di tutto quell’insieme ermetico cui appartiene anche l’alchimia.
- [Pub.] Anche la perla…
- [Per.] La perla è un esempio
interessante.
- [Pub.] Si faceva farina.
- [Per.] Dentro l’alchimia pseudo
lulliana c’è probabilmente l’origine di quelle che sono le perle che oggi si
comprano noi per gioielli, le perle di Maiorca. Alcuni testi pseudo lulliani
insegnano come fare perle che hanno le stesse virtù delle perle naturali (perché
la perla ha virtù come farmaco magico ed è estremamente pregiata nella
farmacologia medievale). Dunque c’è come una zona di commistione fra gli usi
magico-medici e le preparazioni medico-alchemiche dove però si può distinguere,
vedendolo anche dal versante dei testi letterari, e riconoscere una visione
globale del mondo improntata a quello che appunto dicevo come unitarietà e
armonia di tutte le cose, in cui tutto risponde con tutto e dunque le pietre,
gli esseri umani, gli animali e le manipolazioni degli uni e degli altri; però
il discorso sulle pietre preziose non è ‘alchemico’ in senso stretto.
- [Pub.] Tutto il discorso sulla
scolastica e cioè su un linguaggio, una ricerca, una metodologia di progressiva
astrazione e quindi, in qualche modo, di una distillazione in cerca
dell’universale, è oggetto di critica in questo particolare periodo che tu hai
appena descritto. Fra l’altro, nelle immagini molto belle che ci hai fatto
vedere, la ricomposizione dell’uno - dove per ricomposizione dell’uno si intende
la coniunctio oppositorum - è evidente: argento e oro, la rosa dorata, i
semi d’oro e d’argento gettati nel terreno arato dal toro d’oro e d’argento ecc.
ecc. Il prodotto di questa unione riunisce in sé i due elementi. Mi veniva
spontaneo ricollegare il tentativo del francescano, sbattuto in faccia ad un
papa evidentemente indegno della sua tiara, all’immagine di Tobia che ritorna -
dopo un percorso alchemico, possiamo dire - per riaprire gli occhi al padre,
cioè per fargli ritrovare la giusta ottica sulle cose, se mi si permette la
metafora. Questo mi sembrava molto in contrapposizione… quasi come un voler far
ritrovare una vera sapienza a chi aveva fatto di una filosofia troppo
scotomizzante - e quindi in qualche modo distillatoria - la materia prima. Ecco,
come si conciliano queste immagini di aratura e semina, di questi semi doppi,
opposti, di questo sole e questa luna, di questo oro e questo argento? Sembra si
voglia nuovamente confondere queste cose, unirle, mentre il prodotto di una
distillazione, come processo, appare, per lo meno a prima vista, un qualcosa che
scotomizza, che tende a liberare impurità successive e quindi a scindere in
qualche modo gli elementi fra di loro.
- [Per.] La distillazione degli
alchimisti è un separare è uno scindere in vista del riunire. Come per seminare
l’oro e l’argento, questo prima non l’ho detto, bisogna averli dapprima
purificati, ottenuti nella loro forma pura: cioè il seme d’oro e il seme
d’argento non è un pezzetto d’oro o un pezzetto d’argento presi dalla miniera o
dalla sabbia, ma è l’oro e l’argento naturale purificato alchemicamente. Dunque
la distillazione alchemica è un processo di purificazione e di separazione per
la riunione per riunire. Ora dall’altra parte, io dubito che si possa definire
l’astrazione scolastica come distillazione. Astrarre il concetto dal fantasma,
estrarre la species tecnicamente dal fantasma non significa (penso a
Tommaso come esposizione esemplare), non significa propriamente prendere il
fantasma come qualcosa che c’è già. La struttura concettuale non c’è come tale,
non è come l’osso nella polpa che quindi io devo estrarre, ma è qualcosa che
l’intelletto agente, una delle due potenze razionali dell’anima intellettuale,
produce a partire dal fantasma; cioè che l’intelletto agente fa
trasformando la potenzialità dell’intelletto possibile in attualità del
concetto. Dunque c’è come una sostituzione a livello di conoscenza razionale di
ciò che è stato portato fino ad un determinato livello, quello appunto
dell’immaginario, a partire dal sensibile (l’oggetto sensibile colpisce il
senso, il quale recepisce ovviamente in maniera materiale perché è colpito
passivamente e poi trasmette al sensorio comune e alla fantasia, alla sede
dell’immaginazione in cui l’immagine è smaterializzata, ma questa ancora non è
l’astrazione, non è il concetto, è immagine del singolare). Il concetto è
qualcosa che viene costruito dall’intelletto agente a partire dallo stimolo
offerto dal fantasma di questo singolare, un qualcosa che mi permette di tornare
in maniera diversa all’oggetto. Cioè è un concetto universale, è un’attività
creativa quella dell’intelletto agente, non un’attività distillatoria. L’ultimo
prodotto che io ottengo e che Tommaso chiama il verbum interius, la
parola interiore, non ha più legame effettivo con l’oggetto, me lo rappresenta
ma non è derivato dall’oggetto.
- [Pub.] Caso mai contiene tutti gli
oggetti possibili.
- [Per.] Caso mai contiene tutti gli
oggetti possibili, ma li contiene in una maniera per cui non contiene nessun
oggetto non è in relazione di dipendenza da nessun oggetto. La distillazione che
fanno gli alchimisti, invece, è una separazione delle componenti della materia
che sono in ogni sostanza materiale data. Le cose sono composte
quantitativamente secondo un più e un meno, cioè formano dei composti che sono
instabili, che sono non perfettamente temperati; e l’alchimista separa queste
componenti e le ricompone secondo una proporzione che è quella del temperamento
perfetto, quindi dell’equilibrio. Per cui non toglie e non aggiunge, ma
rimescola, fa circolare - dice per esempio il Rupescissa - questa quintessenza
che si ottiene dalla distillazione. Nel testo classico sull’alchimia
distillatoria, il Liber de consideratione quintae essentiae di Giovanni
da Rupescissa, si insegna a mettere il vino, il prodotto di partenza in un vaso
chiuso ermeticamente. Il sigillo di Ermete (le nostre chiusure ermetiche
derivano in ultima istanza da esso) era un tipo particolare di amalgama, con il
quale si tappavano i vasi. Quindi si chiude in un vaso chiuso, sigillato
ermeticamente e lo si mette sul fuoco in modo che prima una parte si separi e
poi ricada sulla sostanza di sotto; poi si procede a separare la seconda
frazione – come diremmo oggi - e la terza e la quarta (corrispondenti ai quattro
elementi, terra, acqua, aria, fuoco). Questa circolazione si fa cento volte,
mille volte: i numeri sono come puramente indicativi, stanno per un numero
tendenzialmente infinito di volte e questo continuo circolare fa sì che il
prodotto che si ottiene alla fine che sia lo stesso materialmente di quello che
si aveva all’inizio, ma trasformato nella sua propria quintessenza. Cioè in
quella matrice della sua realtà elementare che a questo punto è splendent -
dice il Rupescissa, e aggiunge - è splendente di colore azzurrino e se a
quel punto tu apri il vaso, tu sentirai un profumo così meraviglioso che tutti
gli uccelli che svolazzano nei dintorni, accorreranno tutti lì dentro attratti
anche loro da questo profumo. Cioè è un prodotto che non ha più nulla del
prodotto materiale che era stato inserito all’inizio, eppure non è niente di
diverso da quello. Questo non è neanche lontanamente paragonabile al processo
dell’astrazione e della conoscenza per astrazione in Tommaso.
- [Pub.] Un’altra cosa. Nelle immagini
che si sono viste, il rapporto coi due poteri, quello temporale e quello
spirituale, è rappresentato in forma storico allegorica semplicemente oppure c’è
una differenza, per cui il potere temporale impersonato dall’imperatore ha, agli
occhi dell’alchimista, maggiori possibilità di incontro con l’opus, dato
che gli viene consegnato il volume - ancora una volta doppio, mezzo d’oro e
mezzo d’argento -, mentre il papa, con quell’orina quasi sbattuta sugli occhi,
sembra irrimediabilmente condannato a un tuffo nella materia prima?
- [Per.] È una domanda interessante. Nel
manoscritto io ho sempre letto le immagini come richiami a personaggi specifici,
anche perché per esempio rispetto al rapporto con il re c’è, sia la dedica del
Testamentum, sia la leggenda, sia un sacco di notizie storiche relative.
Quindi non mi sono mai chiesta in questi termini se, tendenzialmente
l’alchimista ha maggior feeling col potere non ecclesiastico. Di fatto è così,
storicamente è così, cioè fino nella modernità le corti, o almeno alcune corti,
si aprono alla ricerca alchemica, mentre invece la chiesa chiude con la condanna
di Giovanni XXII e poi dell’Inquisitore, dunque nel ‘300. Però è interessante
come elemento su cui pensare.
- [Pub.] In una delle immagini c’è una
figura con uno strumento musicale. Che cosa c’entra la musica nel processo
alchemico? È uno strumento di contatto con qualcosa di superiore?
- [Per.] Dicevo che quella è, che io
sappia, la prima raffigurazione, e del resto nella tradizione testuale medievale
non c’è cenno a questo. È un qualcosa in più che, anche in quell’immagine,
potrebbe essere semplicemente legato alla raffigurazione convenzionale di
Hermes, Mercurio, però certamente suggestivo della collocazione ermetica del
sapere alchemico. Ora c’è un testo dei primi decenni del ‘600, l’Atalanta
Fugens di un alchimista tedesco, Michael Maier, in cui per la prima volta la
corrispondenza di alchimia e musica è messa a tema. L’Atalanta Fugens è
costruito come una serie di motivi, di emblemi alchemici ai quali corrisponde
una serie di ‘fughe musicali, fughe nel senso tecnico della parola, che
illustrano anche nella forma il tema del titolo. Atalanta inseguita da Ippomene
fugge, lancia i pomi ecc. ecc. E questo viene preso come simbolo della ricerca
alchemica nel suo complesso: ogni punto, ogni stadio dell’opus ha quindi
una sua musica. Siamo però in piena epoca barocca, non ci sono riprese
successive di questo tema, rimane quest’exploit di Michael Maier neanche
particolarmente studiato o particolarmente compreso. Molto suggestivo ma niente
di più. Forse è oggi, cioè nell’ambito della ricerca artistica d’avanguardia che
questo tipo di suggestione qualche vola si è ripresentato. Però io qui mi
avventuro male perché conosco veramente poco di questo tipo di problematiche.
Storicamente, l’unica cosa che si può dire è che se c’è un legame, c’è un legame
nel nome di Hermes. Il testo di Maier a me fra l’altro dà anche l’impressione
certe volte che sia un testo da leggere con una doppia lettura: perché Atalanta,
che è poi raffigurata come la terra incinta potrebbe anche rappresentare una
critica che Maier fa agli alchimisti del suo tempo. Quindi onestamente non lo
so. È un tema sul quale ho visto pochissime ricerche. Ho interpellato qualche
amico musicologo ma ho ottenuto solo risposte vaghe relative a qualche
compositore contemporaneo. Ma nell’età contemporanea, dopo la ripresa di questi
temi col futurismo, quando sul piano della creazione artistica qualcuno teorizza
di riallacciarsi oppure di fatto si riallaccia a temi della tradizione
alchemica, questo assume un senso diverso dalla riflessione sull’alchimia come
fenomeno storico.
Da:
http://www.centroicone.it/aspetti.htm
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