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Mysterium
coniunctionis: C.G. Jung e l'alchimia (Carlo Alberto Cicali, Dario Squilloni,
Antonio Tirinato)
Introduzione
(Mauro Mugnai)
Come avevamo accennato la volta precedente, soltanto a partire dal XVIII secolo
l'Alchimia fu finalmente ritenuta degna di essere studiata e praticata al pari
di altre discipline.
Molti dei principi, delle idee, dei simboli alchemici furono assunti da altre
branche del sapere, come la medicina, la musica e la letteratura. Ancora oggi,
nonostante sia ritenuta estinta o comunque una pratica estremamente bizzarra, è
seguita da alcuni ricercatori. Grazie poi alla psicologia, e in modo particolare
a Carl Gustav Jung, si è compreso come il valore del suo patrimonio di
conoscenze non fosse effimero, ma può emanare ancora tutto il fascino di una
disciplina che racchiude in sé sia aspetti prettamente psichici o metafisici,
sia aspetti scientifici.
A partire dal XIV secolo l'alchimia assume, come dicevamo, anche un altro
aspetto: "l'Alchimia vera, l'Alchimia tradizionale - scrive André Savoret - è la
conoscenza delle leggi della vita nell'uomo e nella natura e la ricostruzione
del processo attraverso il quale questa vita, corrotta qui sulla terra dalla
caduta adamitica, ha perduto e può riacquistare la propria purezza".
Quindi un'opera di redenzione di tutto il creato, animale, vegetale e minerale
che l'uomo ha trascinato con sé nella sua corruzione. L'uomo può finalmente
rinascere con essa e attraverso di essa, riconquistando lo stato antecedente
alla trasgressione e alla caduta. L'Alchimista vuole realizzare, insomma, quel
sogno eterno dell'uomo: la possibilità di raggiungere l'Armonia Perfetta in ciò
che è in basso così come in ciò che è in alto, come prescrive la Tavola di
Smeraldo di Ermete Trismegisto. La possibilità, cioè, di reintegrare l'uomo
nella sua dignità primordiale.
L'uomo arcaico, come ho accennato precedentemente, modificando con il fuoco la
materia, si sostituiva in qualche modo alla Madre Terra (e al tempo), portatrice
dei minerali 'embrioni', o ne continuava l'Opera. L'Alchimista cominciò a
trattare la Materia come nei Misteri antichi è trattata la divinità. Il dramma
mistico del dio, che determinava nell'uomo l'immortalità attraverso l'esperienza
della morte e della resurrezione iniziatiche, viene proiettato sulla materia: le
sostanze minerali 'muoiono' e 'rinascono' a un altro modo di essere, sono, cioè,
'trasmutate'. Tale profonda intuizione ricorda e nasconde in sé l'antichissima
concezione della vitalità degli oggetti ed è omologabile ai diversi momenti del
ciclo vegetale, soprattutto alla morte e alla resurrezione dello "spirito del
grano", rinascita, cioè, in un nuovo stato dell'essere dopo la morte del seme.
Questo forse era il "segreto" tramandato oralmente durante le iniziazioni
Dionisiache e Orfiche. Concezione questa che nel tempo non si perduta, ma è
continuata nel Cristianesimo, anzi ne ha costituito una delle rivelazioni
fondamentali, perché "Cristo è il seme di grano che deve occultasi nella terra
per risorgere sotto forma di spiga". È la luce del sole che rinasce proprio nel
momento della sua massima discesa: il giorno solstiziale del Natale.
Per l'uomo arcaico che pensa in modo simbolico "un oggetto - scrive M. Eliade -
non è mai semplicemente se stesso (come accade invece per la coscienza moderna),
è anche segno o ricettacolo di qualcos'altro, di una realtà che trascende il
livello d'essere dell'oggetto". Per l'uomo primitivo non solo 'il pane e il
vino' determinavano una 'comunione' con la divinità, ma ogni atto, ogni
attività, ogni oggetto aveva un significato anche religioso e mistico, e tutto
veniva fatto in sua funzione. "[...] Il campo arato è qualcosa di più di un
pezzo di terra, è anche il corpo della Terra Madre; la vanga è un fallo, senza
cessare di essere un utensile agricolo; l'aratura [...] un'unione sessuale
diretta alla fecondazione ierogamica della Terra Madre."
Vi furono, tuttavia, nel corso della storia umana momenti in cui certe
intuizioni fondamentali non hanno determinato una maturazione della coscienza,
né nuove analogie tra diversi livelli di realtà come era avvenuto fino al XIV
secolo, ma condussero a una concezione arida del Cosmo e della vita, resero
incomprensibile il simbolismo delle Culture Tradizionali, distorsero i princìpi
metafisici. Fu durante parte del Rinascimento e soprattutto durante
l'Illuminismo che tale diversa concezione cominciò a introdursi nella coscienza
occidentale. Si cominciò a perdere il significato mistico di omologia
Cielo-Terra. Si svilupparono teorie materialistiche, e l'uomo non si sentì
più parte dell'universo legato ad esso da vincoli magici, particella
dell'Universo, collaboratore felice dell'Opera Divina, ma ricercatore
razionalista di una causa e di un effetto! Le esperienze antiche e tutto un
sistema di simboli divennero inaccessibili e incomprensibili, ma senza
scomparire del tutto, esse rimasero bagaglio culturale di pochi iniziati che
mantennero vivo un contatto, se pur esile, con l'antica sapienza. Ormai però la
cultura cosiddetta "ufficiale" non riconosceva più i suoi ideali metafisici, o
meglio non riusciva più a ritrovarli né a riconoscerli.
Per l'uomo moderno, che ha desacralizzato il Cosmo, è impossibile sperimentare
il Sacro nelle sue relazioni con la materia (e il reale che sta intorno) che
comunque per l'antico era espressione del divino.
A questo proposito vi vorrei esporre un'esperienza fatta da C. G. Jung che lo
impressionò molto. Jung racconta, in una sua pubblicazione, di un suo viaggio
all'inizio del 1925 che lo portò tra il popolo dei Pueblos del Nuovo Messico.
Jung aveva stretto amicizia con un capo dei Taos Pueblos. Il capo, che si
chiamava Lago Montano, gli confessò che non comprendeva l'Uomo Bianco, anzi lo
riteneva pazzo perché "pensa nella testa invece che nel cuore".
Un giorno, parlando dei "Bianchi Americani", il capo Lago Montano disse: "Gli
americani vogliono cancellare la nostra religione. Ma perché non ci lasciano in
pace? Ciò che noi facciamo, non lo facciamo solo per noi, ma anche a beneficio
degli americani, anzi del mondo intero, perché ognuno ne trae vantaggio. I
Pueblos sono un popolo che vive sul tetto del mondo e pertanto vicinissimo alla
divinità e al Cielo e che quindi sono più di ogni altro i figli di Padre Sole e
con la nostra religione ogni giorno noi aiutiamo nostro Padre a percorrere il
Cielo. E questo lo facciamo non soltanto per noi, ma per il mondo intero. Se
cessassimo di praticare la nostra religione nel giro di dieci giorni il Sole
cesserebbe di levarsi e la notte regnerebbe eterna".
Da questo credo sia facile comprendere, per tutti come lo fu per Jung, quali
fossero i fondamenti della dignità dei Pueblos. Essi si consideravano i figli
del Sole. La loro vita era cosmologicamente significativa, come nell'uomo
arcaico, perché aiutavano il Padre e il Conservatore di ogni vita nella sua
quotidiana ascesa e discesa. Essi si ritenevano parte integrante indispensabile
del dinamismo cosmico. Ed è per ritrovare questa dignità, penso io, che
l'Alchimista ricercava il dominio delle Leggi della Natura, ma anche del SE, e
la trasformazione dell'uomo come qualsiasi altro elemento.
Scrive un Alchimista: "L'alchimia è il
segreto di riuscire a fissare il Sole che si trova nel Cielo della nostra
persona, così che possa illuminarla all'interno e inondare con il principio
della luce stessa i nostri corpi".
L'enorme energia presente nel processo alchemico sembra catturare letteralmente
l'alchimista trasportandolo, coscientemente o incoscientemente, in diversi stati
del reale, in una alterazione della coscienza tale che la nascita, la morte e la
resurrezione si realizzano nella materia e contemporaneamente, quasi fosse la
materia stessa, nell'operatore, per un fenomeno di simbiosi molto difficile da
spiegare e da capire se non psicologicamente. "La perturbazione dell'equilibrio
logico della coscienza profana dello stato di veglia - scrive René Alleau -
sembra dunque costituire il principio didattico dell'Alchimia", come
testimoniano molti alchimisti con le loro esperienze interiori e soprattutto con
l'esistenza in Oriente di un metodo iniziatico analogo a quello dell'Alchimia,
il buddismo Zen.
L'illuminazione ("l'apertura del satori"), è raggiunta, ugualmente al metodo
alchemico occidentale, al termine di una lotta interiore estremamente aspra e di
un esaurimento totale delle contraddizioni logiche. Questo accostamento è
particolarmente interessante, perché l'alchimia occidentale non potrebbe essere
studiata completamente senza un riferimento all'alchimia cinese e Zen, cioè
l'Alchimia Taoista, come aveva intuito anche Jung. L'alchimista quindi, almeno
dal XIV secolo, sia in Occidente sia in Oriente agiva su se stesso, sul proprio
corpo, sulla propria psiche e sulla propria esistenza spirituale. Egli operava
sui minerali per risvegliare se stesso, per entrare in possesso delle potenze
divine sopite nel suo corpo, accedendo ad esperienze iniziatiche che, con il
progredire dell'"Opera", gli "forgiano" un'altra personalità. Questo è il
significato, tanto caro agli Alchimisti, del termine "vitriol" coniato da
Basilio Valentino (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum
Lapidem), "Visita le profondità della Terra e attraverso la purificazione
troverai la Pietra Segreta".
Ma
esiste un altro simbolismo ancora più sconcertante. Esso rappresenta, secondo
un'interpretazione psicologica, la Matrice dalla quale è nato Gesù Cristo.
Scrive Jung: "Se l'alchimista fosse stato in grado di rappresentarsi i suoi
contenuti inconsci, avrebbe per forza capito che lui stesso si era messo al
posto di Cristo o meglio, per esprimerci più esattamente, che non lui in quanto
Io, ma in quanto Sé, si era, come Cristo, assunto il compito di realizzare
l'"Opus", non per redimere l'uomo ma per redimere il Dio. E non solo avrebbe
visto in sé l'analogo di Cristo, ma avrebbe dovuto riconoscere in Cristo il
simbolo del Sé. Questa immane conclusione - prosegue Jung - rimase preclusa allo
spirito medievale. Per lo spirito delle Upanishad è autoevidente ciò che
all'europeo cristiano sembra una vera follia. L'uomo moderno può quindi
considerarsi quasi fortunato se il suo impoverimento spirituale, al momento
dello scontro col pensiero e con l'esperienza orientali, è arrivato a un punto
tale ch'egli non nota nemmeno con che cosa s'è scontrato. Adesso egli può
confrontarsi con l'Oriente sul piano completamente inadeguato e quindi innocuo
dell'intelletto, e lasciare che sia lo specialista di sanscrito a occuparsi di
queste faccende".
L'Alchimista, quindi, tende a restituire ad una parte dell'Universo e a se
stesso la dignità propria di Adamo e della Natura prima della Caduta, la dignità
del popolo dei Pueblos, organizza uno spazio in cui la storia si dissolve e
rende conto della totalità del mondo creato, esprimendo così la divinità,
secondo un testo alchemico del XII secolo ripreso da Rabelais nel suo "Gargantua
e Pantagruele" e poi anche da Jung: "Dio è una sfera infinita e intelligibile il
cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo".
Dario Squilloni
Vi
ringrazio per questa introduzione che mi permette di evitare una serie di
preliminari e alla quale vorrei riallacciarmi riprendendo il confronto fra
alchimia e psicologia, a partire dalla forte affermazione, enunciata da Michela
Pereira la scorsa settimana, la quale ha giustapposto il percorso alchemico
in quanto filosofia, in quanto sedicente filosofia, alla filosofia
scolastica del periodo da lei analizzato.
Dal discorso della Pereira risultava evidente come queste due "filosofie" si
contrapponevano proprio rispetto al lavoro, al lavoro che ciascuna di
queste due metodologie operava. Lavoro eminentemente speculativo quello della
filosofia scolastica, invece opus quello alchemico. Proprio dall’opus
vorrei partire premettendo alcuni cenni storici sulla psicanalisi e sul termine
"simbolo", che possono aiutarci a capire come si è generato l’interesse di Jung
verso l’alchimia.
In piena epoca razionalista Freud è il primo ad accorgersi che le cose non hanno
solo il significato che noi gli attribuiamo. La sua intuizione rappresenta un
nuovo, moderno ritorno alla percezione di uno spessore, di un significato
ulteriore nelle cose, negli eventi, nelle manifestazioni che ci circondano.
Parlando della ricerca psicologica di Freud e Jung, un aspetto importante, che
spesso viene dimenticato, risiede nel fatto che il terreno del quale i due
studiosi si occupano e nel quale si muovono è quello della salute psichica del
paziente: le loro ricerche quindi partono, non lo si sottolinea mai abbastanza,
dalla prassi terapeutica, da una "pratica". Ecco, questo forse è il primo
importante elemento che li accomuna in qualche modo agli alchimisti. Le loro
considerazioni non sono affatto speculative, soprattutto ai loro esordi, ma
partono dall’esigenza di intervenire nella realtà concreta... la realtà
patologica come era allora definita, come a tutt’oggi da alcuni viene ancora
definita, delle persone danneggiate psicologicamente.
Come è noto Freud si accorse, nei primi casi da lui trattati, che una serie di
atteggiamenti, comportamenti strani, sintomatologie di vario genere, che
apparentemente non avevano niente a che vedere con le manifestazioni di disagio
del paziente, non solo non erano casuali, ma si interponevano come una
serie di "maschere" che celavano un significato nascosto, un evento traumatico a
monte della manifestazione patologica. Attraversando a ritroso la successione di
"veli", di figure distorte dell’evento originario, si poteva arrivare al
"nocciolo" del problema, alla "causa" che, una volta riportata alla luce,
riconsegnata alla coscienza del soggetto, produceva la scomparsa del disturbo.
Ecco quindi che l’"apparenza" di un evento, l’apparenza, anzi, l’apparente
mancanza di significato di un evento, nella lettura di Freud rivela invece
la presenza addirittura di sequenze di significati; anche se ancora si
tratta di significati di eventi che vengono intesi meramente come "sintomi" e
come "maschere". Intendo dire, seguendo Freud, che se dietro una certa
manifestazione, un atteggiamento isterico, uno svenimento, un lapsus o i
materiali onirici, è possibile risalire al vero motivo del disagio ripercorrendo
all’indietro una sequenza di immagini sovrapposte una sopra l’altra, ciò
significa considerare queste immagini appunto come delle "maschere", cioè
essenzialmente come distorsioni del significato originale. Questo metodo è stato
definito indiziario, un metodo alla Sherlock Holmes, che risaliva una
catena di "indizi", di "segni", fino a trovare il colpevole, la "causa".
Il metodo indiziario ha rappresentato nell’epoca contemporanea un primo
tentativo di percezione di un’ulteriorità di significato rispetto alla semplice
evidenza delle cose.
Jung va ben oltre. Allievo ed erede designato di Freud, ad un certo punto si
rende conto, nella sua esperienza di psicoterapeuta a contatto soprattutto con i
contenuti onirici dell’inconscio, che le immagini che si presentano nei sogni
dei pazienti non sempre, anzi raramente, sono riducibili a una sequela di
maschere i cui significati riconducono sì, a volte, a un nucleo problematico
originario, ma più spesso non vengono, attraverso questo tipo di lavoro
indiziario, assolutamente comprese. Spesso la sintomatologia non scompare e la
persona non guarisce, dimostrando l’insufficenza di questo approccio.
Jung si accorge inoltre che certe immagini "fondamentali" ricorrono spesso ...
le denominerà archetipi, cioè forme originarie che definiscono strutture
psicologiche alle base dello sviluppo dell’essere umano come specie,
indipendentemente, secondo Jung, da una trasmissione diretta, orizzontale,
storica di questi processi... Immagini, cioè, che possono sorgere e che si
ritrovano in tutte le culture, in tempi e luoghi così diversi per le quali
risulta difficilissimo o addirittura impossibile stabilire l’esistenza di un
avvenuto contatto fisico. Quindi strutture veramente originarie e precipue della
psiche dell’uomo in generale, che sono, per così dire, dei modelli "a priori" in
base ai quali si esprimerà la fantasia e l’immaginazione, la produzione
psichica, degli uomini nelle varie epoche e società di appartenenza.
L’archetipo è un’immagine:
pensate per esempio all’archetipo della quadripartizione, l’archetipo del
cerchio, l’archetipo della croce, che rappresentano l’essenza simbolica
"potenziale" di qualcosa che successivamente, a livello immaginario, si potrà
manifestare nelle migliaia di modalità possibili a seconda delle società e dei
diversi contesti culturali.
Secondo Jung si tratta di immagini che
l’uomo eredita alla nascita: qui risiede l’altra grande differenza da
Freud che vale la pena sottolineare, poiché tutto il lavoro freudiano di
svelamento delle maschere porta al ritrovamento della causa di un dramma che,
per Freud, il soggetto ha esperito in vita. Il percorso di Freud o
perlomeno del primo Freud, viene giocato rigorosamente all’interno dei confini
di quello che viene definito l’inconscio personale, cioè il luogo
dove il soggetto conserva le immagini di una serie di esperienze, eventi,
attività, comportamenti rimossi, che il soggetto stesso ha potuto però acquisire
solo dopo il momento in cui è nato o al massimo, (questa datazione viene,
dalle più recenti ricerche, spostata sempre più all’indietro), come percezione
del feto nella vita intrauterina. In ogni caso la formazione dell’inconscio non
sfugge al contesto storico-temporale come unico luogo dell’esperienza psichica.
Diversamente, per Jung, così come ereditiamo biologicamente, per esempio, i
caratteri somatici, così, anche sul piano psichico, arriviamo al mondo già
costellati da elementi psichici ereditati che possono provenire, risalendo la
catena filogenetica, fino ai primordi della specie. Dentro di noi, secondo Jung,
portiamo tracce della psiche primordiale, addirittura della sua condizione
pre-umana. Strutture estremamente arcaiche, quindi fondamenti, pilastri di base,
su cui poi si è sviluppata la complessità della psiche ulteriore.
Questo tipo di constatazione porta Jung ad ampliare notevolmente il significato
di "segno" termine col quale lo studioso svizzero definì il sintomo, l’immagine
sintomatica studiata da Freud. Il segno infatti è qualcosa che sta al posto di
qual cos’altro, ad esempio un nome che sta al posto di una strada, qualcosa che,
per qualche motivo, viene impiegato (consciamente o inconsciamente), per
sostituire l’immagine reale. Nei sogni, secondo Freud, si manifestano, per così
dire, sotto mentite spoglie, contenuti della psiche la cui percezione, per la
loro sgradevolezza, l’Io del soggetto non è in grado di recepire direttamente;
il contenuto può superare la "censura" dell’Io solo "mascherato". Una corretta
interpretazione della catena di maschere, cioè di segni, rimanda, come abbiamo
detto, alla causa originaria: non diversamente dal "sintomo" dell’emicrania che
rimanda alla "causa", l’indigestione della sera prima.
Il simbolo per Jung è invece qualcosa di più ampio di un segno. Pur mantanendo
in pieno la funzione di sintomo, di segnale, rappresenta però anche qualcosa di
"vivo", cioè non semplicemente qualcosa che sta al posto di qual cos’altro, ma
che porta in sé contenuti potenziali che potranno dare luogo a forme evolutive
del tutto nuove. In ciò, per Jung, risiede la potenza della funzione simbolica,
nel fatto cioè che un simbolo è un produttore di sgnificati inediti, e non solo
una maschera per significati già noti.
Qui si consuma la separazione definitiva
fra Freud e Jung, perchè da questo momento in poi Jung considererà tutto il
materiale psicologico, soprattutto il materiale onirico, come qualcosa di molto
diverso da un materiale sul quale intervenire in maniera oggettivante. Ed è qui
che il nostro discorso può riallacciarsi alla divaricazione fra scienza e
opus alchemico, tracciata l’altra volta da Michela Pereira. Jung si avvicina
al materiale onirico come l’alchimista alla "prima materia". Il lavoro su un
sogno non può limitarsi alla sua "spiegazione",in quanto un sogno può contenere
elementi di novità che non riguardano contenuti rimossi di esperienze coscenti
del sognatore, ma che provengono dagli strati profondi della psiche e non sono
ancora mai emersi al livello coscente. Per Jung l’inconscio non è solo un
deposito dove vengono conservate tutte le cose rimosse, le cose che l’Io non è
in grado di trattenere nel campo limitato della propria coscienza, ma è anche e
soprattutto la fonte e l’origine di tutte le nostre possibilità creative. Un
tale materiale va trattato in maniera diversa da un occhio meramente analitico,
scientifico, che tende semplicemente a ridurlo alla somma algebrica degli
elementi di cui è composto. L’opus alchemicus e il comportamento dell’alchimista
che è quello, appunto, di lavorare la materia, di mescolare le proprie mani
dentro la materia, sono in stretto parallelismo con il lavoro della Psicologia
Analitica e con l’atteggiamento analitico elaborato da Jung nei confronti delle
persone che ricorrono all’analisi per guarire dai propri disturbi psichici.
Sinteticamente possiamo dire che, dal momento in cui una persona entra in
analisi, non deve essere, secondo Jung, esaminata attraverso l’applicazione di
una serie di "griglie esperienziali precostituite", con le quali è possibile
"sezionare" questa persona e i materiali che porta nel setting come se fossero
"oggetto" di ricerca. Niente di tutto questo. Per Jung, questa persona, come
quella successiva o quella precedente, sono dei casi "unici", totalmente a sè
stanti che non possono essere più che tanto valutati in base all’esperienza
passata e alle teorie precedentemente elaborate... nel trattare l’incontro, la
cosa più importante da considerare è che il lavoro che avverrà con questa
persona non è già noto all’analista. L’analista deve trattare materiale
psichico, è non può comportarsi come farebbe un medico con il fisico di una
persona. Il medico chiede la sintomatologia, ausculta, visita e dà una diagnosi
in base a quelle che sono le sue conoscenze. Per Jung, quando si viene a
contatto con la psiche la questione deve essere posta in maniera diversa, poichè
i contenuti che una persona porta in analisi sono per la maggior parte contenuti
che ancora devono manifestarsi. Sono contenuti potenziali e quindi ignoti. Se
venissero sottoposti ad una griglia già nota verrebbe a perdersi proprio gli
elementi di vitalità e di novità che possono scaturire da una manifestazione
della psiche.
Se ripensiamo a ciò che ha detto Michela Pereira sull’opus dell’alchimista, da
lei illustrato attraverso la lettura di una bellissima sequenza di immagini
simboliche dell’epoca, ci accorgiamo di molti punti di contatto con quanto
stiamo dicendo. L’alchimista, infatti, criticava la filosofia scolastica proprio
per la sua ricerca spasmodica di universali che potessero contenere tutti
gli oggetti esistenti e quindi essere dei modelli astratti, tali da poter dare
sempre risposta alle esigenze esistenziali vecchie e nuove. L’alchimista si
muove in maniera molto diversa. L’alchimista non si astrae, anzi si immerge,
potremmo dire si coinvolge con la materia trattata e in questa differenza di
atteggiamento fra scolastici e alchimisti possiamo riconoscere un parallelismo
con la più importante differenza fra l’atteggiamento di Freud e quello di Jung
relativo ad uno degli eventi più significativi del processo analitico: il
fenomeno del "transfert".
Freud si accorse molto presto che durante il rapporto analitico si verificava un
fenomeno caratterizzato dalla proiezione massiccia di quantità affettive da
parte del paziente sull’analista: dal punto di vista di Freud ma soprattutto dal
punto di vista del contesto culturale dell’epoca, questo evento veniva
considerato una vera e propria interferenza nel rapporto di cura della
patologia, perchè creava tutta una serie di atmosfere spiacevolmente ambigue,
umbratili, difficilmente comprensibili, che tendevano a coinvolgere
l’analista
in prima persona in una atmosfera che, per usare un termine alchemico, potremmo
definire una vera e propria nigredo. E’ proprio sul modo di porsi nei
confronti di un tale coinvolgimento che, a mio parere, si evidenzia la profonda
differenza fra l’atteggiamento analitico di Freud e quello di Jung. Infatti, la
tecnica freudiana si costituisce come un tentativo sistematico di tenere a
distanza, di oggettivare la persona che va in analisi, con i suoi
contenuti e le sue proiezioni. Secondo Jung il coinvolgimento dell’analista,
laddove si produce un transfert, è invece inevitabile, poiché questo
fenomeno si manifesta là dove è in fieri la possibilità di un profondo
processo di rinnovamento e di trasformazione. Appunto un opus verso il
Sé, verso l’individuazione. Là dove questo avviene sarebbe, secondo Jung,
insufficiente per l’analista porsi su di un piano di distacco perchè ciò
vanificherebbe, respingendole, la manifestazione delle potenzialità dei
contenuti che vengono proiettati su di lui. L’analista naturalmente, per poter
coinvolgersi un qualche modo, deve avere una coscienza, una consapevolezza di
sé, che gli proviene dal percorso analitico personale e dalla sua esperienza di
analista, tale da consentirgli di essere coinvolto e allo stesso tempo non
sopraffatto dal clima di proiezione affettiva che entra in ballo nel rapporto.
Questo è l’altro elemento fondamentale. Ciò che entra in gioco per l’analista,
sul piano psicologico, (ciò che Jung ha pensato sia entrato profondamente in
gioco anche per l’alchimista, anche se l’alchimista, soprattutto quello dei
primi secoli del secondo millennio, cercava l’oro, o il lapis philosophorum,
e probabilmente non era consapevole di compiere, attraverso l’opus, anche un
percorso psicologico personale), ciò che prepotentemente entra in ballo è l’energia
affettiva. Quindi, non si tratta solo di modalità comportamentali, di
funzioni psicologiche, ma stiamo parlando anche di energia, cioè del propulsore
che muove queste strutture. Questo propulsore crea disagio al soggetto nella
misura in cui rimane fissato ad immagini originarie, in genere quelle
genitoriali, impedendo il decorso evolutivo. Altro importante parallelismo con
una serie di immagini che con l’alchimia hanno molto a che vedere,
fondamentalmente caratterizzate da l’aspetto incestuoso. Lo stesso fenomeno del
transfert nei confronti dell’analista, è caratterizzato da una forte affettività
infantile che l’analizzando ripropone a partire dalla sua antica esperienza
affettiva giocata nel rapporto con i propri genitori, generalmente con il
genitore del sesso opposto. Questa proiezione crea un’atmosfera di forte
ambiguità alla quale però l’analista, secondo Jung, non deve sottrarsi,
nonostante si generi in questo modo una zona di nigredo vera e propria,
cioè una zona nella quale ci muoviamo a tentoni perchè ben poco di ciò che sta
accadendo è visibile nel vero senso della parola. Fondamentalmente ciò
che accade è qualcosa che ci coinvolge profondamente sul piano inconscio.
Per quanto riguarda la prima parte del lavoro analitico, mi limiterò a questa
fase, potremmo dire di "accettazione del transfert" che, in rapporto
all’alchimia, possiamo definire come la fase della nigredo la quale non
è, come Jung osserva, necessariamente la prima fase del processo individuativo.
Infatti, per arrivare alla nigredo, vale a dire a questo coinvolgimento (cioè ad
una forma di rapporto che non è più quella fra soggetto e oggetto, ma fra
soggetto e soggetto), bisogna per l’appunto aver superato
quell’atteggiamento di difesa che Michela Pereira ha descritto nella
giustapposizione fra l’opus alchemicus e la filosofia scolastica, e che noi
possiamo vedere sul piano della storia della psicanalisi giustapponendo, in
maniera forse un po’ troppo riduttiva ma funzionale al nostro discorso, Freud e
Jung. È fondamentale superare quell’atteggiamento di rigidità che
automaticamente ci costringe in una posizione difensiva rispetto alla proiezione
dei materiali inconsci dell’altro che tenta con tutte le sue forze di
coinvolgerci affettivamente. E va sottolineato che l’epoca contemporanea,
soprattutto dal 1800 in poi, ha elaborato, a questo scopo difensivo, strumenti
raffinatissimi di oggettivazione. Tutta la scienza ne è un esempio, così anche
una parte della tecnica freudiana.
Per
arrivare alla nigredo bisogna quindi anzitutto superare questa prima barriera
protettiva costituita dalle nostre griglie teoriche, il che non vuol dire
rinunciare a utilizzarle, vuol dire semplicemente che dobbiamo smettere di
ridurre ciò che incontriamo a ciò che già conosciamo. Se riusciamo a sospendere
per un attimo l’attività razionalizzante e pre-giudicante, allora consentiamo
l’espressione di questo primo "magma" indifferenziato di contenuti, in cui le
massicce proiezioni dell’uno costellano gli stessi contenuti inconsci anche
nell’analista. Contenuti inconsci, quelli dell’analista, che sono probabilmente
più elaborati ma non per questo meno pervasi di affettività. Ecco, in questa
fase di nigredo viviamo in un’atmosfera nella quale siamo mossi da sentimenti,
pensieri, atteggiamenti ecc., di cui ignoriamo il vero scopo, il vero
significato, e che percepiamo come estremamente destabilizzante. La stessa cosa
probabilmente percepiva l’alchimista quando dal magma della prima materia
si enucleava la figura di Mercurio, l’elemento sfuggente e diabolicamente
destabilizzante, destrutturante. La nigredo opera uno stato di vera e propria
"possessione" da parte di contenuti che solo successivamente, a volte molto più
tardi, si renderanno palesi alla coscienza del soggetto.
Jung dà un esempio autobiografico di questo stato che gli viene preannunziato
dall’inconscio attraverso un sogno, in un periodo della vita in cui ancora
ignorava il suo interesse per l’alchimia. Nei primi anni di ricerca, prima di
arrivare al periodo in cui si porrà direttamente a confronto con i propri
materiali inconsci, Jung si dedica allo studio delle religioni, poi soprattutto
allo studio della filosofia ermetica. L’alchimia ancora, siamo negli anni
‘20-’30, non ha quello spazio che successivamente tanto caratterizzerà i suoi
studi. Iniziò comunque a leggere qualcosa della materia e poi, a un certo punto,
ebbe questo sogno:
" Fu nel 1926 che feci il sogno fondamentale che anticipò il mio incontro con
l’alchimia. Ero nel sud-Tirolo, in tempo di guerra, mi trovavo sul fronte
italiano e rientravo dalle prime linee con un piccolo uomo, un contadino, sul
suo carro tirato da un cavallo. Dovevamo attraversare un ponte e poi passare
attraverso un tunnel la cui volta era stata parzialmente distrutta dalle
granate. Arrivando alla fine del tunnel, vedevamo dinanzi a noi un paesaggio
soleggiato e riconoscevamo la regione veronese. La città era ai miei piedi,
radiosa alla luce del sole, ne provavo sollievo ed avanzavamo nella verde
fertile pianura lombarda. La strada portava attraverso un’incantevole campagna
primaverile e vedevamo i campi di riso, gli olivi, le vigne. Poi lungo la
strada, diagonalmente, vedemmo un grande edificio, un castello di grandi
proporzioni piuttosto simile a un palazzo ducale dell’alta Italia. Era un tipico
maniero con molte dipendenze e costruzioni laterali. Proprio come al Louvre, la
strada passava davanti al castello attraverso una grande corte. Io e il piccolo
contadino giungevamo a un portone e da qui potevamo vedere di nuovo attraverso
un secondo portone all’estremo opposto, il paesaggio soleggiato. Mi guardavo
intorno, alla mia destra era la facciata del maniero, alla mia sinistra le
stanze della servitù, le stalle, i granai ed altri edifici minori allineati.
Appena giungevamo nel bel mezzo della corte, dirimpetto all’entrata principale,
avveniva qualcosa che non ci aspettavamo. Con un sordo fragore tutti e due i
portoni si chiudevano, il contadino balzava da cassetta ed esclamava: "ora siamo
prigionieri del secolo 17°". Rassegnato ho pensato: "già è così, ma che cosa si
deve fare? Ora saremo prigionieri per anni". Poi mi veniva un pensiero
consolante: un giorno, dopo anni, sarò di nuovo fuori".
Nei mesi successivi, Jung si sforzò, senza successo, di capire cosa volesse
dire questo sogno finché, due anni dopo, il suo amico Richard Wilhelm gli inviò
il "Fiore d’oro", un importante testo di alchimia cinese, di cui successivamente
stilerà un commento, e cominciò ad interessarsi all’alchimia, procurandosi
alcuni testi, fra cui un volume del 1593, l’Artis Auriferae. Fu solo dopo altri
due anni che, meditando le immagini di questo testo che lo affascinavano
completamente, ricordò il sogno del castello e si rese conto di quello che poi
aveva detto nel sogno: "ora saremo prigionieri per anni" (in fondo così è stato
perchè il suo lavoro attorno all’opus alchemico è stato più che ventennale).
Questo sogno, senza lasciarsi andare ad
un tentativo di superficiale interpretazione, rappresenta però senza dubbio un
tipico esempio di percorso alchemico dell’inconscio. C’è un conflitto iniziale,
infatti siamo in tempo di guerra, c’è un tunnel da superare, immagine che
rappresenta generalmente l’uscita da una situazione e l’ingresso in un’altra...
e al di là del tunnel c’è una Shan-gri-là rappresentata in questo caso dalla
pianura veronese con la città sullo sfondo, e poi un maniero. Come a dire che in
ciò che inizialmente è conflittuale, risiede anche la possibilità di accedere ad
un luogo di serenità e amenità. È l’inconscio che incita l’Io di Jung a fare
attenzione a questo contenuto potenziale di grande ricchezza. Un aspetto
interiore dedicandosi al quale (percorrendo le campagne piene di sole che ha
sognato) Jung acquisterà alla propria coscienza tutta l’energia positiva che lo
costella. Questo è un tipico esempio di come funziona un "processo alchemico
dell’inconscio", che può prodursi solo a patto di "metterci le mani", a patto di
coinvolgersi in esso. Limitarsi a interpretare il sogno e capirne il significato
non è sufficiente: è necessario invece praticare, fare l’esperienza,
portare avanti il lavoro sul sogno.
A cosa serve tutto questo? Serve a
trasformare la direzione circolare e ingorgata dell’energia: quella stessa
energia che girando su se stessa provoca quei disagi che spingono le persone da
Jung e da Freud, quella stessa energia che produce sintomatologie a volte
gravissime, si libera, attraverso questo tipo di lavoro, attraverso l’opus,
dai legami dei modelli ereditari, si sottrae alla co-azione a ripetere,
si differenzia da tutto ciò che l’ambiente impone con la sua forte opzione
omologante penalizzando la novità dell’avventura individuale. Jung ha chiamato
il processo alchemico psicologico, processo di individuazione proprio
perchè tende ad individuare la specificità di ciascuno noi, a rendere giustizia,
se così vogliamo, e possibilità di espressione a quelle parti di noi che
all’interno di un contesto collettivo vengono generalmente penalizzate.
Là dove questi contenuti inconsci hanno una consistenza e una rilevanza tale da
non poter essere ignorate dall’Io perché, ancorché rimossi, interpellano l’Io
attraverso la sintomatologia, se l’Io da loro spazio di ascolto e si coinvolge
in percorso elaborativo, diventano appannaggio dell’individuo e, attraverso la
loro integrazione alla coscienza, l’individuo può esprimere la propria
specifica, singolare creatività.
Questo, come lo vede Jung, è il percorso
verso il Sè, il percorso verso l’individuazione.
Antonio Tirinato
Il tema dell’individuazione e
dell’unione interiore è l’elemento portante anche del mio intervento. Questo si
svolgerà esaminando un modello umano composto da vari piani: un piano mentale,
un piano psichico e un piano spirituale.
Il piano mentale o psicologico, è il piano che l’uomo comunemente usa nelle sue
relazioni, è il livello causale della coscienza ordinaria. Il piano psichico è
il piano delle relazioni acausali, delle percezioni intuitive, dove abitano le
immagini interne dell’individuo e dove risiedono anche i sogni. Il piano
spirituale, infine, è quello che dà un senso ai piani precedenti e che li rende
funzionali.
Per intenderci meglio, il piano spirituale di cui parlo è rappresentato, in
questo caso, dalle funzioni spirituali dell’uomo che sono da lui percepite
nonostante la pesantezza della materia, come la spinta verticalizzante
dell’esistenza. Questo atteggiamento lo possiamo sintetizzare come un continuo
tentativo di spiritualizzare la materia pensando che le due cose non possono
essere compatibili. Questo però è un processo squilibrato che tende a
demonizzare la parte materiale che comunque ci appartiene per nascita e che deve
svolgere, fino in fondo, la sua funzione. Per equilibrare questa tendenza,
l’uomo dovrebbe materializzare il suo spirito, cioè renderlo presente nella vita
quotidiana e sentirlo partecipe della propria esperienza concreta. Se ciò
accadesse, la sventura si muterebbe in accadimento, il sintomo in simbolo e il
mondo circostante rappresenterebbe un’indicazione continua utile alla conoscenza
di sè.
Nel settimanale "Lo Specchio" di qualche mese fa, ci fu un articolo che parlava
delle ultime scoperte sulle potenzialità e sulla fisiologia del cervello e
questo articolo raccontava: "il mondo esterno, è un mondo astratto, buio e
silenzioso fatto di onde e vibrazioni. Il cervello deve essere presente affinchè
si verifichi una situazione di concretezza fatta di luci e di suoni
comprensibili. Dire ad esempio: "i miei occhi vedono", è inesatto. Sono le
strutture del cervello che vedono, gli occhi si limitano a trasmettere impulsi
elettrici in codice. All’esterno degli occhi non c’è nessuna luce, ci sono
soltanto onde. Qualunque menomazione del cervello riduce dunque la capacità di
decodificare il mondo anche se i sensi sono perfettamente funzionanti."
Prendendo spunto da questo articolo, ci possiamo rendere immediatamente conto di
come la visione umana sia una visione che proviene dall’interno dell’uomo e che
deriva dalla sintesi di processi interni dell’individuo. Antonio Damasio, nella
sua opera "L’errore di Cartesio" sostiene che la mente ha la sua sede nei
processi celebrali, ma essi esistono perchè il cervello interagisce con il corpo
e questo con l’ambiente. Non è tutto scritto nei geni, sono le emozioni e
l’esperienza a dare forma al cervello. In definitiva, il cervello non è un
organo già definito fin dalla nascita, è una potenzialità che si realizza giorno
dopo giorno nell’interazione con il mondo esterno. Allora la visione o meglio la
lettura interiore della visione, è all’origine della nostra esperienza.
E’ evidente come il tema psicologico sia al centro di questa visione.
L’interpretazione fisica della vista, ci introduce in una visione proiettiva del
mondo: l’uomo vede e pensa che il mondo esista all’esterno di lui, ma in effetti
ciò che lui vede è la rappresentazione della sua interiorità, del rapporto che
esiste fra emozione e visione. Se sul piano della realtà fisiologica il mondo
ridotto a un insieme di onde elettriche si impoverisce, sul piano psichico
questo si arricchisce in modo insperato. La visione del mondo, infatti, diventa
una rappresentazione interiore, ma perchè questo sia possibile l’uomo deve
attingere alla sua funzione simbolica che abita in quello scarto fra il vero ed
il verosimile e che continuamente in oscillazione gli permette di non
identificarsi in uno di questi due poli. Tale identificazione produrrebbe
solamente un conflitto coatto, fisso non dinamico.
In un’epoca in cui l’immagine ha più forza del pensiero, la sofferenza interiore
dell’uomo si fa sempre più sottile e indeterminata. I termini usati per definire
i sintomi delle malattie dell’anima sono insufficienti e la tentazione di
costringere in una categoria interpretativa certa il patimento indifferenziato
dell’uomo è un tentativo che, il più delle volte, fallisce miseramente. L’uomo
tenta di definire con sempre maggior precisione i suoi sintomi ritenendo che una
più precisa e puntuale diagnosi lo possa aiutare a guarire meglio.
Il
lavoro analitico dovrebbe, al contrario, proteggersi dalla spirale nevrotica
interpretativa riferendosi invece a categorie non definibili. In altre parole,
l’ansioso atteggiamento del definire in modo certo, dovrebbe con modestia
lasciare il campo all’espressione del "come se".
In genere gli individui quando si trovano a dover spiegare una sensazione
proveniente da un vecchio ricordo o a raccontare un sogno, sono naturalmente
portati a usare questa locuzione che spontaneamente attinge alla capacità
simbolica dell’uomo che quando la ragione è in difficoltà prende il comando del
racconto. Le immagini usate sono lì davanti agli occhi di colui che narra, ma il
senso è spostato altrove, in un contenuto emotivo che si svolge dall’immagine
verso altre profondità dove il linguaggio non può penetrare.
La razionalità separa, cataloga, ordina ed elenca in categorie che spesso tra di
loro si oppongono violentemente. L’individuo è chiamato a scegliere e quando
sceglie, sa che deve abbandonare una cosa per l’altra. Il suo dramma è concreto,
quotidiano, deve essere certo della bontà della scelta che sta per effettuare ma
contemporaneamente si rende conto che non sempre tutto ciò che percepisce nel
suo interno coincide con quello che la ragione lo chiama a realizzare. Jung in
una conferenza tenuta a Vienna nel 1932 dal titolo "La voce interiore" diceva:
"... la nevrosi è dunque una difesa contro l’attività interna oggettiva della
psiche. Ovvero un tentativo pagato abbastanza caro di eludere la voce interiore
e quindi la vocazione. (...) Noi medici dell’anima siamo costretti, per esigenza
professionale, ad occuparci del problema della personalità e della voce
interiore. (...) In genere ci vuole un considerevole sforzo per rendere
coscienti le condizioni psichiche che hanno provocato il disturbo. I contenuti
che affiorato corrispondono però pienamente alla voce interiore ed indicano una
vocazione fatale che se accolta e integrata nella coscienza conduce allo
sviluppo della personalità".
Ma se abbiamo detto, "la ragione separa", "il simbolo unisce" ed ha due
proprietà fondamentali la mediazione e la trasformazione. La mediazione si attua
nella capacità di rendere integrabili opposizioni altrimenti inconciliabili.
L’altra è quella proprietà che permette al simbolo la trasformazione di aspetti
segnici, non più legati alla soddisfazione della sopravvivenza verso scopi
creativi. Secondo Durand la funzione simbolica nasce dall’impossibilità per
l’uomo di fermarsi al senso proprio delle cose. Possiamo affermare allora che la
funzione simbolica spinge l’individuo a superare la realtà oggettiva e ad andare
oltre il fenomeno. La psiche viene a trovarsi al centro dell’esperienza
simbolica dell’uomo e diventa quel luogo dove tutto confluisce e da dove tutto
inizia. La psiche è quel luogo interiore dove l’individuo percepisce che il
senso della propria vita è molto più ampio della relazione causa-effetto in cui
l’Io razionale è confinato, e percepisce anche che le ferite dell’anima sono
molto più profonde di quanto il meccanicismo psicologico ci faccia intendere;
comunque la risoluzione di un complesso ha risonanze ben più ampie della
relazione causale quotidiana.
Riguardo a questo Jung dice:
"la fatica dello psicoterapeuta non va soltanto a beneficio di quel singolo
paziente forse insignificante, ma anche a benificio suo personale e della sua
anima e la sua opera rappresenta un granello, forse infinitesimale, sul piatto
della bilancia su cui posa l’anima dell’umanità".
Ma
per quanto modesto e invisibile possa essere il suo contributo, esso è un
opus magnum perchè si compie in una sfera in cui è da poco migrato il
numen e sulla quale si è spostato tutto il peso dei problemi umani. I
problemi ultimi, fondamentali della psicoterapia, non sono una questione privata
ma rappresentano una responsabilità di ordine supremo. Il problema psicologico
così delineato si configura come un problema spirituale e, viceversa, l’esame
del tema individuale ci fa intuire che trova anche una corrispondenza
nell’approfondimento del percorso spirituale. E allora, se sul piano mentale
siamo di fronte a un sintomo, sul piano psichico ci incontriamo con il simbolo.
Di conseguenza tutto ciò che è reale sarà ugualmente simbolico e
contemporaneamente spirituale. Jung probabilmente accennava a questo quando
affermava che "nessuno può guarire veramente se non si ricollega al proprio
aspetto religioso". Dove il termine religioso indicava il tema spirituale
individuale oppure per dirla con le parole di Filippo:
"... il Signore ha operato tutto in un mistero, battesimo, unzione, eucarestia,
redenzione e camera nuziale. Il Signore ha detto: sono venuto per rendere le
cose di quaggiù, simili alle cose di lassù e le cose esterne simili alle cose
interne. Sono venuto per unirle in quel luogo. Egli si è manifestato in quel
luogo per mezzo di simboli e di immagini".
Possiamo definire, paradossalmente, la sofferenza dell’uomo come la resistenza
da lui prodotta nel tentativo di opporsi ai contenuti psichici che lo chiamano a
realizzare il suo progetto interiore. Nei giorni in cui Eva si trovava in Adamo,
la morte non c’era. La morte sopravvenne allorchè Eva fu separata da lui. Se
rientra in lui e se egli la prende in sè, la morte non ci sarà più. E’ questo
l’obbiettivo del processo di individuazione, la coniunctio oppositorum,
le nozze sacre che equivalgono, sul piano psicologico, ad una perfetta identità
fra coscienza e inconscio. La psiche, organo intermedio fra materia e spirito,
fra vertice ed abisso è la "camera nuziale" dove, dice Filippo, avviene la
redenzione, dove maschile e femminile si uniscono in un abbraccio trasformativo.
"Grande è il mistero del matrimonio senza di esso non ci sarebbe il mondo
giacchè gli uomini sono consolidamento del mondo e il matrimonio è il
consolidamento degli uomini."
Carlo Alberto Cicali
Cercherò
di essere breve, e intanto ringrazio gli amici che mi hanno preceduto perché le
cose che hanno detto mi consentono approfondire direttamente l’argomento di cui
parliamo. Inizierò da una distinzione che fece Michela Pereira, la scorsa volta,
che per me è essenziale, e riguarda il rapporto fra concetto e immagine. Il
concetto è qualcosa che ha a che vedere soprattutto con la ragione, è
l’espressione diretta della ragione; l’immagine invece è legata ai processi
interiori della psiche, in modo così stretto che Jung non esita a dichiarare:
"la psiche è immagine". Cercherò di entrare in questa sede psichica dove,
attraverso le immagini, vengono rappresentati i processi di trasformazione in
atto, ma, per non dilungarmi, voglio portare la vostra attenzione sul piano
concreto della nostra esperienza di vita che, per quanto mi riguarda, consiste
soprattutto, in tutti questi anni di lavoro di psicoterapeuta, nell’esser
testimone di questi processi trasformativi. Ma dove avviene questa
trasformazione? In un luogo ben preciso, che Jung indica, in "Psicologia e
alchimia", parlando appunto della imaginatio; egli dice: "il concetto di
imaginatio è sicuramente una delle chiavi importanti, forse la più
importante per comprendere l’opus..."
E prosegue:
"l’imaginatio,come la intendevano gli alchimisti, è in effetti una chiave
che apre le porte del segreto dell’opus. Il luogo o il mezzo della realizzazione
non sono nè la materia nè lo spirito, bensì quel regno intermedio di realtà
sottile che può essere sufficientemente espressa soltanto dal simbolo. Il
simbolo non è nè astratto nè concreto, nè razionale nè irrazionale, nè reale nè
irreale, esso è sempre l’uno e l’altro".
Cos’è l’imaginatio, questa immaginazione da non confondere con la
fantasia? Ecco, noi abbiamo un corpo, un corpo che si esprime attraverso i
nostri sensi e soprattutto risponde a quelle che sono le nostre pulsioni; quindi
il corpo sente il caldo, il freddo, ecc. In fondo il suo linguaggio è un
linguaggio che reagisce con la propria pulsionalità, con la propria istintualità,
vuole essere appagato nei propri bisogni. La fame deve essere appagata, la sete
lo stesso, ecc., in una parola gli istinti principali che sono in noi così come
negli animali. Il nostro corpo è ciò che ci lega alla natura ed è
sostanzialmente questa parte di noi che ci rende animali. Poiché siamo animali,
noi abbiamo bisogno di essere appagati nei nostri istinti, nella nostra realtà
pulsionale. Ma la realtà pulsionale, nell’uomo, non rimane confinata in se
stessa ma, in qualche modo, diventa in noi "emozione" e smuove la nostra
capacità affettiva. Nell’uomo, quindi, agli istinti animali si aggiungono
l’emotività e l’affettività quali importanti fattori che gli permettono di
entrare in rapporto alla realtà che lo circonda. Gli studiosi del cervello
indicano la prima parte del cervello, il cosiddetto "cervello rettile", quale
sede delle reazioni pulsionali; e nella parte di cervello comune ai mammiferi
superiori l’inizio dell’affettività, dell’affezione come modalità funzionale, ad
esempio, alla cura della prole.
Poi però abbiamo un’altra parte del cervello, divisa in emisfero sinistro ed
emisfero destro, che sono la sede, rispettivamente, delle funzioni superiori,
logiche e creative. Non voglio dilungarmi in questo, voglio però aggiungere che
in noi, dopo le reazioni pulsionali e di affezione, avviene uno scarto
percettivo che innesca una funzione immaginativa. Cioè quella funzione che poi è
il regno della psiche, il luogo dove ci costruiamo un’immagine di ciò che
proviene da dentro e da fuori di noi.
Ciò non esaurisce le funzioni in atto, poiché siamo in grado di costruire
qualcosa ancor più definito trasformando questa immagine in "concetto". Potremmo
dire che attraverso la concettualizzazione, l’essere umano raggiunge il suo
massimo livello di "controllo sulla realtà".
Va però sottolineato che la capacità percettiva delle nostre emozioni
rappresenta un sistema di conoscenza più diretto e immediato, rispetto alla
concettualizzazione. Quando sentiamo una cosa, quando entriamo in
rapporto con qualcuno attraverso il sentire, quasi sempre la percezione è
più diretta, più immediata, più vera di quando invece "capiamo". Il
capire prevede un guardare, un pesare, sentire è sentire direttamente
l’emozione, è qualcosa di più immediato.
Per ritornare all’immaginazione di cui parla Jung, possiamo riassumere: siamo
fatti di queste tre dimensioni, una pulsionale, una immaginativa o psichica e
una concettuale ma, se così è, deve esserci un piano in noi dove queste tre
funzioni si incontrano dando luogo ad una sintesi, un piano dove avviene l’opus,
la trasformazione. Questo piano certo non può essere quello pulsionale perchè il
piano pulsionale consuma subito la propria energia ai fini del soddisfacimento
del bisogno. E non può essere neppure il piano razionale, perchè separa e
concettualizza la nostra realtà e quindi analiticamente provoca un distacco e a
un’astrazione dalle nostre pulsioni in base al quale vediamo molte volte la
nostra mente irrimediabilmente scissa dal nostro corpo. Mente e corpo si
contrastano, con la mente che cerca di arginare e controllare le esigenze
pulsionali sostanzialmente rimovendole ed esponendosi così alla "vendetta delle
pulsioni" che si manifesta attraverso l’insorgere di malattie poiché la mente
non può impedire troppo a lungo agli istinti di manifestarsi.
Mentre il bambino in qualche modo lascia libero sfogo a tutte queste parti, gli
adulti strutturano quello che Freud ha chiamato "Super-Io", col quale cercano di
controllare le profondità delle parti pulsionali che Freud chiamò "Es".
Il problema è appunto questo, che fanno parte di noi due dimensioni in guerra
fra loro.
Oggi,
in Occidente, è certamente la parte più razionale, la parte super-egoica che
prevale nella coscienza e respinge nell’inconscio la parte pulsionale che,
peraltro, interferisce continuamente e pesantemente con l’Io. Noi sentiamo che
c’è una nostra componente pulsionale che volere o non volere, se è troppo
trattenuta, scappa da tutte le parti e ci sommerge, ci "possiede". L’individuo
occidentale è "scisso", vive cioè una vita all’insegna di una razionalità
unilaterale che lo inaridisce, oppure, costretto dal ritorno inflattivo delle
pulsioni rimosse, rimane al livello della sopravvivenza, incapace di un progetto
che migliori la qualità esistenziale. Le due parti dell’individuo scisso
combattono l’una contro l’altra perchè non trovano un luogo di interazione, di
unione. Il luogo dove può avvenire questa trasformazione, la "camera nuziale", è
la nostra immaginazione che non è ciò che comunemente chiamiamo "fantasia" ma è
la funzione dell’immaginare, la "funzione simbolica della psiche", dove
l’immagine che si forma è il risultato dell’incontro fra la "mente" e il
"corpo". In quel luogo di "simbolo" (da "syn-ballein", tenere insieme), se la
nostra parte pulsionale più profonda può astenersi dal soddisfare immediatamente
e inesorabilmente le richieste dell’istinto e in qualche modo si trattiene,
ottiene per così dire di "alzare" il livello della manifestazione energetica.
Allo stesso modo se la razionalità si astiene dalla sua funzione separante e di
controllo concettuale e si lascia andare, "abbassa" la propria capacità di
definire, di dare forma alle cose e, unendosi così all’energia pulsionale nel
luogo intermedio della psiche, dà spazio e modo alla nascita di un’"immagine".
In questo luogo che è il luogo dell’imaginatio, della funzione simbolica,
avviene tutto quello che è stato detto da Michela Pereira, da Dario Squilloni e
Antonio Tirinato. È il luogo della trasformazione, il setting analitico dove
l’analista e il paziente non sono più "due" ma sono "quattro": cioè l’Io
cosciente e l’inconscio dei due che sono entrati in relazione.
Affinché la coniunctio avvenga è evidente che non si deve passare
all’atto pulsionale, cioè l’analista non può possedere fisicamente il paziente o
viceversa, perchè in tal caso l’energia si esaurirebbe nel luogo dei bisogni,
nel luogo della parte pulsionale e dall’appagamento del bisogno. Così come non
si può rimanere, come rimaneva Freud, in quel distacco così dominato dal
concetto, dove la relazione è sostituita da una situazione razionale che si
sottrae al coinvolgimento, e quindi alla possibilità di coniunctio, con le armi
di un’astratta strumentazione scientifica.
La funzione creativa della psiche esige proprio il rischio dell’incontro, in cui
ognuno dei due mette, in ballo la sua realtà immaginativa. Ma questo già avviene
nella vita a ciascuno di noi. A ciascuno di noi, in ogni rapporto, in ogni
situazione relazionale avviene questo anche se non ce ne accorgiamo, e la notte,
nei nostri sogni questo viene soprattutto narrato.
Se non ritorniamo in questo luogo che è l’immaginazione che, come vi ripeto, non
vuol dire rimanere al livello della realtà istintuale e né al livello di quella
razionale e di controllo, falliremo il luogo dove avviene la trasformazione. È
vero però che ce ne siamo allontanati ed esitiamo a ritrovarlo perché
presentiamo con angoscia che in quelle profondità che ci interpellano troveremo
tutti quei contenuti e quelle ferite che ci fanno paura e ci fanno male.
Ritrovare il luogo della trasformazione è una precisa esigenza ma anche un atto
di coraggio, il coraggio dell’Io che deve lasciarsi coinvolgere, come ha
affermato Dario Squilloni, ma non deve lasciarsi sopraffare. L’Io deve
diventare, insieme all’altra persona, alla realtà che lo circonda, testimone di
questo accadimento. Cioè un Io che non è più identificato con le proprie
pulsioni per appagare i propri bisogni, né con la propria razionalità e con la
propria capacità concettuale per poter controllare e descrivere la realtà. È
invece testimone dell’incontro delle parti di sé, esposto al rischio che si
genera ogni volta che qualcosa di sostanziale si trasforma.
Se non recuperiamo questo luogo così importante che è il luogo della nostra
immaginazione pregna di emotività e di istintualità, di coinvolgimento e di
consapevolezza della ragione, non attraverseremo mai un processo che ci permetta
di attuare quella trasformazione che Jung ha chiamato "processo di
individuazione", quella trasformazione che gli alchimisti hanno chiamato "opus"
e quella che anche il cristianesimo, in origine, indicava nel proporre il suo
processo spirituale, e che è andato perso nel corso della storia occidentale. È
andato perso perchè del messaggio cristiano, nella storia, si sono sviluppate
soprattutto la morale e l’ascetica. È diventato quindi più una modalità
pedagogica che trasformativa, modalità tesa al controllo degli istinti
piuttosto che alla loro trasformazione all’interno della realtà psichica fino al
luogo più profondo che è il "luogo del cuore", il "viaggio dei mistici".
La mistica non è un percorso ascetico, ma un viaggio nella realtà più
profonda dell’uomo che è appunto la realtà immaginativa e trasformativa. A pieno
titolo, quindi, Michela Pereira può affermare la distinzione da lei proposta fra
alchimia e scolastica, poichè la scolastica in fondo fu la razionalizzazione di
una teologia che escludeva la mistica in favore di un orientamento pedagogico;
la parola stessa "scolastica" evidenzia l’adesione ad un atteggiamento teso più
ad "imparare" che ad "esperire".
Se non recuperiamo nella nostra vita e nel mondo occidentale quel luogo dove
avviene tutto questo che, come ripeto, è il luogo dell’immaginazione simbolica,
non avremo mai nessuna vera trasformazione, perchè avremo soltanto una
personalità scissa, divisa fra il soddisfacimento dei bisogni istintuali
attraverso la nostra parte pulsionale, e il controllo illusorio della realtà
intorno attraverso la parte razionale.
Da:
http://www.centroicone.it/aspetti.htm#IndiceVolume
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